Le città tapis roulant
di Fabrizio Fasanella , dalla newsletter settimanale di Greenkiesta (iscrizioni qui)
Altro che vita lenta. Secondo un nuovo studio del Massachusetts institute of technology (Mit), la velocità media dei pedoni nelle città è aumentata del 15 per cento, mentre il numero di persone che si fermano negli spazi pubblici è sceso del 14 per cento. Siamo sempre di fretta e camminiamo a testa bassa fino alla nostra destinazione, come se fossimo degli automi.
Tendiamo a concepire le strade, i marciapiedi e le piazze come dei grandi tapis roulant che ci portano da un punto all’altro. Diamo valore soltanto alla meta perché il tragitto tocca luoghi pubblici non progettati per lo svago e il relax, il divertimento gratuito, l’ozio non votato al consumo.
È il peccato originale delle città costruite e amministrate in ottica funzionalista, ma oggi più che mai – anche per ragioni ambientali e climatiche – abbiamo un bisogno disperato di spazi in cui stare e non semplicemente transitare. Il rischio è quello di disinnamorarci – o di non innamorarci mai – del luogo in cui viviamo, con un conseguente peggioramento della qualità della vita quotidiana.
I dati dello studio del Mit riguardano alcune città degli Stati Uniti e si riferiscono al periodo tra il 1980 e il 2010. Ma secondo l’architetto e urbanista Carlo Ratti, uno degli autori della ricerca, la tendenza si è esasperata negli anni successivi e ha ormai assunto una dimensione globale.
«Qualcosa è cambiato negli ultimi quarant’anni. La velocità a cui camminiamo, il modo in cui le persone si incontrano nello spazio pubblico: quello che stiamo osservando è che gli spazi pubblici funzionano in modi diversi rispetto al passato, più come vie di comunicazione che come luoghi di incontro», dice il direttore del Senseable city lab del Mit, che su questi canali aveva parlato del rapporto tra intelligenza artificiale e sicurezza stradale. Ed è proprio l’intelligenza artificiale ad aver aiutato i ricercatori del Mit a confrontare il mondo del 2010 con quello di trent’anni prima.
Il punto di partenza dello studio è rappresentato da alcuni filmati realizzati dall’urbanista e sociologo americano William H. Whyte (1917-1999) e digitalizzati da Keith N. Hampton, professore della Michigan State University e coautore della ricerca. Le riprese sono state effettuate tra il 1978 e il 1980 in quattro luoghi ben precisi: Downtown Crossing a Boston, Bryant Park a New York (foto in alto), i giardini del Met di New York e Chestnut Street a Philadelphia.
Nel 2010, un gruppo di ricerca guidato dal professor Hampton ha girato nuovi video nelle stesse location, alle stesse ore del giorno. Di recente è entrata in gioco l’intelligenza artificiale, che ha consentito di aggregare e confrontare le attività documentate nelle riprese del 1978-1980 e del 2010.
Alcune cose non sono cambiate, secondo i risultati. La percentuale di persone che camminavano in solitaria, per esempio, è rimasta pressoché invariata (67 per cento nel 1980 e 68 per cento nel 2010). Si è invece più che dimezzata (dal 5,5 per cento nel 1980 al 2 per cento nel 2010) la quota di cittadini che, dopo aver raggiunto da soli il parco o la strada, si univano a un gruppo. E poi ci sono stati i cambiamenti già evidenziati all’inizio: la velocità dei pedoni e la loro tendenza a sostare nello spazio pubblico (la prima aumenta, la seconda diminuisce).
I comportamenti delle persone sono cambiati a causa di un’erosione – qualitativa e quantitativa – della dimensione pubblica delle città. Nell’immaginario collettivo, la metropoli è un agglomerato frenetico, sensato solo per scopi lavorativi e noioso per tutto il resto. Capitali europee come Copenaghen (foto in basso) – dove tutto ruota attorno alla natura e lo spazio pubblico, accessibile e gratuito è una religione – dimostrano però che un altro modello di città è possibile. Le soluzioni esistono e le conosciamo, ma non le applichiamo soprattutto per una questione di resistenza culturale.
«Nei filmati di William Whyte le persone si guardano più frequentemente. Lo spazio pubblico era un luogo in cui si poteva iniziare una conversazione casualmente o incontrare un amico. Non a caso, all’epoca non si potevano fare attività online. Oggi, invece, i nostri comportamenti nello spazio pubblico si basano sull’invio di messaggi per darci appuntamento in un determinato luogo», spiega Ratti.
Ma non è solo “colpa” degli smartphone. Stando al paper della ricerca, la socializzazione di gruppo all’aperto è diventata meno comune anche a causa della «proliferazione di bar e altri luoghi simili. Le persone potrebbero aver spostato le loro interazioni sociali in spazi privati, climatizzati e più confortevoli». Nel 1980 c’erano meno bar e non esistevano catene come Starbucks, che divorano spazio pubblico anche attraverso i tavolini all’aperto.
Nelle città turistiche, costellate di dehors, aprono solo ristoranti, bar e store di brand internazionali. La situazione è talmente delicata che nel 2023, per fare un esempio, il Comune di Napoli ha imposto un divieto triennale all’inaugurazione di nuove attività del comparto food and beverage nel centro storico: il blocco scadrà nel luglio del 2026, lasciando spazio a nuove regole comunque più restrittive rispetto al passato.
La ricerca del Mit è preziosa perché può contribuire a orientare le politiche sulla pianificazione urbana: capire come e perché i cittadini cambiano comportamento è il primo passo per invertire la tendenza, creare nuovi spazi pubblici (anche attraverso l’urbanistica tattica e le pedonalizzazioni) e valorizzare gli spazi esistenti. «E ora stiamo raccogliendo nuovi video da circa 40 piazze europee», ha detto Fabio Duarte, associate director del Senseable city lab del Mit.
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