La resurrezione della lotta di classe

La resurrezione della lotta di classe

C’è uno spettro che si aggira nel dibattito politico e sociale contemporaneo, ed è la lotta di classe. Lo spettro compare ancora, sembra avere voce dalle mura di Elsinor, ma non può agire nel mondo reale. Il re assassino è il modello dominante: la tecnocrazia fondata sul criterio dell’efficienza. Le scelte politiche oggi non riguardano i fini, ma i mezzi, gli strumenti e i dispositivi più efficaci per raggiungere obiettivi dati. In gioco c’è l’effettività dei diritti individuali.

Tale approccio è fondato su un presupposto indiscutibile, un assioma: l’individuo persegue i propri interessi. Il modello di riferimento è molto più Mandeville che Smith, il perno della costruzione sociale è l’individuo che opera per il proprio interesse così facendo concorre al benessere della collettività. La “simpatia” di Adam Smith è fatta fuori senza molti scrupoli, né si tiene in considerazione di concetto di “riconoscimento” di Hegel ed Honneth. Amartya Sen con il suo insistere su una giustizia pratica, fondata sull’osservazione delle ingiustizie concrete, ha tentato di riportare i sentimenti nel dibattito, in particolare con il concetto di “indignazione” che ha a che fare in modo molto stretto con l’empatia. Ugualmente sembra che l’umanità nelle cose umane sia stata spazzata via dal calcolo e dall’elaborazione razionale. Senza l’approccio citato di Sen, di osservazione delle ingiustizie concrete, vivremmo in un mondo perfetto. Qualcuno pensa anche che siamo arrivati ad una situazione di ottimo paretiano: non è possibile migliorare la condizione di un soggetto senza peggiore la condizione di altri. Se nel sistema consideriamo il pianeta nel suo complesso questo esito sembra autoevidente. Ma lo è anche limitandoci al consesso umano e addirittura ai confini nazionali, se guardiamo l’incidenza significativamente maggiore del carico fiscale in base alla classe sociale e l’imposizione che incredibilmente scoraggia il lavoro rispetto alle rendite. Per migliorare le condizioni di alcuni gruppi per forza di cose si dovrà peggiorare la condizione di altri.

Negli ultimi quarant’anni si è imposto un sistema che sulla base dell’individualismo assoluto ha posto la concorrenza come regola fondamentale della convivenza. La concorrenza ha un fratello gemello, diversamente da lei molto amato, il merito. Mettere in discussione la concorrenza significa mettere in discussione il principio del merito e dunque l’operazione diventa incredibilmente impopolare. Eppure il merito è identificato, anche qui con un assunto discrezionale, come qualità personali più impegno. Chi ha le migliori qualità e dedizione ottiene le posizioni migliori nella gara sociale (nel modello teorico, ovviamente, la realtà, come sappiamo, è comunque diversa). Ora, dato che la distribuzione di partenza di capitale sociale, culturale e relazionale non è omogenea e dato che la disponibilità delle forme di capitale ha incidenza nella competizione, essa è già in partenza minata da un principio di ingiustizia. In più anche la distribuzione di qualità personali e dedizione è un effetto e non la causa della classe sociale famigliare. Così a ingiustizia si somma ingiustizia. Dunque un mondo fondato sul principio di concorrenza per forze di cose sarà un mondo ingiusto anche sul piano astratto: per il punto di partenza diverso nella gara sociale, per una definizione del merito che valorizza le qualità possedute da alcune classi e non altre, perché ogni atto di miglioramento di alcuni avrà impatto negativo su altri.

Forse conviene ripartire dall’Adam Smith di Teoria dei sentimenti morali, dal principio di riconoscimento di Honneth per ripensare il modello sociale. Ma lo possiamo fare solo da una prospettiva di conflitto: la visione del mondo delle élite che detengono capitale economico, culturale e relazionale è un sistema solido tanto che viene presentato come opzione “naturale” quando naturale non è. Scientifica, quando in nome di tale scientificità ha deliberatamente eliminato dal sistema sociale l’elemento propriamente umano, che distingue l’uomo reale dall’homo oeconomicus.

Una prospettiva politica che si presenta come ecumenica nasconde per forza di cose la tutela di interessi di classe, proprio perché espressione di una ideologia tecnocratica che vede i fini come già dati e non mette in discussione i principi su cui quei fini sono costruiti. È il destino ad esempio del PD che aderendo in modo acritico all’ideologia individualista, dunque del merito, dunque del governo della tecnica e della competenza come gestione efficace della cosa pubblica, dimentica le dinamiche conflittuali in essere, tra tutte l’evidente discriminazione del carico fiscale. In fin dei conti il PD si propone come partito di tutti, quando in realtà è percepito come il partito dell’alleanza delle rendite, che si contrappone, paradossalmente, agli interessi di chi lavora.

Dunque sembra rivoluzionario ritornare ad una considerazione dell’umano anche nel suo carattere sociale, non tanto assumendo (ingenuamente) come vera una generosità naturale, ma semplicemente ammettendo che in ognuno vive la tensione verso il riconoscimento da parte degli altri e che quel riconoscimento non può essere riferito al possesso di qualità personali, ma invece al contributo dato alla comunità. Nasce un principio nuovo (o quantomeno si riscopre un principio antico): il soggetto della cosa pubblica è colui che cerca riconoscimento del proprio contributo alla comunità e non (solo) come colui che cerca esclusivamente il proprio interesse personale in termini di beni e di ricchezza individuale. Il cambio di paradigma ha conseguenze sulle categorie sulle quali è costruito tutto l’impianto istituzionale e di regole su cui è fondata la nostra convivenza: libertà, concorrenza, merito, giustizia. Ognuna di esse cambia di significato. Anche la concorrenza cambia di segno: non più concorrenza per la possibilità di esprimere compiutamente il proprio talento a fini personali, per agire scelte libere, per ampliare il ventaglio delle possibilità individuali, ma concorrenza per riuscire a valorizzare il proprio talento (attraverso ideazione, qualità, lavoro) nel contributo al bene comune.

Sorprende che anche nella tassonomia della Nussbaum sulle capacità centrali non appaia, per vivere una buona vita umana, la capacità di contribuire al bene comune e dunque la possibilità di accesso al riconoscimento. C’è l’appartenenza, per instaurare buone relazioni con gli altri, c’è il rispetto. Non c’è la diade contributo – riconoscimento. Anche lei trascinata, pare, da una ideologia incentrata sull’individuo e sulla ricerca dell’interesse personale. L’approccio (in cui la Nussbaum notoriamente si riconosce) sulle capacitazioni di Sen parte infatti dall’assunto che per valutare il grado di giustizia (pratica) di una società sia necessario valutare il grado con cui le persone sono in grado di scegliere, l’ampiezza dello spettro delle scelte possibili, la libertà sostanziale. Cambia il valore dell’interesse personale: là benessere materiale, qui libertà sostanziale. Ma non cambia l’assunto di base.

Sembra sano ripartire dalla constatazione che la libertà nel dibattito pubblico, nel discorso e nell’agire comunicativo ha senso solo se sono in discussione le questioni fondamentali: i fini e i principi. Altrimenti il gioco democratico si riduce alla scelta delle persone più efficaci e adatte a perseguire scopi già stabiliti in partenza. E saranno per forza di cose coloro che appartengono alle élite. Ma è possibile rimettere in discussione le questioni fondamentali se si riconosce il fatto che classi sociali diverse sono portatrici di interessi, paradigmi e modi di vita diversi. Se cioè si rimette in gioco la diversità essenziale e profonda delle posizioni e non si parte dall’assunto che la verità sia già data, la verità vittoriosa delle classi egemoni.

Ne discutiamo domenica 7 maggio alle ore 18 in conversazione con Annarita Tonini, di Rifondazione Comunista, ospiti di Radio Talpa, Rimini

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