Ep.45 - Cosa ci ha insegnato "Fuori Rete" sul digital divide sociale
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Ep.45 - Cosa ci ha insegnato "Fuori Rete" sul digital divide sociale

La traccia di oggi è il risultato di ciò che ci portiamo a casa dopo un anno di ascolto e confronto con Inspiration 2025. Un percorso che ci ha permesso di guardare al digital divide sociale con lenti nuove, attraverso le voci di chi quel divario lo vive, lo affronta o prova a ridurlo

Collage di screenshot degli incontri online di Fuori Rete con ospiti, designer e interpreti LIS che parlano di digital divide sociale.

All’inizio dell’anno, quando abbiamo deciso il tema da approfondire durante Inspiration, ci siamo fatti una domanda: cosa significa oggi parlare di digital divide?

Sapevamo che il divario infrastrutturale, ossia la mancanza di rete, di device, di accesso, era solo una parte del problema. L’altra faccia, quella che volevamo esplorare, è più sottile e difficile da vedere: riguarda la fiducia, l’autonomia, la comprensione, il sentirsi o meno inclusi dai servizi digitali che ormai permeano la vita quotidiana.

Per affrontare questo tema, abbiamo scelto di non cercare esperti “di mestiere”, ma voci. Voci che ogni giorno vivono quel divario, o che cercano di ridurlo. Abbiamo deciso di ascoltare prima di progettare. Di raccogliere storie, esperienze e punti di vista spesso lontani tra loro, ma attraversati dalla stessa tensione: chi resta fuori dalla digitalizzazione, e perché?

Non abbiamo trovato risposte definitive, ma qualcosa di più prezioso: nuove lenti con cui guardare il nostro lavoro. E soprattutto, la conferma che questo tema ci riguarda tutte e tutti, ogni giorno, anche quando non ce ne accorgiamo.

In questa traccia condividiamo alcuni spunti: non conclusioni, ma aperture. Indicazioni che speriamo possano accompagnare chi progetta, amministra o si interroga sul ruolo del digitale nelle relazioni umane.

Per non dimenticare cosa abbiamo imparato

Il digital divide è sistemico, non generazionale

Il divario digitale non riguarda solo chi è anziano o non ha accesso a internet. Per le persone anziane è noto che molte tecnologie risultano ostiche e complicate, quasi uno stigma. Allo stesso tempo, anche le giovani generazioni ne fanno parte, spesso senza esserne consapevoli: pensano di conoscere bene la tecnologia, ma in realtà ignorano il potenziale dei loro dispositivi o l’accesso a molti servizi utili.

Questo dimostra come il divario possa toccare anche chi consideriamo “nativo digitale”.

Senza relazione, non c’è inclusione

L’affiancamento umano è spesso l’unica via per rendere accessibile un servizio. I progetti di inclusione digitale, come Digitale Facile o Pan e Botoni, che funzionano meglio non sono quelli con la tecnologia più avanzata, ma quelli che sanno accogliere, ascoltare, rassicurare.

La presenza fisica (anche sul campo, al mercato o in spiaggia) costruisce fiducia, legami, senso di dignità. Non è un costo, ma un investimento invisibile nel capitale sociale.

L’autonomia si costruisce con tempo, errori e appunti

Molti anziani non vogliono più “disturbare i figli” per ogni cosa digitale. Non chiedono soluzioni veloci, ma strumenti per capire e affrontare le difficoltà da soli.

I percorsi di inclusione digitale che risultano efficaci non si limitano a insegnare cosa fare con un’app, ma offrono strategie riutilizzabili, incoraggiano a sbagliare, a prendere appunti, a provare. È così che la tecnologia smette di fare paura e diventa davvero abilitante.

Ogni interfaccia è una scelta politica

Quando scegliamo un metodo di autenticazione o costruiamo un modulo per offrire assistenza, le valutazioni che facciamo o i dettagli che progettiamo possono rendere le interazioni così complicate da indurre molte persone a gettare la spugna.

Progettare un servizio significa decidere chi includere, chi escludere e a quali condizioni. Il design non è neutrale: riflette i bias di chi lo progetta e può rafforzare le disuguaglianze invece di ridurle.

Un buon esercizio che può allenarci a non cadere involontariamente in questo schema è non fermarsi alle Personas e agli scenari “standard”, ma esplorare edge case che ci aiutino a immaginare archetipi più realistici e sfidanti: cosa succede se la Persona primaria non parla la mia lingua? Non ha i documenti in regola? Ha perso gli occhiali e non vede bene? Oppure se a interagire è una persona migrante, in carcere, o senza dimora?

È lì che si misura il valore pubblico del digitale.

Educare non basta, serve accompagnare

Viviamo in un mondo dove l’informazione è ovunque, ma la comprensione è fragile. Chi ha meno strumenti rischia di sentirsi escluso o sopraffatto. Serve una formazione continua, ma anche creativa e accessibile.

Non è solo questione di corsi, ma di presenza, linguaggi adatti, esempi pratici, varietà di formati. La vera fame non è solo di competenze, ma di qualcuno che ti aiuti a non sentirti solo nel cambiamento.

Nessuno si salva da solo, nemmeno nel digitale

Nessuna istituzione può affrontare il digital divide da sola. Le iniziative che funzionano nascono quando PA, enti del terzo settore, associazioni locali e community di specialisti (designer e tech) collaborano. Ma manca ancora spesso un tassello fondamentale: coinvolgere davvero le persone più fragili nella progettazione dei servizi.

Non come destinatari, ma come co-autori. Come beta tester di una società che sia, davvero, per tutti e tutte.

Serve anche un fallback fisico

Se il digital divide sociale descrive distanze, inaccessibilità ed esclusione, la capacità di visione d’insieme che ti dà il service design consente di prevedere meglio quegli effetti e contrastarli.

Progettare esperienze tra fisico e digitale, descrivendo scenari come quelli che abbiamo scoperto esplorando questo tema, può aiutarci a costruire ponti che riducano le distanze e le disuguaglianze.

Cosa abbiamo fatto, davvero

Ogni incontro di Fuori Rete è stato un atto di cura: tempo dedicato ad ascolto, fiducia e connessioni. Non un evento da calendario, ma un esercizio di comunità che ha reso visibili storie, domande e contraddizioni.

Abbiamo scelto di trasformare anche il “come” in un gesto di responsabilità. Parte dei compensi degli ospiti è stata destinata a progetti di inclusione e giustizia sociale: oltre mille euro tra WeWorld e realtà locali come Progetto Itaca Rimini, Caritas e Legalo al Cuore Onlus. Un modo per ribadire che l’innovazione responsabile non è solo nei temi che affrontiamo, ma anche nelle azioni concrete che li accompagnano.

Fare capitale sociale oggi significa questo: prendersi il tempo per costruire relazioni, restituire valore, generare fiducia. Anche nel digitale.

E ora?

Non abbiamo trovato una risposta univoca al digital divide sociale. Ma abbiamo scoperto che la vera domanda non è solo "chi resta fuori?", ma anche "cosa possiamo fare, concretamente, per accorciare le distanze?"

Il digitale può includere o escludere, a seconda di come viene progettato. Noi continueremo a chiederci, come designer, come cittadini e come persone, quale tipo di digitale stiamo contribuendo a costruire.

Contenuto dell’articolo

A presto,

Il team Tangible



Barbara Bocchini

Copywriter | UX Writer | Verbal Experience Designer presso Hibo

2 settimane

come sempre una fonte preziosa di stimoli e riflessioni. a partire dai nativi digitali che spesso ignorano il potenziali dei dispositivi (ma anche i dispositivi che spesso fanno tutto troppo), all'interfaccia come scelta politica (andrei ancora più nel dettaglio delle parole come scelte politiche, ma questa è la mia missione professionale), al prendersi il tempo per dare senso al tutto (tempo che andrebbe pianificato e non aggiunto al carico lavorativo, come spesso viene richiesto). grazie davvero, al prossimo appuntamento.

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