Il marketing ha un problema
Gli viene chiesto di dimostrare i suoi risultati, ma i dati che mette sul tavolo sono spesso di breve termine e non interessano i vertici aziendali.
Perché è importante: Sapere quali dati comunicano meglio l'impatto del marketing sulla crescita del business è fondamentale per allineare il marketing con il resto dell'azienda.
L'impressione che si ha leggendo l'ultimo sondaggio di Gartner ai leader aziendali sul ruolo dei CMO è che il marketing parli una lingua diversa dal resto dell'azienda.
Due CMO su tre hanno difficoltà a misurare il ROI (ritorno sull'investimento) delle campagne. Parallelamente, il 69% dei CEO e CFO pensa che il marketing non riesca a ottenere i risultati promessi. E, addirittura, la metà degli intervistati ritiene che il proprio CMO non abbia il rispetto degli altri dirigenti.
Commentando questi risultati per il podcast Mi3, la CEO di ADMA (Association for Data-driven Marketing and Advertising) Andrea Martens ha inquadrato bene il problema: il marketing continua a riportare i risultati immediati delle sue azioni (outputs), come il ROI di una campagna, mentre l'azienda si aspetta gli effetti di quelle azioni (outcomes). (Chi vuole approfondire la differenza tra output e outcome non si perda il post di business English dell'amica Isabella Guerci , questo giovedì).
Secondo Martens, l'effetto più importante è «l’impatto diretto sui ricavi»: il marketing dovrebbe «dimostrare una correlazione molto diretta e misurabile» con questo obiettivo. Se non lo fa, viene percepito come un costo per l'azienda anziché come un motore della crescita.
Mi sembra evidente che il problema sia da entrambe le parti.
Da un lato, la richiesta di dimostrare così direttamente i risultati è impossibile da soddisfare. Secondo Rory Sutherland, Vice Chairman di Ogilvy UK, «questa ossessione per l'attribuzione è un falso mito». È come il famoso demone di Laplace, l'idea che se conoscessimo la posizione e la velocità di ogni particella dell'universo potremmo predire il futuro: «I meteorologi ci hanno provato e hanno rinunciato».
Me lo ha raccontato bene Catarina Sismeiro, allora managing director di Annalect, la divisione di OMG che si occupa dell’analisi avanzata dei dati, oggi VP Marketing and Communications di Capgemini, nell'episodio 2:5 di Brandroad:
Quando è arrivato Internet abbiamo cominciato a credere al mito della perfetta tracciabilità, [...] abbiamo creduto di poter attribuire ogni vendita, ogni centesimo che guadagniamo a una certa interazione o a un contatto. E devo dire che è stata la cosa peggiore che abbiamo fatto, non potevamo fare peggio.
Oggi sappiamo che non tutte le interazioni sono tracciabili, ma tutte contano. Quindi concentrarsi solo su quelle attribuibili porta a sovrastimare il loro impatto e a sottostimare quello delle interazioni non attribuibili.
Dall'altro lato, però, il marketing dovrebbe smetterla di presentare proprio quei dati attribuibili, come il ROI di una campagna, per giustificare il proprio lavoro. «Il ROI è una metrica secondaria, riguarda solo l'efficienza. Quello che ci interessa è il contributo che il marketing dà al business», ha dichiarato Cambell Holt, head of commercial growth per l'Asia e il Pacifico per Seek, sempre nel podcast Mi3.
Spesso i dati come il ROI sono usati per fotografare le azioni di attivazione, ovvero lo stimolo delle vendite. E queste hanno effetti di breve termine che lasciano lo stato del business esattamente come lo avevano trovato. Quello che il marketing dovrebbe invece dimostrare è come contribuisce alla crescita sostenibile e prolungata del business.
Il problema era già stato inquadrato anni fa da Peter Field:
«Spesso [i numeri impressionanti delle campagne] si basano sui cosiddetti studi di attribuzione. In realtà dovremmo chiamarli studi di misattribuzione, perché sappiamo che attribuiscono solo una piccolissima parte delle vendite alla vera fonte, che è il brand».
Peter Field, insieme a Les Binet, ha studiato a lungo le banche dati degli Effie Awards, i premi all'efficacia delle campagne, facendo attenzione a metriche come le vendite e i profitti incrementali, la crescita delle quote di mercato, la conoscenza (awareness) e la considerazione (consideration) del brand.
Insomma, proprio quello che chiedono i CEO e i CFO secondo il sondaggio di Gartner. Con una, importante, precisazione: i dati vengono analizzati su più anni.
Per dimostrare l'efficacia di una campagna candidata agli Effie, infatti, si possono includere dati precedenti e successivi al periodo di eleggibilità per meglio dimostrarne gli effetti. Inoltre c'è una categoria chiamata Sustained Success (successo prolungato) che esplicitamente premia le campagne che hanno dimostrato un'efficacia continuativa su più anni.
Un problema simile, che conosco più da vicino, lo affrontano i consulenti che si occupano di branding e finiscono per parlare troppo di visual identity. Come dice Mark Ritson agli studenti del suo Mini MBA in Brand Management:
«Quando parlate con i dirigenti di un'organizzazione e salta fuori l'argomento del font, o del colore, o del look and feel, voglio che rispondiate esattamente così: "Questo è solo il 2% del branding, sono più interessato ai margini, ai guadagni e alla crescita del business"».
Ai dirigenti non interessa granché quale Pantone scegli, così come non interessa granché il ROI. Gli interessano margini, guadagni e crescita del business. Per questo il terreno comune su cui dovrebbero trovarsi tutti i CEO, CMO, CFO, brand manager e consulenti è la brand equity (il valore del brand): questo è l'obiettivo comune di tutti.
Un brand forte permette di avere margini e guadagni maggiori. Questo è ciò che vogliono i leader di un'azienda. La sfida che attende il marketing è dimostrare il contributo che porta al brand, molto più che i «numeri impressionanti» delle singole campagne di attivazione.
Per approfondire:
Managing Director @Brand Festival | Marketing & Sales Director @Premiata Fonderia Creativa | Son, Friend, Husband, Father | Human Relationships Lover | Management, Marketing, Sales
3 mesiCiao Matteo! Il problema non è il marketing, non lo è mai stato. Il problema è l’ossessione di misurare tutto solo con ciò che "brilla" subito, ignorando ciò che contribuisce davvero a costruire qualcosa: il brand, il senso, la fiducia nel tempo.
Avvocato e imprenditore tech | Amo la negoziazione e l’intelligenza linguistica
3 mesiC'è un tema di lettura dei dati e quindi sono affascinato, poi mi citi il Superbowl e ricordo bene quella pubblicità! ✌️ Quindi non sono solo le leggi che hanno un problema con i dati..
Business English Coach and Strategic Editor | Currently on a Mission to Empower Global Players
3 mesiTema interessante e complesso (soprattutto per i non addetti ai lavori come me) Matteo. Il mio personale contributo sarà la riflessione su outcome, output e affini. A giovedì, con il post di cui avevamo bisogno... senza saperlo! 💪😉