E se i social fossero progettati per favorire socialità invece che “loneliness”?
La piccola grande differenza tra stare da soli e sentirsi soli.
Secondo Daniel Cox, direttore del Survey Center on American Life, il prezzo che dovremo pagare per un futuro di intelligenza artificiale è una crisi diffusa di “loneliness”.
In italiano si traduce con solitudine, ma in inglese esistono due termini, alone e lonely, e non sono affatto sinonimi.
L’ho studiato ai tempi del liceo con una professoressa di quelle che lasciano il segno, e ieri sera, dibattendo di intelligenza artificiale, la mia memoria ha ripescato quella poesia di William Wordsworth di cui ancora ricordo tutto, incluse le note a margine: "I wandered lonely as a cloud, or The Daffodils", pubblicata nel 1807 in pieno romanticismo inglese.
Una delle note prese a matita e poi evidenziate con diciotto colori diceva: “lonely means SAD because alone”.
La differenza tra stare da soli (alone) e sentirsi soli (quindi tristi, lonely) non è banale.
Lo capisci meglio con gli anni e in particolare in questi tempi di emergenza per la salute fisica e mentale.
Dicono che sentirsi soli, ha lo stesso impatto di fumare 15 sigarette al giorno (U.S. surgeon general, 2023).
I report sull’aumento dei casi di loneliness sono allarmanti soprattutto per la generazione Z. E’ in atto una tendenza preoccupante all’isolamento: i giovani americani tra i 15 e i 24 anni hanno sempre meno amici stretti e la media del tempo trascorso in compagnia è scesa da 2,5 ore al giorno a meno di 40 minuti.
Per fortuna siamo in Italia. Sì, ma…starei all’occhio.
Intanto anche qui Calcutta canta:
Sembriamo tutti più soli qui al nord/ Ma che ne so, ma che ne so di te/ Della tua loneliness (loneliness)/ Della tua loneliness (loneliness)
Sembra che il ruolo dei social media non sia stato neutro in questo processo, per il modo in cui catturano la nostra attenzione facendo leva sulla necessità umana di socialità per poi condurci nel circolo vizioso che sortisce l’effetto opposto.
Le stesse persone guidate dalla ricerca di connessioni e stimolate a condividere successi e traguardi finiscono per sentirsi inadeguate o escluse nel confronto tra il 100% della propria vita reale e meno del 50% rivelato di quella altrui.
Salta l’empatia, e trionfa il sentirsi soli, loneliness.
In questo scenario già piuttosto fragile l’intelligenza artificiale potrebbe, me non è detto, rappresentare una bomba.
Insomma, se non ho mai temuto che l’intelligenza artificiale mi rubasse il lavoro, qualche domanda in più sull’impatto che potrebbe avere sulle relazioni me la sto facendo, mentre la vedo insinuarsi in modo subdolo in ciò che è la natura stessa di noi esseri umani sociali.
Cosa possiamo fare?
Imparare a stare da soli, alone, è un buon punto di partenza secondo me.
Ci sono diversi studi e almeno sette ragioni scientificamente provate sul perchè trascorrere tempo in solitudine sia così importante (Forbes, Morin 2017):
Duecento anni prima che la tecnologia facesse il suo ingresso massiccio nella nostra vita, Henry David Thoreau decideva di ritirarsi in una capanna sul lago a scrivere (Io cammino da solo, diari 1837-1861) portando con sé tre sedie: una per la solitudine, due per l’amicizia, tre per la compagnia. Aveva capito tutto.
“Per la maggior parte, noi siamo più soli quando usciamo tra gli uomini che quando restiamo in camera nostra. Un uomo che pensi o lavori è sempre solo – lasciatelo stare dove vuole. La solitudine non è misurata dalle miglia di distanza che si frappongono fra un uomo e il suo prossimo.” Henry David Thoreau
La mia ricetta è questa: Solitudine--Empatia--Conversazione--Socialità.
Pochi sanno stare da soli, anzi sono terrorizzati dalla solitudine, eppure ci serve saper stare da soli proprio per costruire socialità.
Un paradosso?
No.
C’è una spiegazione molto chiara che ho ritrovato nelle parole di Sherry Turkle, sociologa e tecnologa illuminata definita “la paladina della conversazione”:
“Per sentire di più e per sentirci più noi stessi, ci connettiamo. Ma nella fretta di connetterci, fuggiamo dalla solitudine. Col tempo, la nostra capacità di stare separati e poi riunirci diminuisce. Se non sappiamo chi siamo quando siamo soli, ci rivolgiamo ad altre persone per sostenere il nostro senso di sé. Ciò rende impossibile sperimentare pienamente gli altri per quello che sono. Prendiamo da loro ciò di cui abbiamo bisogno a pezzetti; è come se li usassimo come pezzi di ricambio per sostenere il nostro fragile io.”
In altre parole, meno sappiamo stare da soli e godere della gioia della solitudine, meno ci conosciamo, meno riusciamo ad attivare empatia aprendoci ad una reale conversazione in grado di creare un legame sociale.
E così il panico del sentirsi soli, lonely, si sostituisce alla gioia dello stare da soli, alone.
La socialità che troviamo sui social è fatta di relazioni basate sulla ricerca di conferme più che sull’ascolto.
E se la tecnologia fosse progettata per stimolare l’empatia invece che l’approvazione?
Se lavorasse sul nostro cervello attivando anche gli ormoni delle interazioni sociali che producono fiducia e riducono lo stress (ossitocina) invece che puntare tutto su quelli della gratificazione immediata (dopamina)?
Mi piace immaginare un social network in cui mi venga chiesto di condividere di un progetto le lezioni apprese invece che le medaglie ricevute, di una ricorrenza lavorativa una riflessione sul valore di quello che sto facendo, di una festa lo spirito che l’ha animata e che ne ha fatto il successo.
Ma è possibile che io mi debba congratulare con una persona per il solo fatto che da 5 o 10 anni è nella stessa azienda? E se non ci stesse bene? Se fosse lì perché non trova la forza di prendere in mano la propria vita e cambiare? Sarà più utile dargli il coraggio di prendere in mano la propria vita piuttosto che congratularsi e stringergli ulteriormente le catene, o no?
Non c’è tempo.
Certo se le persone dovessero conversare con la media di 500/1000 contatti per ogni piattaforma il tempo di una vita non basterebbe.
Esiste un valore, contestato ma ragionevole che fissa a 150 il numero massimo di relazioni stabili che una persona può mantenere. Si chiama numero di Dunbar e magari negli ultimi anni possiamo pensare che sia aumentato grazie alla tecnologia, ma di quanto?
Non c’è tempo.
Eppure i dati riportano che solo in Italia trascorriamo in media 1 ora e 46 minuti sui social ogni giorno, la media mondiale sale a 2 ore e 23 minuti. (Global Web Index, 2023)
A fare che cosa? Scrollare per la dose quotidiana di dopamina e gratificazione, che passa con la stessa velocità con cui arriva.
Meglio forse ritagliarsi qualche ora di solitudine allora.
Io lo faccio da anni e un beneficio crescente sulle mie conversazioni l’ho notato in effetti. Provo a mettermi in ascolto, anche delle persone con cui la conversazione avviene esclusivamente online, con una necessaria selezione che negli anni ha decisamente ridotto la quantità e aumentato la qualità della mia socialità.
Ma è nella vita reale che ricevo il massimo valore, sia dal coltivare i cosiddetti “legami deboli”: due chiacchiere con i baristi, al mercato, con i vicini di casa, con tutti quelli che rispondono allo sguardo con un sorriso e due parole di cortesia; sia dall’impegno sui “legami forti” dalla famiglia agli amici stretti, che sono pochi così da poter tenere conversazioni faccia a faccia frequenti.
Con uno di loro proprio pochi mesi fa in una delle nostre merende filosofiche si conversava a proposito di utilizzo dei social media per aggregare comunità fisiche in luoghi reali da riqualificare, piattaforme che si facciano promotrici di quelle amicizie vere come la nostra che dura da oltre 30 anni e che si è creata proprio studiando “The Daffodils”.
Sarebbe bello, no more loneliness.
The Daffodils - or I wandered lonely as a cloud.
di William Wordsworth
I wandered lonely as a cloud
that floats on high o’er vales and hills,
when all at once I saw a crowd,
a host, of golden daffodils;
beside the lake, beneath the trees,
fluttering and dancing in the breeze.
Continuous as the stars that shine
And twinkle on the milky way,
They stretched in never-ending line
Along the margin of a bay:
Ten thousand saw I at a glance,
Tossing their heads in sprightly dance.
The waves beside them danced; but they
Out-did the sparkling waves in glee:
A poet could not but be gay,
In such a jocund company.
I gazed – and gazed – but little thought
What wealth the show to me had brought:
For oft, when on my couch I lie
In vacant or in pensive mood,
They flash upon that inward eye
Which is the bliss of solitude;
And then my heart with pleasure fills,
And dances with the daffodils.
Vagavo solitario come una nuvola
che fluttua in alto sopra valli e colline,
quando all’improvviso vidi una folla,
una schiera, di narcisi dorati;
vicino al lago, sotto gli alberi,
tremolanti e danzanti nella brezza.
Intermittenti come stelle che brillano
e luccicano nella Via Lattea,
si estendevano in una linea infinita
lungo il margine della baia:
con uno sguardo ne vidi diecimila,
che scuotevano il capo in una danza briosa.
Le onde accanto a loro danzavano; ma esse
superavano in gioia le luccicanti onde:
un poeta non poteva che esser felice,
in una tale compagnia gioiosa.
Osservavo – e osservavo – ma pensavo poco
a quale ricchezza un tale spettacolo mi avesse donato:
poiché spesso, quando mi sdraio sul mio divano
in uno stato d’animo ozioso o pensieroso,
essi appaiono davanti a quell’occhio interiore
che è la beatitudine della solitudine;
e allora il mio cuore si riempie di piacere,
e danza con i narcisi.
“Lonely means Sad because alone”….con un po’ di ritardo, la differenza ora è chiara, grazie Agnese (la nostre profe, come si dice a Brescia).
PIGRECO ADVISOR srl - Founder & Advisor
1 annoCondivido pienamente Alberto. I social (tutti) sono costruiti su algoritmi guidati ...e come tali possono solo avere obbiettivi che nulla hanno a che vedere con le necessità "sociali" dell'animale uomo
Founder & Creative Director at FABRIC Integrated Architecture
1 annograzie Agnese.. e grazie Sara, mi hai fatto commuovere, salutami il Callu alla prossima merenda
Presidente - Partner presso Lombardini22
1 annoGrazie per la riflessione
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1 annoDifficile farsi la domanda giusta… credo che il dilagante ruolo del virtuale nella nostra vita non porterà nulla di buono Ho approfittato del cambio di telefono per eliminare le app social, LinkedIn a parte. Non ne sento la mancanza e, anzi, ho maggior desiderio di interazione fisica Sarà un caso, una eccezione ma gli algoritmi dei social lavorano contro di noi
Marketing and Digital Strategy Advisor
1 annoPer me questa cosa è sempre stata “la passeggiata da solo sul monte di Provaglio”, poi sostituita per forza maggiore dalla “passeggiata serale da solo per le vie di Milano”, poi “in Maddalena” e così via. Non lo sport, l’esercizio, lo spostamento funzione, ma la passeggiata senza scopo, fermandosi ogni tanto a osservare e basta, a contemplare. In questo senso credo che l’ urbanistica sia sullo stesso piano della UX design: l’ambiente che viene creato e che ci viene posto davanti nostro malgrado, quando non possiamo più essere in un contesto completamente naturale - che poi, cosa vuol dire naturale? - ha un impatto sul modo in cui usiamo il nostro tempo, sulla possibilità o meno di creare occasioni di contemplazione. Eppure, i narcisi si manifestano sempre a chi ha il contegno adeguato per vederlo, mai a chi è già troppo lonely per riuscire a vederli.