Dove finisce la sanità, inizia l’algoritmo
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Dove finisce la sanità, inizia l’algoritmo

Anche se è contenta di avere una diagnosi che da finalmente un nome ai suoi dolori articolari, nella video-confessione Barbara piange a dirotto. C’è la stanchezza, perché convive già con altre due malattie - la fibromialgia e l’endometriosi; c’è la paura verso un decorso clinico incerto e la gestione di nuove terapie, con potenziali effetti collaterali; e c’è anche la rabbia, perché gli specialisti consultati fino a quel momento non erano riusciti a inquadrare il problema, facendola sentire sminuita nella sua sofferenza (in gergo social, si direbbe che hanno “invalidato” i suoi sintomi).

Siamo su Instagram e sarebbe facile incasellare questo tipo di contenuto nel sadfishing, un fenomeno social comparso di recente e che vede migliaia di utenti, per lo più giovani e giovanissimi, versare lacrime a favore di fotocamera – letteralmente significa “catturare all’amo” (-fishing) l’attenzione altrui attraverso “emozioni tristi” (sad-). I più critici ritengono che sia solo un ennesimo modo di fare il pieno di like, mettendo in piazza questioni molto intime, e ottenere maggiore visibilità, magari da poter monetizzare. Ma se non fosse solo così?

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*Forse non sai che si autodefiniscono spoonies i pazienti-utenti che convivono con malattie croniche e invalidanti (sui neologismi della salute social farò un’edizione dedicata)

Lo so: sono contenuti difficili da comprendere, soprattutto se non si frequentano abitualmente le piattaforme e non si è abituati al linguaggio social che è così distante da quello clinico-sanitario; a volte possono persino essere disturbanti. Però, in realtà, sono lo specchio di un rapporto con la nostra salute che si è evoluto di pari passo all’ecosistema digitale: raccontano che la malattia non è più vissuta solo nel privato ma è diventata pubblica, che i pazienti oggi sono più attivi (a volte, anche attivisti) e hanno bisogno di fare rete come parte integrante del loro percorso di cura, e che quando la sanità non riesce a rispondere adeguatamente ai bisogni dei malati, i social network rappresentano un approdo (più o meno sicuro) per confrontarsi ed eventualmente trovare supporto.

Stephen A. Rains, professore di comunicazione all’Università dell’Arizona, offre degli spunti interessanti nel suo libro ‘Coping with Illness Digitally’ per capire le motivazioni per cui si va online a esporre la propria fragilità durante la malattia e magari versare qualche lacrima. E’ l’unico che approfondisce il tema e ha il merito di raccogliere la letteratura disponibile seppure sia sparsa, variegata e per lo più basata su studi qualitativi – è quindi anche un monito a fare di più in termini di ricerca scientifica. Seppure Rains si soffermi più su interpretazioni che evidenze, emergono due punti chiave: l’esibizionismo non motiva i pazienti a raccontarsi online. Piuttosto è la relazione insoddisfacente con i propri medici curanti a spingerli sul web.


Quello che i pazienti (non) dicono

I racconti online di malattia possono essere risorse preziose per la ricerca, la clinica e le politiche sanitarie, seppur entro alcuni limiti.

Cito sempre l’esempio virtuoso di Patientslikeme, uno spazio digitale creato nel 2004 dai fratelli Jamie e Ben Heywood, ispirati dall’esperienza del fratello Stephen, ammalato di sclerosi laterale amiotrofica, che faticava a gestire la malattia nonostante seguisse le indicazioni degli specialisti e le terapie corrette: da lì, l’intuizione che servisse parlare di più di illness, ovvero l’esperienza della malattia, che a farlo potevano essere soltanto i pazienti che la vivono in prima persona, e che Internet offrisse delle stanze di dialogo e ascolto che, lontano dagli schermi, non esistevano o erano comunque poche o poco accessibili – guardandoci attorno, è una situazione rimasta invariata ancora oggi. In vent’anni, la community in lingua inglese dei fratelli Heywood ha ospitato discussioni peer-to-peer (ovvero da paziente a paziente) su quasi tremila condizioni cliniche, e oggi conta oltre ottocentocinquantamila membri. I contenuti raccolti sono anche convogliati in alcune pubblicazioni scientifiche.

Post, stories e commenti veicolano il vissuto spontaneo e quotidiano della malattia che non sempre è intercettato dagli studi clinici.

Certo, è bene tener conto del funzionamento intrinseco di ciascun canale, che può influenzare i comportamenti degli utenti e le narrazioni condivise. Su portali come Patientslikeme o forum creati appositamente si fa moderazione di contenuti e forse c’è anche una maggiore consapevolezza dei pazienti-utenti che li frequentano sul possibile impatto che alcune conversazioni o temi sensibili potrebbero avere sugli altri malati.

Sulle piattaforme social più in voga, come Instagram, YouTube o TikTok, il clima è più caotico: da un lato c’è una maggiore libertà di espressione dei pazienti, e questo può servire a sollevare alcuni bisogni o criticità del percorso di malattia che sono loro cari, a scapito però dell’attendibilità dei messaggi postati; dall’altro le community sono “aperte”, ovvero non sono più costituite solo da malati ma anche da follower o utenti di passaggio sani, e questo innesca delle dinamiche nuove dove un po’ si sgretola quel peer-to-peer che porterebbe a benefici tangibili.

Le narrazioni di malattia in qualche caso finiscono per allinearsi a tutti gli altri tipi di contenuti che funzionano su quei canali – polarizzati, emotivi o, comunque, che intrattengono (nel senso proprio di trattenere gli utenti sulle piattaforme)

Questo spinge chi lavora nel settore salute a liquidarli sbrigativamente, ignorandone il valore informativo. Che c’è, in ogni caso. 


Opportunità e rischi

Torniamo alla video-testimonianza di cui ti ho parlato all’inizio: ha ottenuto finora oltre 4 mila like e commenti. Sono numeri significativi (e in crescita) su cui si possono fare delle osservazioni:

>> la malattia sui social si sviluppa a matrioska – non solo a strati, dal livello individuale a quello collettivo della narrazione, ma anche in community impilate l’una sull’altra: in questo caso, il tema è la spondiloartrite ma ha attirato molti utenti dalle “bolle” delle malattie uro-genitali femminili e delle neurodivergenze (incontreremo da vicino queste grandi community prossimamente, non preoccuparti)

>> è forte l’intersezione tra malattie, disabilità e mondo LGBTQ+ - si è partiti dalla marginalizzazione di chi non è sano/abile/conforme e si è arrivati oggi alla nascita di linguaggi comuni di resistenza, cura e rivendicazione del corpo

Alcuni messaggi condivisi nel video della ragazza sono, però, fuorvianti e rischiano di condizionare negativamente gli utenti, sani o malati, ricostruendo un quadro di malattia impreciso. Ad esempio, si parla di gravi effetti collaterali dei farmaci biologici (troppo generico), si danno per scontate delle disuguaglianze di accesso a terapie costose (non è detto) o che ormai si arriva alla diagnosi solo tramite il passaparola sui social (può accadere ma non è certo la regola).

Ma, prima di dare l’allarme disinformazione (quando hai un background medico-scientifico la tentazione è forte, lo so), continuiamo a guardare oltre il contenuto. Ti inviterei a soffermarti su un ultimo dettaglio: Barbara sostiene di aver registrato il suo messaggio di getto, appena dopo aver lasciato l’ospedale dove ha ricevuto una nuova diagnosi inaspettata. 

Ciò porta a fare due riflessioni.

1. Si dovrebbe fare di più per insegnare ai pazienti a stare consapevolmente sui social, a tutela di se stessi e degli altri.

Questo passa inevitabilmente dall’avere una consapevolezza profonda della propria malattia: gettarsi online quando non si è ancora “digerita” e accettata una diagnosi, può portare a non saper distinguere informazioni corrette da quelle false, e rendersi ancora più vulnerabili a comportamenti rischiosi (della delicata fase di blackout post-diagnosi ne parla da tempo EngageMinds HUB )

2. Non posso fare a meno di chiedermi come sia stata comunicata la nuova diagnosi alla giovane ragazza tanto da spingerla, confusa dalle informazioni ricevute dallo specialista, a premere ‘play’ sullo smartphone dopo la visita.

L’abitudine, la giovane età, il sadfishing, potrebbe sostenere qualcuno: o forse che non si è sentita accolta nell’ambiente sanitario? A riprova che il racconto social di malattia è legato a doppio filo alla comunicazione medico-paziente più di quanto si sia disposti ad ammettere.

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#salute #comunicazionesanitaria #digitalhealth #medicina #socialmedia #malattia #patientengagement #healthcommunication


roberta ceudek

Communication &PR Specialist

3 mesi

Una visione originale e al passo con i tempi e con la sovraesposizione che ormai impera. Perennemente online, a ogni livello. Tutto ciò richiede un cambio di paradigma anche riguardo il concetto di "malattia"...

Ornella Gonzato

Founder & President of Fondazione Paola Gonzato ETS; Founder & CEO of Trust Paola Gonzato-Rete Sarcoma.Onlus; Cavaliere della Repubblica

3 mesi

Grazie Cinzia Pozzi per la condivisione. Molti spunti di riflessione. Luci e ombre di un contesto di cui non si può più non tener conto. Una nuova realtà che richiede un’analisi attenta e una maggior consapevolezza dei rischi e delle opportunità, sia per i pazienti sia per i professionisti sanitari.

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