Cos’è il valore?
Cosa è il valore (in economia)?
Ogni giorno mi imbatto nella convinzione diffusa che il valore coincida col risultato: un buon risultato raggiunto è un pezzetto di valore in mano all’azienda, al gruppo, al singolo.
Si può contestare quest’affermazione? Certo che no, i buoni risultati sono inconfutabilmente parte del valore. Ma sono una parte, non tutto il valore.
Ogni giorno io mi scontro con questa visione ristretta del valore: produco un software, un servizio, un prodotto, un risultato che funziona (o <funzionicchia>) e questo è tutto e solo lo scopo del mio lavoro, del mio impegno, del mio obiettivo.
Sicuri che sia tutto qui?
In ambito più ampio, riflettendo sulla vita stessa, è più facile rendersi conto che l’esistenza non ha valore per un risultato ben preciso, ma per il processo stesso dell’esistenza, un processo che è un continuo imparare, provare, rimettere in discussione, cambiare, crescere. Non è diverso nel lavoro, negli studi, nello sport o in qualsiasi area della nostra vita: il vero valore non è uno specifico risultato, ma, anche, e forse ancor più, il processo che lo ha generato.
E’ nel processo la forza del risultato stesso, è il processo che ne assicura la ripetibilità, la crescita, il miglioramento, la condivisione e il rafforzamento. Un buon processo ci assicura una soddisfazione quotidiana, un buon risultato, quando c’è, concentra la soddisfazione solo alla fine. Un cattivo processo anche se porta a un buon risultato genera inevitabilmente frustrazione.
E la frustrazione è il sentimento dominante che permea le attività quotidiane all’interno delle aziende.
Ogni giorno sento le persone lamentarsi di qualcosa che non funziona come dovrebbe, comunicazione insufficiente, difficoltà a reperire informazioni, incomprensione di ciò che ci si attende, lacune nel capire cosa si sta facendo e come farlo, impossibilità di capire gli impatti delle proprie attività sul business, mancanza di ascolto, insufficienza nella raccolta e nell’implementazione di proposte di miglioramento, difficoltà di capire chi fa cosa, ruoli e responsabilità, mancanza di indicazioni sul come espletare al meglio le proprie attività, e, last but not least, personalizzazione delle problematiche (e delle soluzioni), ostilità e paure.
Perché? E’ inevitabile lavorare così, agire così all’interno di organizzazioni umane ampie e complesse?
La risposta è no, non è inevitabile. In molti lo hanno capito e hanno individuato soluzioni, le hanno implementate, descritte in innumerevoli libri, in materiale disponibile in rete, veicolate tramite corsi e presentazioni di vario tipo, eppure l’atteggiamento più comune quando si parla di queste soluzioni è sarcasmo e ironia, usati per sminuire e azzerare concetti come processo, tracciatura strutturata delle informazioni, trasparenza, procedure documentali.
‘Questa è la teoria, la realtà è un’altra cosa’
‘Sì, tu vivi in un mondo che non esiste’
‘Questa è burocrazia che ci fa perdere solo tempo’
‘Siamo in emergenza, non abbiamo tempo per fare queste cose (cioè fare le cose bene [n.d.a])’
‘Abbiamo sempre fatto così’
‘Il problema sono i manager’ ‘Il problema sono gli analisti’ ‘Il problema sono gli sviluppatori’ ‘Il problema sono i tester’ ‘Il problema sono i PM’ etc etc. (tutti sanno esattamente dove sono i problemi degli altri gruppi di lavoro e come risolverli, ma in pochi riflettono dove sono i problemi nel proprio lavoro e come migliorarlo, d’altronde si sa, in Italia siamo tutti allenatori di calcio!).
Sì, le obiezioni più comuni quando si propongono cambiamenti sono quelle sopra citate, in numerose varianti e sfumature, e provengono indistintamente da tutta la piramide organizzativa. Molta parte della popolazione aziendale è convinta che fare le cose bene sia uno spreco che l’organizzazione non può permettersi. Eppure dati alla mano, analisi su casi reali, dimostrano esattamente il contrario: lo spreco è fare le cose male, non prendersi il tempo per iniziarle e portarle avanti bene implica rework, duplicazioni, lacune, non riproducibilità, parallelismi impossibili da gestire, ritardi, riduzione di motivazione, conflitti.
La Toyota l’ha capito 70 anni fa che lo spreco in azienda è la confusione, la mancanza di processi, la mancanza di comunicazione strutturata, la mancanza di documentazione e di metodi per una facile consultazione, l’andare ognuno in autonomia con le proprie attività e i propri strumenti (etc..la lista è lunga), e ha ispirato un sistema produttivo d’eccellenza, il lean management, che ha fatto scuola in tutto il mondo.
Ma nelle numerose realtà che ho avuto modo di approcciare nei miei 20 anni di carriera, nei diversi ruoli, compreso quello di docenza che mi ha permesso di esplorare tante organizzazioni, altrimenti inaccessibili, ho osservato come l’atteggiamento di massima è quello di dare valore al cosa (e purtroppo spesso un cosa definito con eccessiva approssimazione) e di trascurare completamente o parzialmente il come. Soprattutto nelle realtà tutte italiane, più allergiche al rispetto delle regole e dei processi, più avvezze all’<opinionismo> e alla discussione, ci si concentra sul cosa e poco o niente sul come, e quando il risultato non è soddisfacente ci si accanisce a lavorare di più e non meglio, ed ecco che in Italia abbiamo una produttività più bassa rispetto ad altri paesi, pur avendo delle competenze, tecniche e non, anche maggiori, pur possedendo, ad esempio, alte capacità di problem solving e di flessibilità, competenze di enorme utilità nella complessità del mondo di oggi. E nonostante questo, quando si lavora in realtà internazionali, noi italiani siamo meno credibili dei nostri colleghi stranieri, e spesso, pur valendo di più, contiamo meno.
Sono nostre caratteristiche culturali, certo, il meglio e il peggio della nostra italianità, caratteristiche che messe assieme alla rigidità del nostro mercato del lavoro creano realtà dove non mancano di certo tante buone cose, anche eccellenti, ma anche tanta confusione, tanta inefficienza, tanta frustrazione.
Ed è così che la nostra cultura porta a non sentire come valore la definizione di regole precise per raccogliere le esigenze dei clienti, per tracciarle, tenerle aggiornate in strumenti che aiutino a fare statistiche e reportistica avanzata, per trasformarle in soluzioni di prodotto o servizio attraverso una decomposizione anch’essa tracciata e ben specificata, collegando bidirezionalmente le attività di analisi, design e gli elementi implementativi, le relative documentazioni interne ed esterne, e quindi le corrispondenti attività di collaudo/test/verifica e problematiche, chiuse o aperte, collegate.
No, sembra che non sia considerato un valore per l’azienda l'avere il controllo della situazione, avere ordine e pulizia nelle attività e nei loro flussi, avere documentato le fasi, i risultati intermedi, le decisioni, le assunzioni, le problematiche, avere la visione di tutto ciò che succede, storicizzato in repository e strumenti centralizzati, accessibili da ogni utente autorizzato, contare su informazioni sempre aggiornate e corrette, evidenze oggettive, possedere dati sempre consistenti e completi, poter utilizzare questo materiale per valutare, migliorare, crescere, prendere decisioni, fare formazione, non perdere il know-how o aumentarlo.
Ma davvero si crede che la ricchezza di un’azienda siano i prodotti/servizi finali e basta? Non ci si rende cioè conto che la ricchezza dell’azienda è nelle conoscenze, nella capacità di individuare, produrre, vendere, integrare i risultati e le successive modifiche in maniera adeguata? E non è forse una ricchezza che il know-how e queste capacità siano documentate, condivise e controllate nei sistemi aziendali o davvero si ritiene che sia sufficiente che le conoscenze e le competenze siano tutte e solo nella mente delle persone e nelle loro e-mail, chat, o materiale sparso nei file system locali, non (o parzialmente) condivisi e volatili?
Alcune aziende non definiscono quali e quanti sono i prodotti di lavoro di cui sono proprietarie, soprattutto quelli interni, la qualità richiesta e come devono essere rilasciati, versionati, archiviati e usati. Questo, oltre a quanto già detto, lascia ai singoli la libertà di trattenere informazioni fondamentali, di rifiutarsi di condividere la conoscenza (soprattutto sullo storico) e bloccare la crescita dei colleghi, costringendo le aziende a dipendere da persone chiave e di non sfruttare tutto potenziale umano. In queste aziende le persone tendono a portare i problemi di lavoro sul livello personale, e tutto ciò che succede diventa soggettivo, il buono e il cattivo, generando conflitti e contrapposizioni, nocivi per le persone e per gli obiettivi aziendali, e facendo dipendere i risultati dalla personalità e dalla presenza di pochi individui.
E’ la consapevolezza e la gestione di tutto ciò che fa la differenza tra azienda e azienda, tra le aziende più mature e quelle meno.
La differenza infatti non sta nelle persone, non sta nel loro CV o nella loro personalità (le popolazioni aziendali sono tutte piuttosto omogenee), non sta nel cosa (prodotti e servizi sono in genere gli stessi), ma sta nel come.
Il come è cultura aziendale, il come è un valore quanto il cosa. Ecco cos’è il valore, ora la risposta è finalmente completa; chiaro, no?
Bravissima!
Senior Manager Engineering & IT | Lean Six Sigma Black Belt *Posts and Reactions are personal points of view*
5 anniBellissimo articolo Rita! Purtroppo alla stragrande maggioranza delle realtà italiane interessa solo il risultato. Il "come" è visto solo come un costo da minimizzare. Poi non si trovano requisiti, documenti e a volte non si sa neache in produzione quale versione software sta girando. Eppure dopo questi anni, anche io mi sono convinto che più che il cosa sia il come a fare la differenza tra una azienda normale ed una eccellente.
Co-Founder - Sales and Business Manager
5 anniBellissima sintesi descrittiva della trincea dove spesso lavoriamo come "consulenti" presso aziende (medio piccole) che spesso cercano una bacchetta magica che li rendano più efficienti e produttive dall'oggi al domani senza alcun spirito critico sul COME hanno lavorato fino ad oggi,... si soffermano a frequentare corsi e a contattare consulenti in modo frenetico e compulsivo, e a intraprendere interminabili software selection come se il problema si risolvesse (solo) con un nuovo consulente o con un miracoloso strumento "tecnologico", senza capire che la vera innovazione consiste proprio nel rivedere il come si lavora, e poi cercare uno strumento (si innovativo e tecnologico magari) che aiuti ad implementare un processo di valore che deve essere struttura portante della cultura aziendale. Spesso mi capita di ascoltare imprenditori che vogliono con estrema determinazione cambiare il mondo dentro le loro aziende, che vogliono raggiungere livelli di controllo ed efficienza davvero ammirevoli, ma non appena si inizia a disegnare loro un percorso di cambiamento VERO, PROFONDO e CULTURALE (che spesso coincide anche con il loro personale operato) ... Vedi la loro determinazione annebbiarsi, vacillare fino a farli rientrare nel loro guscio, nella loro confort zone, che li protegge dalla paura di ammettere che quello che vorrebbero ottenere è inconciliabile con quello che hanno fatto fino ad ora, o con quello che devono imparare a non fare più. Capita anche che quando il progetto è assolutamente sposato in pieno e gli obiettivi ed il come concordato, e la determinazione al cambiamento incrollabile .... il costo,... il costo della consulenza, degli strumenti, il costo diretto ed indiretto del percorso da intraprendere non è "sostenibile" o "abbiamo altre priorità", e magari poi vedi ingenti impegni finanziari per ammodernamenti di risorse che non contribuiscono all'accrescimento del VALORE aziendale percepibile dal mercato di riferimento (magari il parco auto della proprietà e dei dirigenti). Quindi concordo perfettamente,... il VALORE è CULTURA, e senza cultura il "cosa" è l'unico valore percepito, ahimè!
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5 annisagge parole, riflettiamo gente
Coach and Trainer
5 anniCome potrei non essere d'accordo? Brava Rita, accurata e chiara come al solito