Women Up, storie di donne e lavoro. Martina e l’ambiente maschilista in ospedale: “Come chirurga vivi svalutazioni continue”

Women Up, storie di donne e lavoro. Martina e l’ambiente maschilista in ospedale: “Come chirurga vivi svalutazioni continue”

Mobbing, gender gap, diritti negati, parte una nuova serie dedicata a tutte le donne che si scontrano con il soffitto di cristallo e che hanno deciso di denunciare la loro situazione. Con l’aiuto di esperti ogni giovedì affronteremo un caso

Se desiderate raccontare la vostra storia potete scrivere a donnelavoro@repubblica.it e la redazione la valuterà

di Sarah Victoria Barberis

5 minuti di lettura

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La promozione che non arriva mai, ma che è sempre pronta per un collega uomo. Gli apprezzamenti sul proprio aspetto e le battutine su mestruazioni, isterismo & co. La falsa gentilezza di non essere mai inserite nei turni di lavoro più “disagevoli” che, guarda caso, sono la condizione per ottenere piccoli privilegi. Lo stipendio sempre, inesorabilmente, più basso di quello degli uomini. La maternità che sembra causa di un improvviso azzeramento delle nostre competenze professionali. La condiscendenza con cui i colleghi ci spiegano cose di cui noi abbiamo una padronanza assoluta e loro meno. Potremmo andare avanti a lungo a elencare piccole e grandi indizi di una mancata parità di genere nel mondo del lavoro, condizione che vede l’Italia tra i Paesi meno virtuosi in Europa.
Per raccontare la realtà in cui le donne lavorano abbiamo deciso di raccogliere le vostre storie e poi affrontare il caso con esperti che ci aiutino a trovare soluzioni o almeno a capirne i confini. Se anche voi desiderate raccontare la vostra storia potete scrivere una mail a donnelavoro@repubblica.it e la redazione la valuterà per la pubblicazione.

Intanto questa settimana partiamo con la storia di Martina, che fa un lavoro apparentemente privilegiato: è chirurga. Ma che ci racconta le continue svalutazioni che lei e le sue colleghe sono costrette a subire.

Cara redazione,

vi scrivo perché sono stanca di combattere lotte a cui sembra che importi solo a me. Vero che se ne parla, ma poi nella realtà non si fa molto. Io lo vedo nel mio settore, la medicina. Già è una fatica enorme, come mestiere intendo. Ma per una donna, emergere, prendersi un ruolo dirigenziale, è molto più difficile e detesto chiunque mi dica che sto esagerando, che non è vero. Non veniamo neanche prese in considerazione. Io poi mi sono scelta una crociata impossibile: chirurgia. Nella mia area essere una donna significa andare incontro a svalutazioni continue. “Se hai il ciclo come fai a reggere le mille ore in sala?”. “Se fai figli non farai abbastanza esperienza” e viceversa “Se dedichi la tua vita ad aprire corpi come puoi pensare di farti una famiglia?”.

Molti danno per scontato che, siccome sei donna, semplicemente non hai la stoffa, punto. Io, rispetto al collega di sesso maschile non vengo formata perché tanto è solo questione di tempo prima che mi rimetta in maternità. Una volta dichiarato lo stato di gravidanza non si mette più piede in sala operatoria e questo vuol dire non toccare un ferro per un anno almeno. Dopodiché, se hai un figlio ti vengono appioppati compiti come chiusura cartelle, organizzazione sale e mai una volta che mi venga data una notte che da noi è un modo per accumulare ore e magari ogni tanto uscire prima o entrare dopo, che a me farebbe comodo. E il motivo è proprio che ho un figlio e quindi la notte “devi stare con lui” (Io non posso scegliere, giusto?). Non parliamo poi di andare ai convegni. Di recente c’è stato un congresso con i più grandi luminari del mio ambito. Secondo voi chi va completamente spesato, a fare da relatore, per tre giorni in una prestigiosa località di mare: io o il mio collega maschio? Chi è che rimane a fare cartelle e visite in ospedale? Provate a indovinare. Il primariato è un mondo soggetto a baronie da sempre, e questa baronia, che già esclude alcuni, mette interamente alla porta la categoria delle donne. Se provi a farlo presente sei - testuali parole - “una femminista di merda”. Se non discuti e speri nella buona coscienza di qualcuno arriva subito un “non fare la santarellina". Il mio superiore si accorge di me quelle rare mattine in cui trovo l’entusiasmo e la forza di mettermi un filo di trucco e piastrarmi i capelli. Ma attenzione, non devo neanche esagerare. Se arrivo pulita e ordinata, senza trucco e parrucco, ecco che mi danno della sciatta, neanche troppo velatamente. Stamattina me ne sono resa conto in metro, qui a Torino, fermata Molinette. C’era una vetrofania che celebrava l’eccellenza delle Molinette, uno degli ospedali più grandi in città. Secondo voi quale genere sessuale era stato scelto per disegnare il medico, professionale e competente, e quale per disegnare l’infermiera, subordinata, premurosa e accudente? Cosa devo fare se anche un giro in metro mi fa imbestialire?

Martina, una chirurga incazzata

L’analisi di Francesca Parviero, esperta in cultura del lavoro inclusiva ed equa ed empowerment femminile

Cara Martina,

intanto a te tutta la nostra stima per reggere un ambiente che dovrebbe dedicarsi alla cura e invece suona tossico e pesante. Sei sicuramente una pioniera e a te va tutto il nostro sostegno. Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità seppure le donne impiegate in ambito medico siano il 70% del personale totale, solo il 25% di loro è in posizione di leadership. Secondo il rapporto dell’Osservatorio sulle aziende e sul sistema sanitario italiano del 2023 la distribuzione dei direttori generali delle aziende sanitarie pubbliche è ancora dominata da uomini over 60, mentre le donne sono un risicato 21%, quasi ovunque tranne che in Emilia-Romagna, Toscana e Marche. L’unica speranza che ti possiamo dare è che effettivamente nel 2000 i direttori generali di sesso femminile erano appena il 2% del totale e questo potrebbe parlarci di una, seppure lentissima, crescita progressiva.

Ma è necessario, come ci racconta Francesca Parviero, esperta in cultura del lavoro inclusiva ed equa ed empowerment femminile, fare azioni di incidenza con maggiore impatto pratico: “Durante la pandemia il consulente scelto dal governo per la ricostruzione del Paese aveva costituito dei team composti da soli uomini. Con altre undici donne decidemmo di dare vita a un movimento chiamato Dateci Voce, per chiedere che venissero inserite le donne, pensando per prima cosa a voi, che eravate sul campo, distrutte di stanchezza e di angoscia, tra la professione e la distanza dalle vostre famiglie. Abbiamo raccolto firme e creato una giornata di contestazione, coinvolgendo centinaia di migliaia di persone, anche fuori dall’Italia. E ce l’abbiamo fatta. Bisogna fare baccano e costruire alleanze: è il momento di prendersi la responsabilità per la propria carriera, in qualunque forma la si desideri, e mettere dei confini chiari. Tutelarsi in questo caso significa soprattutto trovare sostegno.
Un primo supporto potrebbe proprio venire da altre donne professioniste della sanità, attraverso associazioni di settore specifiche come Donne leader in Sanità, Donne protagoniste in sanità o Associazione Donne Medico che svolgono azione di sostegno e di advocacy per le donne medico. Comincia partecipando alle convention, prendendo un appuntamento per un colloquio o semplicemente mandando una mail raccontando la tua storia, come hai fatto con noi. Potresti scoprire che non sei sola, anzi. Associazioni come queste assolvono un triplice scopo: offrono accesso a un ampio bacino di dati e informazioni riguardanti lo stato occupazionale delle donne nella sanità, ti possono sostenere nella formazione continua per sviluppare la tua posizione lavorativa e ti permettono di avere più potere in sede di negoziazione. Infine, cosa più importante, fare rete con altre donne medico potrebbe aiutarti a procedere sulla via della denuncia interna. Si tratta di una comunicazione ufficiale da inviare alla direzione sanitaria per far emergere le iniquità. Questa comunicazione potrebbe avere più forza se firmata da diverse persone e potresti quindi cominciare a interpellare altre colleghe, per vedere se hanno avuto esperienze simili. Ovviamente in questo caso ti consiglio prudenza e buon senso.

La direzione, ascoltata la tua?vostra storia, potrebbe decidere di far partire una segnalazione ai diretti interessati, più discreta, oppure un provvedimento disciplinare, nei casi più gravi. Questa comunicazione dovrà essere condivisa con referenti di linea e risorse umane - se la tua azienda ospedaliera ne è provvista - e sicuramente provocherà prima dei malumori e poi dei cambiamenti. Proprio come un paziente aiuta il dottore segnalando dove prova dolore, così anche noi siamo chiamate ad aprire bocca e dire dove fa male, piuttosto che stare male in silenzio. Più persone riescono a identificare e denunciare comportamenti scorretti e pratiche discriminatorie più il sistema riuscirà a disfarsi di atteggiamenti vecchi e ormai, possiamo dirlo, malsani. Ovviamente se sceglierai di parlare potresti avere bisogno di un supporto ulteriore come un career coach o un consulente del lavoro che ti dia strumenti per reagire in modo puntuale se si dovessero verificare situazioni di disagio. Più alta è l’attenzione e la consapevolezza su questi temi, e più gli ospedali saranno costretti a prendere in considerazione l’iniquo divario, fosse anche solo per proteggere la reputazione. Forzature positive cambiano il mondo”.

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