Le Classi Sociali nel 21° secolo
Mike Savage, in Social Class in the 21th Century, commenta gli esiti di una ambiziosa sperimentazione realizzata nel primo decennio del secolo: i risultati della Great British Class Survey, un calcolatore di classe sociale pubblicato sulle piattaforme della BBC e che ha avuto grande risonanza mediatica oltremanica. Savage arricchisce l’analisi con una mole di dati e rilievi qualitativi raccolti con interviste sul campo. L’operazione consente di mettere alla prova un’ipotesi di ricerca, e cioè che le classi sociali possano essere meglio comprese dalle intuizioni di Bourdieu che vede le classi come l’effetto di una interazione tra tre dimensioni: economica, culturale e relazionale.
Per comprendere davvero il costrutto “classe sociale” non basta considerare la dimensione economica, il reddito e il patrimonio. Ciò che davvero è potente strumento di esclusione e discriminazione è la cultura, che si manifesta nelle piccole cose o nelle scelte di fondo: l’odio virulento per il calcio e l’apprezzamento di sport di nicchia come il pattinaggio artistico; il disprezzo per la televisione o la musica pop; la retorica dei diritti umani e civili e un aperto disinteresse per le questioni di soldi; le scelte per l’alimentazione vegetariana o vegana e comunque rigorosamente biologica; il favor verso la musica indie, il jazz o il soul, per i tattoo che esprimono il proprio gusto più che la propria appartenenza, per il cinema d’autore, per l’arte in cattività in gallerie e musei, meglio se contemporanea. La musica meglio dal vivo, meglio ancora se suonata dall’amico d’infanzia o di liceo (rigorosamente) nel pianoforte di casa. E similarità di cultura significa anche preferenze nelle relazioni, tessuto di conoscenze, capitale relazionale. Non si comprende davvero cosa significa l’appartenenza di classe senza considerare le scelte culturali, le preferenze, il “gusto”, la comunanza nelle traiettorie personali e i legami amicali.
Chi non appartiene alle élite consolidate rischia sempre di tornare alla casella di partenza. Anzi, la vera grande differenza tra i primi della classe e tutti gli altri è proprio quella: tranne i pochi eletti tutti gli altri vivono la possibilità di tornare nel calderone di chi deve contare gli spiccioli per arrivare a fine mese. Basta poco. Sono tante le ragioni: una separazione o un divorzio, una malattia, trovarsi madre con figli piccoli e un solo stipendio, perdere il lavoro, il fallimento dell’azienda di famiglia.
Io stesso so benissimo che non mi è dato sbagliare: correrò sempre il rischio di ritornare nella “classe pericolosa” come la battezza Guy Standing nel 2011, il precariato, con questo termine intendendo un’assenza di sicurezze che non riguarda solo il lavoro, ma la casa, la salute, le relazioni sociali, in ultima istanza il futuro.
Dalla lettura di “Social Class in the 21th Century” di Mike Savage emerge come la differenziazione di classe continui a condizionare le nostre vite, ma come questo condizionamento sia negato e vilipeso e sostituito con altri più socialmente accettabili, che riguardano il genere, l’etnia, le scelte sessuali. Di differenza di classe non si può parlare.
Facciamo un esempio molto vicino a noi: Carlo De Benedetti recentemente ha difeso Elly Schlein sostenendo che i rivoluzionari nella storia sono tutti figli delle élite e dunque non ci vedeva niente di strano che anche la leader del partito che dovrebbe difendere i lavoratori lo fosse. A tutti è sembrata una argomentazione razionale e condivisibile. Ma se avesse detto: tutti i rivoluzionari della storia sono maschi? Apriti cielo. Non è lo stesso identico argomento? Non nasconde forse che la differenza di classe è anche una differenza di opportunità di agire nell’ambito politico e dunque di diventare rivoluzionari? Era una contraddizione così smaccata che nessuno se n’è accorto. Quindi bene aprire le porte ai generi, alle etnie, alle scelte sessuali, alle religioni. Ma che non si tocchi la classe. La classe dominante è una ed è quella che deve comandare. Ci sono logiche e meccanismi che perpetuano le appartenenze nelle generazioni e non possono essere messi in discussione. Uno di questi meccanismi, sembra paradossale, è il mito del merito.
Selezionare chi può entrare nella stanza dei bottoni secondo il merito ha un evidente controindicazione in relazione a cosa intendiamo con questo costrutto. Se merito è aver studiato all’estero, in prestigiose università, oppure aver arricchito il curriculum con esperienze che discendono dal sistema relazionale famigliare, se merito è il tessuto relazionale che ho imparato (a mie spese) essere un fattore di produzione immediatamente spendibile, allora altro non è che un escamotage per rendere accettabile una rigida stratificazione sociale.
Savage usa una metafora molto semplice ed efficace: se la competizione sociale è paragonabile alla scalata di una montagna, chi parte dal campo base in quota ha più probabilità di raggiungere la cima di chi parte da valle. Non si tratta di tetto (di cristallo o meno) ma di probabilità.
Devo ammettere che “The Social Class in the 21th Century” mi ha appassionato come il testo che di questo rappresenta la fonte di ispirazione e la base ideale, “La Distinzione” di Bourdieu. Ben strutturato, bene argomentato, fondato su dati, con proposte innovative di classificazione e con un superamento di una visione un po' troppo semplicistica della nostra epoca come età liquida. Affronterò con curiosità e grandi aspettative anche “The Return of Inequality” del 2021.
Gender Expert | DE&I Training Designer @Fondazione Libellula
2 anniSimone, c'è però un'altra lettura che permette di ragionare superando la contrapposizione tra classe e differenze identitarie ed è la pratica del femminismo intersezionale. Suggerisco di approfondire tutto il pensiero di Bell Hooks, che partendo dalla sua condizione di donna afroamericana sviluppa una critica al femminismo bianco occidentale. Suo il bellissimo concetto di "margine" da non intendere unicamente come spazio di privazione ma come luogo radicale di altre possibilità e come uno spazio di resistenza.