Ciao amore, ciao

Ciao amore, ciao

“...Guardare ogni giorno 

Se piove o c'è il sole 

Per saper se domani 

Si vive o si muore 

E un bel giorno dire basta e andare via

Ciao amore 

Ciao amore, ciao amore ciao...”

Luigi Tenco - Ciao amore, ciao -


Prova ad essere oggi all’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo.

Essere lì, adesso, un medico con la mascherina e il copricapo troppo usati, il camice sudato che non hai tempo di cambiarlo perché sono giorni che dormi poco e male, in un B&B prestato gentilmente dalla proprietaria in questo momento drammatico per non contagiare tua moglie e tuo figlia. Sono qui ogni giorno, in ospedale, da più di un mese ormai, a veder gente che soffre e che muore, il sorriso spaurito di un nonno intubato che non può veder nessuno se non gli infermieri coperti da caschi di plastica e mascherine e mi guarda negli occhi prima di smettere di respirare, mi fa una carezza sulla visiera trasparente che vedo le dita premerci piano sopra, come dire, porta questa carezza a mia moglie, ai miei figli, ai miei nipoti. Vi voglio bene.

Ciao amore, ciao.

Cos’è l’empatia?

L’etimologia della parola ‘empatia’ deriva dal greco e significa ‘sentire dentro’, oggi intendiamo per capacità empatica la capacità di un individuo di ‘immedesimarsi nei panni dell’altro’. L’empatia è uno strumento fondamentale per l’adattamento dell’uomo al proprio ambiente sociale, nella relazione con ‘l’altro da se’.

All’origine dell’empatia ci sono processi di imitazione primaria e identificazione ben studiati in psicologia. Fra gli anni ottanta e novanta vennero scoperti in Italia, prima nelle scimmie, successivamente nell’uomo, quelli che sono stati chiamati ‘neuroni a specchio’, neuroni deputati ai comportamenti di apprendimento imitativo e da cui si ipotizza che derivi la capacità empatica.

Al di là delle origini neuronali dell’empatia, è innegabile che questa capacità di ‘immedesimazione nell’altro’ sia importantissima nelle capacità di apprendimento sociale (e non) e nelle relazioni umane in genere e quindi a maggior ragione la capacità empatica è importante per chiunque faccia un lavoro dove le relazioni umane sono frequenti e prioritarie, come tutti i lavori a sfondo sociale o dove la capacità di interazione domina il successo o l’insuccesso di un’attività, come ad esempio il lavoro dei venditori, cioè di chi ha per compito quello di far cambiare il comportamento di acquisto di un cliente.

E’ importante chiarire subito che l’empatia non è la discriminante fra una scelta di acquisto o meno, in questo comportamento, come naturalmente è evidente, subentrano diversi fattori come il giudizio e la scelta razionale, cioè la capacità di individuare o prevedere vantaggi e svantaggi di un comportamento.

Ma l’empatia è importante per creare quella base di reciproca accettazione che fa da premessa e contesto di una qualsiasi relazione.

Faccio un esempio, gli Hare Krishna fra la fine degli anni sessanta e gli anni settanta del secolo scorso, a parte le questioni ideologiche e spirituali in cui non entro, seppero costruire un impero economico facendosi donare soldi (non voglio usare il termine ‘elemosinare’ perché non fu così) in tutti i luoghi di aggregazione umana, dalle stazioni aeroportuali o tranviarie alle piazze delle grandi città, semplicemente regalando fiori (suonavano pure, ma se fosse stato per quello qualsiasi musicista di strada sarebbe ricco).

Le persone a cui venivano regalati fiori, a quell’epoca, si sentivano ‘in dovere’ di ricambiare con un gesto altrettanto gentile, cioè lasciando qualche centesimo in omaggio.

Cosa facevano gli Hare Krishna? Creavano un momento di relazione positiva e gentile con le persone a cui donavano quel fiore, un semplice gesto gentile, e le persone in questione ‘ben si disponevano’ verso di loro.

Studiai questo caso all’Università, per l’esame di Psicologia del lavoro, mi è rimasto impresso per trent’anni.

Il primo passo di una relazione empatica è disporsi in modo positivo, aperto, con un atteggiamento di accettazione incondizionata dell’altro, avrebbe detto Carl Rogers fondatore della ‘Terapia centrata sul cliente’.

L’atteggiamento positivo non vuol dire che si accetti qualsiasi cosa, ma che la disposizione è ‘aperta’ e ‘calda’. L’atteggiamento corporeo e composto ma rilassato, attento ma non circospetto, l’espressione è sorridente, curiosa, trasmettiamo la voglia di conoscere l’altro, di sapere cosa pensa, cosa vi dirà.

Mostriamo attenzione non solo all’altro ma al suo ambiente e ai dati che questo ambiente ci fornisce. Siamo curiosi senza essere ‘fastidiosi’. Facciamo domande e ascoltiamo risposte. Non è un interrogatorio finalizzato ma interessato, questo comunichiamo con il nostro atteggiamento.

Una disposizione siffatta, di solito, non infastidisce il nostro interlocutore, di solito lo dispone in modo positivo, a meno che una persona in quel momento non viva problemi personali tali da infastidirsi dal nostro atteggiamento positivo, ma se ciò accade un buon comunicatore lo ‘avverte’ (proprio perché è empatico) dalle espressioni dell’interlocutore, dall’atteggiamento del corpo che non sarà rilassato ma teso e quindi anche il comunicatore assumerà un atteggiamento più serio, composto e ‘grave’ se la situazione lo necessita. Perché quella gravità la ‘sentirà’ dentro di se.

Purtroppo l’empatia difficilmente si può insegnare a parole (se non mostrandola attraverso il racconto) ma si può ‘esprimere’ e mostrare attraverso sessioni di gioco di ruolo, perché l’empatia, appunto, si ‘avverte’ e si ‘sente’. Una relazione empatica crea un ambiente ‘caldo’ di reciproca partecipazione e attenzione.

Preciso subito che c’è enorme differenza fra un ‘manipolatore’ e un empatico. Il manipolatore conosce l’empatia ma non la ‘sente’, la conosce perché sa di non averla ma sa ‘fingere’ di essere empatico per raggiungere i propri fini. Come si fa a distinguere un manipolatore da un empatico vero? Dalla coerenza di comportamenti ‘laterali’ o ‘metacomunicativi’ non necessariamente centrati all’obbiettivo della relazione, quindi in alcuni giudizi su questioni ‘altre’ o in alcuni atteggiamenti corporei, come l’attenzione troppo focalizzata su precise questioni, il consenso che ‘sentite’ forzato, la rigidità del corpo, alcuni eccessivi perfezionamenti o attenzioni al modo di presentarsi ‘perfetto’. Una persona empatica è ‘morbida’ non ‘dura’. Puoi essere ‘fermo’ su alcune decisioni ma non ‘duro’, c’è differenza, la stessa differenza che esiste fra essere autorevoli o autoritari.

Diciamo che in buona sostanza l’unica vera differenza fra un manipolatore e un empatico è che il manipolatore ‘finge’ di essere empatico ma dell’altro non gliene importa un bel niente, quindi se siete in contatto con la vostra parte empatica, autentica, emotiva profonda, dovrebbe essere possibile ‘avvertire’ la manipolazione, cioè qualcuno che vi gratifica per secondi fini; tuttavia può succedere che persone molto concentrate su se stesse, quindi poco empatiche, si facciano sedurre facilmente dai manipolatori. Ma torniamo a noi.

Come si può sviluppare o ‘allenare’ l’empatia?

E’ semplice, mettendosi nei panni dell’altro.

E come possiamo metterci nei panni di un altro?

Un buon esercizio è raccontarsi e ‘raccontarci’ da diversi punti di vista, cioè raccontare (o scrivere) un episodio della propria storia, in terza persona, prendendo le parti degli attori che ne fanno parte, fare la spola dal tuo punto di vista a quello che ritieni il punto di vista dell’altro cercando di ‘prendere la parte’ dell’altro. Come fanno gli attori. Quando prendi la parte dell’altro, un buon modo di immedesimarsi è tener presente dentro di se gli aspetti che conosciamo dell’altro, se li conosciamo, oppure immaginarli con i dati a nostra disposizione, sempre come fanno gli attori.

Semplicemente, scrivendo in una sorta di diario o racconto un’esperienza che ritenete significativa, come dicevo in terza persona, prendendo le parti dei diversi personaggi, ‘sentirete’ di fare un’esperienza nuova e noterete di quella stessa esperienza (che fino a quel momento avevate solo pensato fra voi) aspetti che prima non avevate valutato come importanti, che non ‘vedevate’ o’percepivate’.

Ancor meglio, se la stessa esperienza la raccontate a una persona che vi aiuti in questo lavoro, che faccia, attraverso domande e stimoli non giudicanti, da ‘facilitatore’ nell’espressione di quella esperienza... raccontare un episodio di vita a voce alta a un’altra persona è già diverso che pensarlo da soli, lo avrete considerato mille volte dopo aver parlato con un amico.

Piccoli passi per allenare ‘l’immedesimazione con l’altro’ l’empatia.

A spiegarlo a parole potrebbe sembrare articolato e complesso ma in realtà non lo è, anche nel mondo del lavoro, per prepararsi in qualche compito, si fanno giochi di ruolo e simulazioni, ‘fare’ certe volte è più semplice che spiegare.

Pensate allo sport, un istruttore o un maestro non vi fa forse provare una tecnica dopo averla mostrata? Nell’evoluzione dei processi di apprendimento l’azione viene prima della parola e nella vita le cose più importanti le impariamo ‘facendo’.

Questo vale anche per l’empatia, se volte allenarla, giocate a mettervi nei panni di un altro, immedesimatevi come un attore e scoprirete cose nuove, che erano già dentro di voi, ma a cui forse non prestavate attenzione.

Buon lavoro.

Aida Cristina Palacios

Business Unit Manager - Cardiologia presso Polifarma

5 anni

Grazie Marco!

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