Lo strano Paradosso della Performance
Stasera pensavo al fatto che siamo intrappolati in un paradosso affascinante e, a tratti, inquietante. Da un lato, il mantra del nostro tempo lavorativo è la “performance a oltranza”: più veloce, più efficiente, sempre al massimo. Questo imperativo ha generato un'industria fiorente di app, programmi e tecniche e metodi volti a ottimizzare ogni singolo secondo, a eliminare le distrazioni, a spingerci oltre i nostri limiti. Persino pratiche antiche e contemplative come la meditazione, l’astinenza sessuale o le abluzioni fredde vengono oggi reinterpretate e proposte come “strumenti pro-performance” funzionali ad aumentare la concentrazione e la produttività. Il culmine di questa ricerca delle ultra-performance lo si sta toccando con l'emergere di tendenze controverse, promosse anche da alcuni “guru” della Silicon Valley, che decantano l'uso di microdosi di sostanze psichedeliche (come funghi, LSD, ketamina) per “potenziare” concentrazione, creatività e output cognitivo.
Parallelamente, assistiamo a una vera e propria esplosione di articoli, post, interviste, podcast che denunciano il “lato oscuro” di queste pratiche: malessere, stress cronico, ansia dilagante, burnout lavorativo, insonnia. E qui si arriva al paradosso perché in risposta a questi mali moderni, fioccano (altri) post, articoli, podcast, specialisti e guru che propongono esattamente l'opposto. Si parla quindi di digital detox, di riconnessione con la natura, di bagni nella foresta, di yoga e di ritorno a pratiche meditative ascetiche. Ironia della sorte, spopolano anche nuove app (sì, ancora app!) progettate per aiutarci a “riprendere il controllo” della nostra vita, a bilanciare lavoro e vita privata, a gestire la frenesia autodistruttiva.
A guardare la situazione con un minimo di distacco (ad esempio con gli occhi del classico alieno che arriva sulla terra), alcune domande sorgono spontanee: Siamo forse impazziti? Siamo diventati collettivamente bipolari, costantemente oscillanti tra l'ossessiva ricerca di massime prestazioni e la disperata necessità di disconnetterci e rallentare?
Al cuore del paradosso
Il punto non è che una delle due tendenze sia “giusta” e l'altra “sbagliata”. Il vero nodo (forse) è che entrambe sono risposte, spesso estreme, a un sistema che non nutre più. Il nostro ambiente lavorativo, concepito per massimizzare la produttività in un'era industriale, fatica a rispondere ai bisogni interiori degli individui nell'era dell'informazione e della connessione costante.
Come abbiamo già discusso in altri articoli, l'engagement autentico non nasce dall'ottimizzazione forzata, ma da un senso di armonia, fiducia e significato. Nasce quando ciò che facciamo è connesso a ciò che siamo, e quando l'organizzazione diviene luogo di evoluzione, non solo di controllo. Il “Grande Distacco” (o Great Detachment) imperante, che molti percepiscono, è probabilmente il risultato di questa disconnessione tra il valore che cerchiamo nel lavoro e il modo in cui il lavoro è spesso strutturato e misurato.
Le soluzioni “pro-performance” da un lato, e le cure “anti-stress” dall'altro, sono tentativi di aggiustare il tiro, di trovare un equilibrio perduto. Le prime cercano di adattare l'essere umano al sistema, le seconde cercano di curare le ferite che il sistema infligge. Ma raramente si affronta la radice del problema: la necessità di ripensare il sistema stesso.
Verso un nuovo equilibrio
È qui che emerge l'opportunità di una nuova consapevolezza e il ruolo di approcci maieutici e introspettivi come il Coaching. Invece di oscillare tra gli estremi, possiamo imparare a integrare.
Il metodo del Coaching non promette una soluzione e non rappresenta la “pillola magica” per la performance, né una fuga totale dal mondo moderno. Al contrario, accompagna individui e organizzazioni a:
Non siamo bipolari, ma forse un po' disorientati in un'epoca di profonde trasformazioni. Forse il vero passo avanti non è scegliere tra la performance o il benessere, ma capire come possano coesistere entrambi in un equilibrio più sano e sostenibile. È tempo di costruire contesti gentili dove fiorire sia possibile, senza dover ricorrere a soluzioni estreme, ma attingendo a una più profonda saggezza umana e organizzativa.
Io la vedo così, ma forse è solo un pensiero serale.
Corporate Technical Operations Excellence Director & Project Manager Menarini New Greenfield Plant
3 mesiCredo che a tutti, prima o poi, capiti di perdere un po’ di integrità. A volte non l’abbiamo mai conosciuta, altre la smarriamo sotto il peso delle aspettative, delle performance, delle sovrastrutture. Sono d’accordo: ritrovare una centratura è fondamentale. Ma quando non ci si riesce, anche l’oscillare, il sentirsi “fuori fase”, può avere senso. È sperimentando, anche nel caos, che a volte qualcosa scatta. E magari lì si intravede una via per tornare autentici, unici. Grazie per lo spunto di riflessione!
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3 mesiOsservazione e analisi molto giuste. Stiamo accelerando verso una specie di autodistruzione. Ho sempre pensato che manchi la capacità e la voglia di ascoltarsi, tanto da comprendere quali ritmi finiscono per schiacciarci
Business & Lean Coach Professional-Process Consultant Management-Kaizen Process
3 mesiGrazie della condivisione, Matteo. Sono assolutamente in linea con quello che hai scritto, ci siamo "dimenticati " chi siamo e cosa possiamo fare, allenare noi stessi è indispensabile
Medico chirurgo specializzato in medicina del lavoro. Posturologo.Tedx talkers.Autore e divulgatore scientifico, Ideatore di Italian Health Award. Maestro di arti marziali. wwe.pasqualedautilia.it
3 mesiOttimo analisi Matteo. In fondo, andrebbe approfondito il vecchio detto " Nulla di nuovo sotto al sole tranne il dimenticato". I tempi del lavoro, e della vita in generale sono sempre più veloci, ma la memoria diventa sempre più corta e ci fa' dimenticare la reale scala di valori.