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Media digitali La storia i contesti sociali le narrazioni Italian Edition Gabriele Balbi Paolo Magaudda
Manuali di base
Gabriele Balbi - Paolo Magaudda
Media digitali
La storia, i contesti sociali, le narrazioni
Editori Laterza
© 2021, Gius. Laterza & Figli
Edizione digitale: settembre 2021
www.laterza.it
Proprietà letteraria riservata
Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma
Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy)
per conto della
Gius. Laterza & Figli Spa
ISBN 9788858146965
È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata
Indice
Introduzione
Ringraziamenti
1. Studiare i media e la società digitale
in prospettiva storica
1.1. Contestualizzare, definire e decostruire il «digitale»
1.2. Digitale e modelli di società: una breve storia
1.3. Perché una prospettiva storica?
► Nuovismo
► Rivoluzionismo o immobilismo?
► Errore teleologico
2. Il computer
2.1. L’origine di tutti i dispositivi digitali
2.2. I computer meccanici e il bisogno sociale di calcolare
2.3. La nascita dei computer digitali e i mainframes
2.4. Tra i mainframes e i PC: il computer «da tavolo», il time-sharing e i
microprocessori
2.5. Il personal computer
► L’invenzione
► Una nuova visione culturale
► Il PC diventa un oggetto di consumo
► La maturità: internet, laptop e Linux
2.6. Verso una società di computer onnipresenti
3. Internet
3.1. Cosa intendiamo quando parliamo di internet
3.2. L’influenza militare
3.3. L’influenza accademico-scientifica
3.4. L’influenza controculturale
3.5. L’influenza di «servizio pubblico»
3.6. L’influenza commerciale
3.7. L’influenza sociale
► Il web 2.0 e la retorica della partecipazione
► Dalla libertà al controllo sociale
► La rete diventa mondiale e si profila una «guerra» tra Stati Uniti e Cina per il suo controllo
3.8. E la prossima influenza formativa?
3.9. Conclusione: uno sguardo storico alla rete
4. Il telefono mobile
4.1. Telefonia mobile, mobilità e società contemporanee
4.2. Prima nascita: telefonia fissa, telegrafia senza fili e altri servizi di comunicazione
mobile
4.3. Seconda nascita: il ritardo americano, la frammentazione europea (con
un’eccezione)
4.4. Primo boom: GSM, digitalizzazione ed esplosione della telefonia mobile
4.5. Non solo per telefonare: breve storia degli SMS
4.6. Secondo boom: internet mobile e smartphone come nuovi paradigmi
4.7. La globalizzazione: un telefono per ogni abitante della Terra
4.8. Quale sarà la prossima fase?
5. La digitalizzazione dei media analogici
5.1. Due logiche di fondo: l’intermedialità e la dialettica tra trasformazione/continuità
5.2. La musica: compact disc, MP3 e streaming on line
5.3. La stampa: libri e giornalismo tra carta e digitale
5.4. Il cinema e il video: Pixar, Netflix e i nuovi consumi digitali
5.5. La fotografia: fotoritocco, cameraphone e social media
5.6. La televisione: digitalizzazione del segnale, smart TV e contenuti on line
5.7. La radio: il «fallimento» del DAB, lo streaming e i podcast
5.8. Un quadro d’insieme: alcune macrotendenze della digitalizzazione
6. La digitalizzazione come mitologia contemporanea
6.1. I «miti» della digitalizzazione come «egemonia culturale»
6.2. Primo mito: la digitalizzazione come una forza irresistibile
6.3. Secondo mito: la digitalizzazione come una livella globale
6.4. Terzo mito: la digitalizzazione come una forza rivoluzionaria
6.5. Il futuro della storia dei media digitali: nuove strade e alcune questioni aperte
Bibliografia
Appendice di dati
Introduzione
Media digitali. La storia, i contesti, le narrazioni è uno strumento per
avvicinarsi allo studio dei media digitali adottando una prospettiva storica,
attenta agli aspetti sociali e culturali che la digitalizzazione ha prodotto e
continua a produrre a livello globale.
Il libro è progettato per essere usato nei corsi di media e comunicazione,
ma è di interesse anche per altre discipline, come la storia, la sociologia,
gli studi sulla scienza e la tecnologia, l’economia politica, gli studi
culturali, l’antropologia e altri ambiti che vogliano far comprendere ai
propri studenti come i media digitali siano emersi e si siano sviluppati nel
corso di più di un secolo, o anche oltre. Difatti, la caratteristica principale
e più originale del libro è l’adozione di una prospettiva storica. Le storie del
computer, di internet, del telefono mobile e della digitalizzazione dei
media analogici vengono ricostruite nel corso dei capitoli a partire almeno
dalla fine dell’Ottocento, con una intensificazione a partire dalla seconda
metà del Novecento. Quello che proponiamo, insomma, è uno sguardo ai
media digitali di lunga durata, pur consapevoli che, secondo la prospettiva
di longue durée millenaria suggerita dallo storico francese Fernand Braudel,
questo periodo di tempo potrebbe sembrare in realtà piuttosto breve.
Non è così per gli studi sui media digitali, che si concentrano
generalmente sui fenomeni del presente o sugli ultimi anni
dell’evoluzione della digitalizzazione.
Adottare una prospettiva di lungo periodo è utile in primo luogo per far
emergere l’inestricabile intreccio tra il cambiamento portato dalle
tecnologie digitali e le forme di continuità con il sistema dei media
precedente e, in particolare, con le pratiche e le culture che hanno preso
forma nel passato con i media analogici. La dialettica tra cambiamento e
continuità rappresenta un’altra delle dimensioni fondanti di questo libro
e, al contempo, fornisce una risposta a una delle «mitologie» più
persistenti della digitalizzazione: l’idea che i media digitali abbiano
causato una «rivoluzione digitale» permanente, un radicale cambiamento
nelle abitudini di vita delle persone. La realtà, come sempre, è molto più
complessa e contraddittoria e questa complessità può essere compresa solo
riannodando i fili di un processo di lungo periodo, che ha visto emergere
alcune condizioni e bisogni sociali che hanno posto le basi per lo sviluppo
dei media digitali, che a loro volta hanno contribuito a trasformare le
società in cui sono stati adottati.
Le storie narrate in questo libro non si limitano però a un approccio
storico basato sugli eventi in ordine cronologico (la cosiddetta storia
evenemenziale). Piuttosto, l’idea è quella di identificare alcuni degli snodi e
dei processi più significativi nella nascita e nell’evoluzione sociale dei
media digitali, considerando tanto le storie di successo come alcuni
clamorosi fallimenti: dalle decisioni politiche ed economiche prese dai
governi e dagli organismi internazionali, al ruolo delle piccole startup
locali e delle potenti compagnie globali, fino alle forme imprevedibili e
inaspettate di riappropriazione delle tecnologie digitali da parte degli
utenti finali in diverse regioni del mondo. La storia dei media digitali che
proponiamo sarà quindi raccontata da vari punti di vista e attraverso
molteplici strumenti interpretativi per far emergere il costante intreccio
tra aspetti politici, economici, culturali, materiali e simbolici delle società
contemporanee. Tutto questo per provare a comprendere come le
tecnologie digitali abbiano plasmato diverse culture umane in vari modi,
ma anche come esse stesse siano state influenzate dalle società, in un
processo di «co-costruzione» o «modellamento reciproco» tra tecnologie
mediali e società, come spesso tale processo viene definito dagli studiosi
sociali di scienza e tecnologia.
Inoltre, vale la pena sottolineare che, sebbene i capitoli su computer,
internet e telefonia mobile siano distinti per ragioni di semplicità analitica
e perché il lavoro degli studiosi li ha tradizionalmente separati, questo
libro enfatizza la necessità di considerare i media digitali nella loro
interazione reciproca e ricorsiva. La storia dello smartphone è l’esempio
tipico di un mezzo che vede convergere idee, tecnologie e abitudini d’uso
che provengono da tradizioni e media differenti come il computer,
internet, la telefonia mobile e molti altri dispositivi digitali (e analogici).
Lo smartphone è un computer, è il principale strumento di accesso alla
rete, è un telefono ma è anche molte altre cose: una macchina fotografica,
un orologio, uno strumento di elaborazione di informazioni, e così via.
Per capire la rilevanza sociale e culturale dello smartphone occorre quindi
adottare una prospettiva che definiamo intermediale, per cui è necessario
considerare l’interazione e l’influenza reciproca di diversi media in uno
stesso periodo storico. Lo stesso vale per i media «tradizionali» che si sono
digitalizzati: la storia della televisione, ad esempio, non può essere
compresa senza considerare le «nuove» tecnologie (digitali e non) degli
anni Settanta come i satelliti, i videoregistratori e i telecomandi, così
come i social network come YouTube o le piattaforme di streaming come
Netflix (dove molte serie TV di culto vengono prodotte e rilasciate
oggigiorno).
Infine, il libro presenta anche una sensibilità globale. Ciò non significa
che in questo volume si parlerà di ogni paese del mondo, ma piuttosto che
si sottolineerà come la digitalizzazione generi tensioni e contraddizioni
anche su un piano globale: ad esempio, la produzione dei media digitali è
storicamente concentrata in un’area geografica, politica ed economica
limitata (con una prevalenza del mondo occidentale e degli Stati Uniti,
cui si è aggiunta l’Asia nell’ultimo decennio); oppure la maggioranza
degli utenti di internet o della telefonia mobile sono oramai collocati in
aree del mondo in precedenza secondarie nell’economia dei media globali
(come la Cina, l’India, il Brasile e alcuni paesi dell’Africa come la
Nigeria), con una profonda differenza rispetto alla prima fase di
diffusione dei media digitali, in cui gli utilizzatori erano concentrati
specie negli Stati Uniti e in Europa. Infine, considerare la dimensione
globale dei media digitali significa anche riconoscere che usi e pratiche
sociali relativi a questi strumenti di comunicazione sono profondamente
differenti in contesti sociali diversi, ricalcando la varietà di risposte che le
dimensioni locali hanno prodotto nei confronti delle pressioni esercitate
dal processo di globalizzazione. A questa dimensione globale e, al
contempo, culturalmente situata si lega l’attenzione ai contesti sociali: la
società globale contemporanea è stata investita e affascinata in maniera
sorprendentemente uniforme dalla digitalizzazione, ma al contempo
presenta conseguenze tutt’altro che uniformi in varie aree del mondo e
questo libro ne metterà in luce alcune contraddizioni.
La digitalizzazione, inoltre, non riguarda solo aspetti tecnici, ma
presenta profonde implicazioni culturali e simboliche, come metteremo
in luce in particolare nel capitolo conclusivo del volume. Le narrazioni
del digitale includono la costruzione di potenti «mitologie» attorno a
personaggi, oggetti, luoghi o idee che sono diventati centrali nello
sviluppo del mondo contemporaneo, alimentando costantemente
l’affermazione di un particolare modello di società sempre più incentrata
sui media digitali. Del resto, anche la digitalizzazione in sé può essere
considerata come una forza mitologica, rappresentata come una risorsa
autonoma in grado di cambiare le società in cui prende piede, di
migliorare la vita delle persone sotto vari aspetti, ma a volte anche di
proiettare ombre oscure su una serie di fenomeni, come la sorveglianza
dei cittadini, lo strapotere economico delle grandi aziende digitali o i
timori per le forme di dipendenza dall’uso dei dispositivi digitali. Anche
le mitologie, infine, hanno una loro dimensione diacronica e cambiano
nel corso del tempo, sostituite da altre narrazioni (o contro-narrazioni)
più potenti.
Il libro è diviso in sei capitoli. Il Capitolo 1 definisce i media digitali e
alcune delle caratteristiche più evidenti della digitalizzazione, propone
una breve storia dei modelli di società emersi con la «rivoluzione» dei
computer, dell’informazione e di altri strumenti digitali e, infine,
risponde a una domanda fondamentale: perché e quali benefici apporta
adottare una prospettiva storica alla digitalizzazione? I Capitoli 2, 3 e 4
sviluppano le storie specifiche di tre media digitali: computer, internet e
telefoni mobili. Questi mezzi di comunicazione, emblematici della
cosiddetta «rivoluzione digitale», sono in realtà emersi da idee e mezzi di
comunicazione precedenti. Obiettivo dei tre capitoli è quello di
raccontare gli intrecci tra questi media digitali e la politica, l’economia e
le società, anche grazie a una periodizzazione chiara, in grado di fornire ai
lettori e agli studenti dei quadri temporali di riferimento. Il Capitolo 5
analizzerà le conseguenze e le principali tendenze del processo di
digitalizzazione nei media «tradizionali» e, nello specifico, in sei settori:
musica, libri e giornali, cinema e video, fotografia, TV e radio. Infine, il
Capitolo 6, che funge anche da conclusione del volume, farà il punto sulle
principali narrazioni legate ai media digitali. Oltre alla bibliografia, utile
per approfondire alcuni dei temi affrontati nel volume, il lettore troverà
anche un’appendice di dati con alcune serie storiche in grado di illustrare
le principali tendenze nello sviluppo dei media digitali a livello globale.
Come tutte le storie, quella che proponiamo è necessariamente parziale
e selettiva. Ci siamo concentrati su tre grandi media digitali e sulle
conseguenze che la digitalizzazione ha avuto per i principali media
analogici, lasciando inevitabilmente da parte un certo numero di altre
storie che probabilmente sarebbero state altrettanto interessanti. Da un
lato, questo è comprensibile quando si tenta una ricognizione così ampia
in uno spazio limitato. D’altra parte, come sottolineeremo nel Capitolo 6,
questo libro è concepito come un primo passo entro un universo vasto e
ancora incompiuto, un punto di partenza introduttivo. Naturalmente,
speriamo che il libro riesca comunque a offrire una panoramica ampia e
variegata e a suggerire ulteriori percorsi di approfondimento che i singoli
lettori potranno decidere di intraprendere.
Ringraziamenti
Questo libro rappresenta il punto di arrivo di un lavoro quasi decennale portato avanti
congiuntamente dai due autori, che ha preso forma in almeno altre due pubblicazioni:
Storia dei media digitali. Rivoluzioni e continuità, pubblicato sempre da Laterza nel 2014, e A
History of Digital Media. An Intermedia and Global Perspective, pubblicato da Routledge nel
2018. Dei due volumi precedenti, il presente libro ricalca la struttura di base, ma la
arricchisce non solo aggiornando storie, dati e avvenimenti, ma modificando anche
alcune delle interpretazioni delle traiettorie che hanno caratterizzato l’affermazione dei
media digitali nelle società contemporanee.
Tra le numerosissime persone che hanno contribuito direttamente o indirettamente a
plasmare questo lungo lavoro, talvolta spingendoci a modificare i nostri punti di vista di
partenza, vorremmo ringraziare alcuni colleghi, ben consapevoli che probabilmente ne
dimenticheremo molti altri: Raffaele Barberio, Deborah Barcella, Luca Barra, Eleonora
Benecchi, Daniel Boccacci, Tiziano Bonini, Davide Borrelli, Paolo Bory, Stefano Bory,
Attila Bruni, Antonio Catolfi, Massimo Cerulo, Stefano Crabu, Stefano Cristante,
Alessandro Delfanti, Philip Di Salvo, Andreas Fickers, Martin Fomasi, Richard R. John,
Juraj Kittler, Katharina Lobinger, Ely Luethi, Paolo Mancini, Rita Marchetti, Alberto
Marinelli, Massimo Mazzotti, Manuel Menke, Andrea Miconi, Sergio Minniti,
Francesca Musiani, Simone Natale, Gianluigi Negro, Federico Neresini, Peppino
Ortoleva, David Park, Benjamin Peters, John Durham Peters, Benedetta Prario, Nelson
Ribeiro, Giuseppe Richeri, Maria Rikitianskaia, Massimo Rospocher, Massimo
Scaglioni, Cosimo Marco Scarcelli, Valérie Schafer, Christian Schwarzenegger, Daya
Thussu, Assunta Viteritti, Guobin Yang e Sara Zanatta. A questi si aggiungono le
decine di altri colleghi che, in conferenze e seminari, hanno permesso al libro di crescere
e, speriamo, migliorare. Un ringraziamento particolare va poi a Lia Di Trapani e
all’editore Laterza, non solo perché quasi un decennio fa hanno creduto nella validità del
nostro lavoro e l’hanno stimolato, ma anche perché sono ancora disposti a darci fiducia e
a sopportare i nostri ritardi.
Gabriele Balbi e Paolo Magaudda
Lugano e Bologna, 30 aprile 2021
1. Studiare i media e la società digitale
in prospettiva storica
1.1. Contestualizzare, definire e decostruire il «digitale»
A partire dagli anni Duemila i media digitali sono diventati un elemento
centrale delle riflessioni e dell’immaginario delle società contemporanee,
una possibile soluzione a buona parte dei problemi economici e sociali,
una delle principali «ossessioni» del nostro tempo: connettersi (o essere
sempre connessi) in rete, scambiarsi like o commenti sui social media,
acquistare prodotti on line, scaricare un’app, aggiornare il proprio profilo
virtuale, scambiare email, SMS o messaggi WhatsApp o WeChat, fare
brevi video su Instagram o TikTok, cercare informazioni sul web sono
solo alcune tra le infinite attività e i gesti abitudinari entrati a far parte
della vita quotidiana di miliardi di persone, modificando le possibilità
d’accesso alle informazioni, le opportunità economiche, la forma delle
relazioni sociali e i processi di costruzione dell’identità. I media digitali e
il loro uso sono diventati potenti metafore per descrivere e dare senso alle
società contemporanee a cavallo del millennio: il filosofo francese
Stéphane Vial (2013) ha parlato in proposito di «ontofania digitale»,
adattando un’espressione traslata dalla semantica religiosa (dal greco on
che significa essere e faneia apparizione) per indicare quanto l’universo
digitale appaia oggi come una delle «fedi» e delle «mitologie» più rilevanti
del mondo contemporaneo, in grado di condizionare nel profondo la
percezione e l’esperienza della realtà.
Gli «effetti» veri o presunti delle tecnologie digitali hanno assunto
dimensioni positive o negative, in relazione ai differenti periodi storici e ai
contesti culturali in cui sono state adottate. Per un verso, ad esempio, il
digitale è stato acclamato per aver permesso la creazione di nuove
«comunità», formate da persone che prima non avevano modo di
interagire tra loro, ma dall’altro verso ha anche contribuito alla
formazione di nuove barriere e disuguaglianze. Questa dimensione
controversa dei media digitali in ambito sociale è diventata oggetto di
discussione e di attenzione generale, a cominciare dall’immaginario
popolare, grazie a serie TV come Black Mirror (prima stagione nel 2011),
che ha offerto una lettura spesso distopica e inquietante sulle conseguenze
della digitalizzazione nel presente o nel prossimo futuro.
Proprio per la forza che ha esercitato nel costruire il mondo
contemporaneo, per il suo potere trasformativo e la sua forza metaforica,
per il fatto di essere impiegata frequentemente nel discorso pubblico ora
con toni trionfalistici ora con timore e paura, la digitalizzazione richiede
in primo luogo di essere definita e decostruita. Da dove proviene,
dunque, la parola «digitale»?
L’aggettivo «digitale» deriva dal latino digitus (dito) e, come ha sostenuto
Ben Peters (2016b), gli esseri umani sono «naturalmente» digitali, perché
fin dalle origini hanno dovuto contare, indicare e manipolare con le
proprie dita. Il termine digitale non nasce quindi con i computer o altri
strumenti tecnologici, ma è connaturato alla stessa natura umana. Eppure,
nella società contemporanea, il termine «digitale» è spesso usato in
contrapposizione ad «analogico», quasi si trattasse di due estremi di un
continuum. Un esempio concreto tratto dal mondo della musica ci aiuta a
chiarire questa distinzione: la differenza tra il disco in vinile analogico e il
compact disc digitale. Gli appassionati del vinile sanno che il suono del
disco è prodotto dal contatto tra la puntina e i solchi incisi sul disco
stesso. Questi solchi sono continui, nel senso che non ci sono interruzioni
nella spirale su cui sono incise le frequenze che contengono musica e
parole. Tra il suono e il solco c’è quindi un’analogia fisica, una
similitudine: se il solco è più o meno profondo produce un suono diverso.
Nel caso del CD, invece, la traccia audio è scomposta (o meglio
campionata) in una miriade di punti, e quindi in unità discrete e non
continue, i cui valori sono registrati sulla superficie del supporto in
formato binario, sotto forma di 0 e di 1. Il suono è prodotto dalla lettura
che il laser fa dei valori di questi singoli punti che, tradotti poi in
frequenze sonore, possono essere ascoltati in sequenza, ricreando così la
continuità dell’ascolto.
Questa distinzione presuppone che analogico sia tutto ciò che non è
digitale e viceversa. Tuttavia, come ha mostrato lo storico dei media
Jonathan Sterne (2016), la distinzione tra analogico e digitale è molto più
intricata e meno scontata. In primo luogo, «l’idea dell’analogico come
non-digitale è più nuova dell’idea stessa di digitale» (p. 32), poiché la
contrapposizione analogico/digitale si è definita con forza solo negli
ultimi decenni, ed è quindi successiva alla creazione dei primi computer
che oggi definiamo «digitali». Ciò che intendiamo oggi con la parola
«analogico» è più il risultato storico di una serie di distinzioni culturali e
mutamenti dei confini simbolici del termine, piuttosto che una
caratteristica tecnica oggettiva: negli anni Cinquanta del Novecento il
termine «analogico» indicava tutto ciò che riguardava i computer, negli
anni Settanta il termine iniziò a significare un contrasto con i nuovi
dispositivi elettronici (ma non per forza digitali) e, infine, solo dagli anni
Novanta ha iniziato a essere utilizzato con la connotazione di «vecchio
stile» e anche «vintage». In altre parole, le definizioni di analogico e
digitale si sono evolute insieme e sono cambiate nel tempo in un rapporto
dialettico e reciproco.
Il significato che oggi attribuiamo comunemente al digitale è legato
anche a due processi che spesso vengono confusi: la numerizzazione e la
binarizzazione (Lister et al. 2009). La digitalizzazione è un fenomeno che
coinvolge in primo luogo la numerizzazione (tanto che in italiano e in
francese, ad esempio, si usano i termini numerizzazione e numérisation),
ovvero la conversione in cifre di contenuti che prima erano espressi in
linguaggi differenti. Con le tecnologie analogiche, ad esempio, video,
audio e testo erano trasmessi come segnali continui e ciascuna di queste
tre forme di contenuti era differente dalle altre; con la digitalizzazione
video, audio e testo sono invece tutti codificati come dati numerici e
risultano quindi indistinguibili tra loro. Scomposti in numeri, non
riusciamo infatti a capire se la stringa di cifre sia riferita a un video o a un
testo.
Vi è poi la binarizzazione: spesso si crede, erroneamente, che
digitalizzare equivalga a convertire dati fisici in informazione binaria. In
realtà, la digitalizzazione, come indica la sua seconda etimologia tratta
questa volta dall’inglese digit (cifra), è la semplice assegnazione di valori
numerici, così come l’abbiamo su descritta. D’altra parte, il fatto che si sia
pensato di digitalizzare i contenuti attraverso stringhe di 0 e 1, chiamate
bit, ha enormemente semplificato il processo di codifica e decodifica,
perché riduce ogni componente a due stati: acceso o spento, passaggio o
non-passaggio di corrente, 0 o 1. I programmi che vediamo sulle nostre
TV digitali non sono altro che sequenze di 0 e 1, in cui sono scomposte le
onde continue generate da suoni e immagini, trasformate in stringhe di
valori che non hanno più alcuna relazione analogica o meglio nessuna
analogia con gli originali. Sono dunque le TV o i decoder a tradurre e
ricomporre la sequenza di 0 e 1 in suoni e immagini comprensibili e
consumabili nelle nostre case.
I fenomeni di numerizzazione e di trasformazione in codice binario
hanno diverse importanti conseguenze per la circolazione dei contenuti
mediali. In primo luogo, trattare tutte le forme di comunicazione allo
stesso modo permette apparentemente di «smaterializzare» i contenuti dei
media; comprimerli e quindi trasferirli più in fretta; manipolarli o
modificarli in maniera semplice; conservarli in supporti che occupano
poco spazio perché l’informazione digitale è densa – si pensi alla
differenza tra le ore di audio-video che possono essere contenute in una
cassetta VHS e in un hard disk esterno da alcuni gigabyte, o ancora allo
spazio potenzialmente infinito in cloud. Una delle differenze spesso
evidenziate tra i media analogici e quelli digitali è che, con quelli
analogici, tutti questi processi erano più complessi e costosi, come
dimostra la necessità di dover tagliare e copiare supporti fisici (si pensi alle
bobine cinematografiche) o trasferirli da un luogo all’altro attraverso
sistemi di trasporto (si pensi al giornale cartaceo). Tuttavia, questa ipotesi
può essere contestata con una prospettiva storica: le onde radio o i cavi
telegrafici e telefonici permettevano già di trasferire informazioni in
maniera istantanea oppure i primi computer necessitavano di supporti
grandi e pesanti come le bobine di nastro magnetico per immagazzinare
la memoria (cfr. Capitolo 2).
Ciò detto, è forse più interessante decostruire un’altra argomentazione
di frequente collegata alla digitalizzazione: quella che essa causi
immancabilmente la smaterializzazione dei contenuti e della cultura. Al
contrario, possiamo constatare che la digitalizzazione è stata
accompagnata da un’esplosione della presenza di nuovi oggetti materiali e
di nuovi hardware nella nostra società: dai personal computer agli
smartphone, dai DVD alle penne USB, dai lettori MP3 alle fotocamere,
dai cavi in fibra ottica ai grandi server che necessitano di essere
raffreddati, fino a un’infinità di accessori all’apparenza superflui ma che
fanno parte del mondo digitale come le custodie degli smartphone.
Possiamo così decostruire un’idea assai diffusa attorno ai presunti effetti
del digitale: anziché tradursi in una smaterializzazione della cultura, le
tecnologie digitali sembrano invece stimolare la diffusione di un nuovo
universo materiale, costituito da supporti e oggetti fisici. Oggetti che,
nelle diverse culture, sono spesso circondati da significati, simboli e
mitologie.
1.2. Digitale e modelli di società: una breve storia
Il digitale non è costituito solo da aspetti tecnici e materiali: per
ricostruire i significati profondi che ruotano attorno alla digitalizzazione
occorre anche considerare come si siano evolute le rappresentazioni e gli
immaginari del digitale nella cultura contemporanea. Nonostante
l’importanza culturale, sociale ed economica dei media digitali, infatti,
fino a oggi le scienze storico-sociali si sono interrogate solo in modo
parziale sulle radici, le correnti di pensiero, le metafore e le visioni che
hanno favorito l’emergere di una società sempre più digitalizzata. In altre
parole: quando e in che modo la nostra società ha iniziato a pensare a sé
stessa come a una società digitale?
I primi tentativi di individuare il fulcro delle trasformazioni in atto nella
società moderna nell’evoluzione del calcolo, della comunicazione e dei
computer risalgono al periodo immediatamente successivo alla Seconda
guerra mondiale e, in particolare, al successo di due cornici teoriche
emerse in quegli anni: la cibernetica e la teoria dell’informazione (Heims
1994). La cibernetica fu un innovativo ambito interdisciplinare che prese
forma dagli anni Quaranta del Novecento. Etimologicamente,
«cibernetica» proviene dal greco e rimanda al campo semantico navale e si
può tradurre letteralmente come «l’arte di pilotare». Padre della
cibernetica è considerato il matematico statunitense Norbert Wiener, che
si occupò di studiare i fenomeni di autoregolazione dei sistemi di
comunicazione nelle loro interazioni con l’ambiente sociale. Wiener
riconobbe tra i fenomeni cruciali per le trasformazioni sociali sia
l’evoluzione delle forme di comunicazione, sia il ruolo delle macchine e
della loro interazione con l’ambiente sociale. Sempre nei medesimi anni,
più precisamente nel 1948, l’ingegnere e matematico Claude Shannon
tracciò le basi logico-matematiche di un modello di trasferimento della
comunicazione, chiamato «teoria dell’informazione» e poi evolutosi nella
«teoria matematica dell’informazione» con l’aiuto di un altro scienziato,
Warren Weaver. Tali modelli, basati perlopiù sulle comunicazioni
telefoniche, dal momento che i due matematici li svilupparono nei
laboratori di ricerca della principale società telefonica americana, AT&T,
rappresentarono un riferimento centrale dei nascenti studi sulla
comunicazione e, più in generale, permisero di identificare «la
comunicazione» come dimensione cruciale della società postbellica. È
questo l’assunto di base di una tesi elaborata da Philippe Breton (1996).
Secondo lo storico francese, infatti, il successo delle tesi di Wiener,
Shannon e Weaver fu possibile solo grazie all’eredità culturale della Prima
e della Seconda guerra mondiale. All’indomani delle guerre mondiali,
apparve chiaro come gli esseri umani nella prima metà del Novecento
avessero assunto delle scelte irrazionali e fortemente autodistruttive.
Meglio sarebbe stato, era anche la convinzione dei cibernetici, che queste
scelte fossero compiute da macchine in grado di comunicare tra loro in
maniera logica e razionale. La comunicazione tra macchine, in altri
termini, assunse un valore post-traumatico – ovvero la capacità di
rassicurare dopo il trauma delle guerre – e l’idea di comunicazione in sé
cominciò a essere percepita come uno strumento salvifico e liberatorio,
un valore centrale nella rifondazione dell’organizzazione delle società
uscite dal secondo conflitto mondiale. Nel 1948 Wiener stesso,
nell’introduzione a La cibernetica (1953, p. 23), scrisse che «la società può
essere compresa soltanto attraverso lo studio dei messaggi e dei mezzi di
comunicazione relativi ad essi». Fu insomma grazie alla cibernetica e alla
teoria dell’informazione che le scienze della comunicazione cominciarono
a essere considerate come discipline fondamentali nell’alveo delle scienze
umane e sociali.
Nei decenni successivi, varie teorie e cornici interpretative misero a
fuoco una serie di trasformazioni sociali e culturali che solo in seguito
divennero caratterizzanti dell’odierna società digitale. Possiamo
identificare almeno cinque differenti cornici teoriche o modelli di
riferimento di nuove società emersi nella seconda metà del Novecento e
che hanno in qualche modo aperto la strada all’idea di società digitale.
La prima è quella di società dell’informazione, una definizione che mette in
luce la centralità dell’informazione quale risorsa e motore più importante
dello sviluppo politico, economico e culturale della società
contemporanea. Questa prospettiva vedeva l’informazione come una
forza irresistibile in grado di rivoluzionare interamente la società e in
particolare il mercato del lavoro e l’economia (Dordick, Wang 1993;
Richeri 2012). Tale concetto fu introdotto nel corso degli anni Sessanta
del Novecento, ma la sua origine è incerta: tra i molti studiosi che hanno
ispirato le tesi della società dell’informazione sono stati ricordati, ad
esempio, il francese Gottmann, l’austriaco-statunitense Machlup, i
giapponesi Umesao, Igarashi, Masuda e Hayashi. Il primo piano organico
a prevedere la trasformazione della società in direzione dell’informazione
è probabilmente quello contenuto in un documento del 1972 dello Japan
Computer Usage Development Institute (1974): in esso viene
dettagliatamente illustrato il piano del governo per raggiungere un «nuovo
traguardo nazionale» rappresentato appunto dall’informatizzazione della
società giapponese.
Frank Webster (2006), forse uno dei maggiori studiosi del tema, ha
elencato le principali caratteristiche che definiscono le società
dell’informazione: tra queste, il fatto che le attività economiche siano
guidate dall’informazione, che la maggior parte delle occupazioni si
trovino in quel settore, che luoghi spazialmente disgiunti siano messi in
connessione grazie alle tecnologie dell’informazione e della
comunicazione, che ci sia un aumento esponenziale dell’informazione a
disposizione, che siano fiorite nuove tecnologie come i satelliti, i
computer, la convergenza tra varie tecnologie di rete e la rapida crescita di
internet. Tuttavia molte di queste caratteristiche, osserva Webster (2006,
p. 21), possono essere criticate e ribaltate, dal momento che spesso si
limitano a fornire parametri quantitativi, senza descrivere nel profondo la
qualità di queste trasformazioni. Ad esempio, l’aumento percentuale delle
mansioni legate all’informazione, della percentuale di prodotto interno
lordo nazionale generato dall’informazione, oppure il presunto aumento
esponenziale dell’informazione che possiamo consumare che impatto
hanno sulle società? E tale impatto è misurabile con gli strumenti e i
parametri attuali?
Un altro dibattito vede contrapporsi posizioni che individuano
nell’avvento di una società dell’informazione un salto di paradigma
rispetto al passato, e studi che, invece, mettono enfasi sulle continuità
storiche. Ai fini di questo libro è però interessante notare come
l’emersione della società dell’informazione incroci la digitalizzazione
almeno per due aspetti: da un lato, alcuni media digitali (computer in
primis, ma anche internet e comunicazioni mobili) sono anche tecnologie
caratterizzanti della società dell’informazione; dall’altro, vi è una
comunanza di molte caratteristiche (e mitologie) che, nate nella società
dell’informazione, sono poi diventate un riferimento dell’attuale società
digitale, come vedremo nelle prossime righe. In altre parole, pur se data
per scontata, l’idea di società dell’informazione è profondamente
intrecciata al digitale, la cui recente diffusione ha contribuito ancor di più
a porre il concetto di informazione (e di disinformazione) al centro della
comprensione delle società contemporanee.
Un’altra forma di società, spesso usata in stretta relazione con società
dell’informazione, è la cosiddetta società postindustriale. Secondo la nota
definizione del sociologo Daniel Bell (1973), nei primi anni Settanta con
questa locuzione si iniziò a indicare il passaggio imminente da
un’economia basata sulla produzione di beni a una incentrata sui servizi.
Questo passaggio includeva la progressiva crescita di rilevanza dei
lavoratori cognitivi, delle conoscenze teoriche e della cosiddetta
«tecnologia intellettuale», che vedeva nel computer uno strumento
indispensabile per l’organizzazione automatica di tutti gli aspetti della vita
umana. Oltre all’onnipresenza dei computer, un punto di forte contatto
tra società postindustriale e digitalizzazione è la centralità acquisita dalla
dimensione immateriale e dai servizi, che sono possibili grazie alla
creazione, trasferimento e conservazione di dati digitali.
Anche l’idea di società postindustriale può essere criticata sotto vari
punti di vista. Ad esempio, possiamo chiederci: perché un maggior
numero di impiegati nel settore dell’informazione dovrebbero dar vita a
una nuova era (post-) rispetto alla precedente? Oppure: perché Daniel
Bell e altri teorici usarono i classici della sociologia di fine Ottocento per
descrivere una società nata solo nel secondo Novecento? O meglio, come
potevano questi studiosi avere gli strumenti per definire e comprendere il
postindustriale, se quest’ultimo rappresenta davvero una cesura? Infine, è
possibile definire in modo univoco il settore dei servizi come quello
caratterizzante un’intera epoca, vista peraltro la sua disomogeneità? Ciò
detto, ancora una volta è centrale evidenziare come le nuove tecnologie
dell’informazione, digitali e non digitali, vennero viste come portatrici di
nuove forme di società.
Una terza visione di società è legata al macroconcetto della convergenza
dei media, un’idea definita in modo autonomo all’interno del sistema dei
media (Balbi 2017a), ma che interseca e rinforza in più punti quella di
digitalizzazione. L’idea di convergenza dei media, anzitutto, ha un’origine
di natura tecnologica. A partire dai tardi anni Settanta e primi anni
Ottanta del Novecento, vari studiosi e professionisti dei media hanno
previsto la progressiva sovrapposizione di settori mediali precedentemente
distinti: in particolare informatica, telecomunicazioni e contenuti
editoriali sarebbero inevitabilmente andati a convergere come
conseguenza della digitalizzazione dei contenuti, dei dispositivi e delle
reti di trasporto dell’informazione. Allo stesso modo sarebbero andati a
convergere i media digitali e, progressivamente, le persone avrebbero
usato un unico dispositivo digitale che avrebbe sussunto tutti i precedenti
(era questa l’idea della cosiddetta überbox). Negli anni Novanta, questa
idea di convergenza dei media venne esplicitata anche sul piano politico
ed economico. Vari governi del mondo attuarono politiche di
liberalizzazione dei mercati, permettendo così alle aziende di investire in
settori diversi da quelli di appartenenza e quindi favorendo la convergenza
tra imprese mediali appartenenti a diversi ambiti. Così, tra la seconda
metà degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio si realizzarono
una serie di fusioni tra grandi compagnie, come, ad esempio, quella tra
America On Line e Time Warner oppure tra Viacom e CBS (in questi
due casi aziende di telecomunicazioni, e quindi provider internet, si
fusero con altre di intrattenimento).
A partire dagli anni Duemila una nuova accezione di convergenza dei
media ha cominciato a emergere, specialmente sotto la spinta delle teorie
dello studioso dei media Henry Jenkins (2010): la cultura della
convergenza ha portato a un progressivo fluire di prodotti mediali
attraverso diverse piattaforme digitali, cosa che ha profondamente
cambiato anche il consumo dei media contemporaneo, rendendolo più
attivo e partecipativo. Anche se molti fenomeni di convergenza dei media
precedono la digitalizzazione, come vari studi hanno messo in luce
(O’Sullivan, Fortunati 2021), la crescita di interesse per questo fenomeno
è stata amplificata dalla progressiva trasformazione digitale degli ultimi
decenni.
La quarta forma di società che incrocia il digitale è quella postmoderna.
L’idea dell’emergere di una società postmoderna è andata definendosi a
metà degli anni Ottanta, a partire dalle riflessioni di filosofi e sociologi
soprattutto francesi, come Jean-François Lyotard (1981) e Jean
Baudrillard (2008). Queste riflessioni individuavano una cesura, nella
storia del Novecento, tra una modernità tradizionale e un’epoca
postmoderna caratterizzata dal crollo di valori e di narrazioni sociali
condivise e, dunque, incapace di fornire un’interpretazione unificante
dell’esperienza sociale. Nel corso degli anni la definizione di
postmodernità è andata caratterizzandosi soprattutto in termini culturali,
diventando un’etichetta utile per mettere in rilievo alcuni fenomeni che,
sotto differenti aspetti, sono stati associati anche alla rivoluzione digitale:
tra questi, un indebolimento della distinzione tra reale e virtuale, da un
lato, e la tendenza all’appropriazione e alla decontestualizzazione di
riferimenti e simboli culturali appartenenti ad altre epoche o luoghi per
attribuirgli nuovi significati, dall’altro.
La quinta e ultima società cui ci riferiamo è la network society o «società
delle reti»: una definizione portata alla ribalta a metà degli anni Novanta e
che, pur avendo una semantica autonoma rispetto al digitale, è
direttamente incentrata sulle trasformazioni prodotte dalla rete internet e
quindi dalle comunicazioni digitali (Miconi 2013). La formulazione di
tale espressione risale anch’essa alla fine degli anni Settanta del
Novecento, ma la sua popolarizzazione si deve principalmente a due
volumi scritti a metà degli anni Novanta da Jan van Dijk (1999) e Manuel
Castells (2002). Con questa espressione i due sociologi hanno inteso
fotografare una serie di trasformazioni avvenute nella seconda metà del
Novecento e che, nuovamente, coinvolgono aspetti economici, lavorativi,
spaziali, temporali e comunicativi. Queste trasformazioni hanno fatto
delle reti la dimensione centrale e la forma predominante di
organizzazione della modernità: lo ha sostenuto anche Pierre Musso
(2007), che ha addirittura definito questa ideologia contemporanea della
rete con il termine «retiologia». I media digitali sono centrali nella
definizione della società delle reti non solo perché internet e la telefonia
mobile sono basati su network di comunicazione, ma anche perché le reti
rappresentano l’infrastruttura informativa su cui i processi culturali della
network society sono basati. Internet, poi, è divenuta simbolo della società
delle reti per antonomasia, imponendo il concetto stesso di rete come una
delle metafore preponderanti della società digitale.
La storia culturale dell’idea di digitalizzazione interseca dunque visioni
della società e delle comunicazioni che si sviluppano almeno dagli anni
Quaranta, per poi emergere prepotentemente all’attenzione generale a
partire dagli anni Settanta e Ottanta del Novecento. Queste idee
riconoscono nell’informazione, nell’economia immateriale, nella
convergenza dei media, nella perdita di cornici culturali condivise e
nell’esistenza stessa della rete i tratti caratteristici delle società avanzate.
L’idea stessa di digitalizzare le comunicazioni e i contenuti culturali prese
forma sulla scorta della crescente popolarità di un nuovo mezzo di
comunicazione che, proprio in quei decenni, cominciava a uscire dai
laboratori accademici, dai settori di ricerca e sviluppo delle grandi aziende
e dai centri militari per farsi un medium popolare e portatore di una
nuova cultura: il computer. Come vedremo nel Capitolo 2, fu il personal
computer, in particolare, a favorire la diffusione dell’idea che la
digitalizzazione avrebbe rappresentato la nuova frontiera rivoluzionaria
del mondo della comunicazione, poi seguito da molti altri dispositivi
tecnologici di cui parleremo nei vari capitoli e che rappresentano una
sorta di estensione e progressiva concretizzazione dell’idea di digitale.
Una piena riflessione di natura politica sulla digitalizzazione emerse tra
gli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, quando, parallelamente in diversi
paesi del mondo, i governi compresero la necessità di rinnovare
radicalmente le proprie infrastrutture di telecomunicazione. Esse
avrebbero dovuto trasportare sempre più dati (e non solo voce) e la loro
digitalizzazione andava interpretata come un volano per l’economia e
addirittura per lo sviluppo dell’intera società. Negli anni Novanta, si fece
largo l’idea che la rete internet avrebbe trasformato la società (cfr.
Capitolo 3). Dagli anni Duemila, la digitalizzazione è stata riconosciuta
come un’idea data per scontata, una forza irresistibile che avrebbe
trasformato nel profondo le società contemporanee. In termini
quantitativi, ci sono pochi dubbi sull’esplosione e la diffusione di
dispositivi digitali, specie se guardiamo alla telefonia mobile (cfr. Capitolo
4) e poi alla progressiva e non sempre vincente digitalizzazione dei mezzi
di comunicazione tradizionali (cfr. Capitolo 5). Espressioni come
«rivoluzione digitale» o, più di recente, «trasformazione digitale» e digital
disruption racchiudono in slogan di grande fortuna l’idea che la
digitalizzazione sia destinata a cambiare radicalmente il modo di vivere
degli esseri umani.
Abbiamo fin qui definito il digitale ed evidenziato nuovi modelli e
forme sociali emersi nelle società contemporanee che si sono intrecciati
con la digitalizzazione. È ora il momento di chiedersi come la
digitalizzazione e, più nello specifico, i media digitali possano essere
analizzati con un approccio storico e quali siano i vantaggi di uno sguardo
attento alle traiettorie di lungo periodo.
1.3. Perché una prospettiva storica?
Negli ultimi decenni, il ruolo di primo piano assunto dai media digitali
ha generato una crescente attenzione di varie discipline delle scienze
sociali e umanistiche. Ad esempio, studi sociologici hanno indagato
l’impatto dei «nuovi media» sulle identità e i legami collettivi,
concentrandosi tra gli altri su temi quali la privacy, i social network, le
disuguaglianze, la celebrità. Approcci psicologici hanno messo
maggiormente in rilievo l’impatto del digitale sui rapporti interpersonali,
così come sulla mente e il cervello degli utenti (conducendo spesso a
risultati contrastanti che vanno dal potenziamento dell’intelligenza
all’incentivazione della stupidità collettiva). Le scienze economiche hanno
guardato alla digitalizzazione, e più in generale all’informatizzazione,
come a una dirompente forza di cambiamento delle pratiche produttive e
della tradizionale relazione tra domanda e offerta di beni e servizi (non è
un caso che la cosiddetta new economy sia sostanzialmente divenuta un
sinonimo di economia digitale). Studi politologici hanno visto nella rete
internet e nelle reti sociali nuovi luoghi di aggregazione e di discussione
dei valori politici condivisivi, oscillando anch’essi tra l’entusiasmo per
nuove forme di partecipazione politica (ad esempio, la democrazia diretta
digitale) e la preoccupazione per il controllo di stampo totalitario
permesso dalle tecnologie digitali. Ci sarebbero moltissimi altri esempi di
discipline che hanno messo la digitalizzazione al centro della loro
riflessione recente. Riferendoci al solo contesto italiano, negli ultimi anni
si sono moltiplicati sia i manuali di scienze sociali espressamente dedicati
ai media digitali (Arvidsson, Delfanti 2013; Bennato 2011; Boccia Artieri
2012; Miconi 2013; Paccagnella, Vellar 2016; Stella et al. 2014; Tosoni
2011), sia approfondimenti specifici sul loro ruolo culturale e simbolico,
come, ad esempio, nell’analisi della già citata serie TV Black Mirror
(Bennato 2018; Garofalo 2017; Tirino, Tramontana 2018).
Questo libro intende affrontare lo studio dei media digitali da un
versante perlopiù trascurato: quello della storia. La storia dei media
digitali è stata fino ad anni recenti ben poco considerata, sia perché i
nuovi media sono un fenomeno apparentemente recente (anche se lo
stesso termine «nuovi media» è stato usato almeno a partire dagli anni
Sessanta e Settanta in riferimento ai satelliti, alle videocamere e ad altre
tecnologie della comunicazione), sia perché essi sembrano cambiare così
in fretta da non permettere uno sguardo distaccato e di lungo periodo
come quello storico, sia infine perché il discorso comune sui media è
appiattito su una descrizione «rivoluzionaria» e su una rottura drastica con
il passato.
Media digitali intende invece seguire e sviluppare ulteriormente l’agenda
di ricerca identificata da alcuni storici dei media come Lisa Gitelman
(2006), Jonathan Sterne (2012), Benjamin Peters (2009), Dave Park,
Nick Jankowski e Steve Jones (2011), Jussi Parikka (2019) e molti altri.
Studiare i media digitali con una prospettiva storica significa adottare uno
sguardo di lungo periodo, in grado di bilanciare cambiamenti e continuità
che si realizzano nel corso del tempo, prestando attenzione a forme di
comunicazione digitale che sono oggi scomparse ma che in passato erano
viste come il futuro obbligato. Non proporremo un’analisi storica che
vuole ordinare cronologicamente gli eventi in una successione di date e
invenzioni rilevanti, ma una storia in grado di interrogarsi – anche con
l’ausilio di altre discipline quali la political economy of communication, gli
studi sociali sulla scienza e tecnologia e gli studi culturali – su alcuni snodi
fondamentali della digitalizzazione. A interessarci saranno in primis la
storia delle idee e delle azioni di governi e aziende private che abbiano
impattato sullo sviluppo del digitale. Per fare solo tre esempi che troverete
nel volume, ci soffermeremo sulle direttive politiche che hanno guidato le
strutture e i significati della rete internet in diversi contesti, sul sistema
GSM applicato alla telefonia mobile in Europa e poi via via in molti paesi
del mondo, infine sui formati come l’MP3 poi divenuti popolari
nell’universo digitale. Al tempo stesso, nel libro sarà dedicato ampio
spazio al ruolo che alcune aziende digitali hanno giocato negli ultimi
decenni: Amazon, Google, Facebook, Alibaba, Tencent, Samsung, Apple
e molte altre saranno analizzate nella loro rilevanza storica e «mitologica»,
prestando particolare attenzione al loro status simbolico nella cosiddetta
rivoluzione digitale.
Accanto alla dimensione politico-economica, ce ne sarà una
propriamente tecnologica. Come già ricordato, infatti, il digitale ha
imposto una nuova materialità fatta di nuovi strumenti, oggetti e reti
(Gillespie et al. 2014; Magaudda 2020). La materialità dei media è oggi
un tema centrale negli studi sui flussi di produzione, conservazione,
distribuzione e consumo dei media digitali: dai server che ospitano i dati
in cloud, che vengono conservati in centri e luoghi ben identificabili (Hu
2015), ai cavi sottomarini attraverso cui è veicolato il 90% del traffico
internazionale di internet (Parks, Starosielski 2015; Starosielski 2015);
dall’obsolescenza di oggetti digitali, che passano rapidamente di moda e
vengono sostituiti e riciclati con frequenza (Tischleder, Wasserman
2015), all’inquinamento generato proprio da quelle tecnologie digitali che
sono state spesso raccontate come pulite ed ecocompatibili (Gabrys 2011;
Cubitt 2017). Il ruolo della dimensione materiale dei media digitali sarà
un aspetto ricorrente anche in questo libro e, in varie parti, si porrà
attenzione alla vita sociale di differenti oggetti e infrastrutture come gli
hub che ospitano i centri di raccolta dati, i cavi delle reti, il personal
computer e tutti i dispositivi oggi onnipresenti come smartphone, tablet,
lettori MP3, e molti altri.
Una terza prospettiva storica del libro ha a che fare con gli utenti e la
riappropriazione culturale dei media digitali in diverse società. È una
dimensione attenta sia al fatto che i media digitali siano un fenomeno
globale, sia alle modalità con cui spesso essi vengono riadattati dagli utenti
alle proprie esigenze. Nei vari capitoli di questo libro, si apriranno piccole
storie alternative dell’appropriazione dei vari media digitali e riferite a
regioni del mondo considerate come «subalterne» al modello statunitense
o europeo. L’ascesa del modello multilaterale di governance globale di
internet sostenuto da Cina e Russia contro il modello multistakeholder
guidato dagli Stati Uniti, l’uso del telefono mobile in alcuni paesi africani
o ancora il predominio delle aziende giapponesi nel mercato delle
fotocamere digitali sono solo alcuni esempi di nuovi trend in grado di
sovvertire le logiche di potere classiche e di far emergere tensioni e
differenze regionali nelle pratiche culturali legate al digitale. Più in
generale, il contributo di questa prospettiva è quello di spingerci a
considerare la storia dei media digitali in un’ottica veramente globale,
dove globale non significa che verranno approfondite le storie della
digitalizzazione in tutte le regioni del mondo, ma si traduce invece in un
invito a de-occidentalizzare l’interpretazione oggi dominante delle
conseguenze dei media digitali nel mondo sociale.
Ma l’approccio storico non esaurisce qui i suoi effetti che riteniamo
benevoli. Più in generale, infatti, guardare storicamente ai media digitali
significa capire meglio cosa sia veramente nuovo rispetto al recente passato e
quali siano le conseguenze profonde e durature della digitalizzazione. Nel
fare questo, l’approccio storico contribuisce a contrastare, o quantomeno
mitigare, tre derive ricorrenti nelle scienze sociali e umane applicate ai
media (e in particolare a oggetti in costante cambiamento come i media
digitali): il nuovismo, l’oscillazione tra rivoluzione e immobilismo e, infine,
l’errore teleologico. Analizziamole più nello specifico perché ci aiuteranno a
illustrare il nostro modo di fare e intendere la storia dei media digitali.
► Nuovismo
I media digitali sono stati spesso studiati con un atteggiamento
«nuovista», che tende a sopravvalutare ogni nuovo mezzo di
comunicazione, a focalizzare l’attenzione e le ricerche solo sugli ultimi
ritrovati tecnologici e, addirittura, a giudicare i mezzi del passato come
inevitabilmente peggiori o meno evoluti. Il nuovismo, in tal senso, può
essere ritenuto un corollario del presentismo o del crono-centrismo, due
termini molto utilizzati dagli storici e che indicano appunto la tirannia
che il tempo presente esercita sulla nostra capacità di giudizio e di mettere
in dimensione storica gli avvenimenti. Nuovisti, presentisti e crono-
centristi ritengono che il presente in cui si trovano a vivere (e a scrivere)
sia un momento senza precedenti e quindi con caratteristiche uniche e
inedite rispetto al passato. Inutile tentare parallelismi con epoche storiche
e strumenti tecnologici di altre ere.
I media digitali sono spesso stati interpretati e studiati con un’attitudine
nuovista, che ne offusca la piena comprensione per almeno tre motivi.
Innanzitutto, il mezzo «più recente» è solo un concetto temporale,
temporaneo e storico, dal momento che ciò che oggi appare come la
punta dell’innovazione digitale (il nuovo), domani sarà già considerato
qualcosa di sorpassato. In secondo luogo, non esiste un processo lineare
che vada da forme di comunicazione povere e «stupide» a forme ricche e
«intelligenti» (smart, non a caso, è uno dei prefissi più usati nei media
digitali oggi). Come hanno sottolineato ancora Lisa Gitelman e Geoffrey
B. Pingree (2003), il medium più recente non è sempre il migliore e le
storie dei media sono spesso un processo costituito da prove ed errori,
forme di metabolizzazione e di rifiuto da parte di potenziali utenti.
Infine, per valutare se davvero i media digitali abbiano fatto entrare
l’umanità in un nuovo paradigma comunicativo senza precedenti storici
occorrerebbe conoscere a fondo la storia della comunicazione e
rintracciare eventuali parallelismi, non tanto a livello tecnologico, quanto
a livello concettuale. Non è infatti la prima volta nella storia in cui si
discute, per citare alcuni presunti effetti dei media digitali, di notizie false,
echo chambers, attivismo mediatico, solitudine, amatorialità, telepresenza,
intelligenza artificiale e molti altri concetti (Balbi et al. 2021).
Rintracciare la traiettoria storica di questi e altri concetti all’apparenza
nati come digitali è indispensabile per capirne l’affermazione
contemporanea, i significati che si sono stratificati nel corso del tempo e,
appunto, per evitare di cadere in un approccio tutto teso a esaltare le
novità.
Ma, allora, come può un approccio storico contrastare il cosiddetto
nuovismo? Anzitutto, i media nello stato in cui si presentano oggi sono
frutto di un processo di selezione storica (Stöber 2004). Ad esempio,
internet, come verrà messo in luce nel Capitolo 3, è cambiata molte volte
nel corso della sua storia: da rete utile a scopi militari a strumento di
condivisione della ricerca scientifica, da idea controculturale di
comunicazione libera e illimitata a deposito del sapere mondiale con il
WWW, infine da immenso luogo del commercio virtuale a rete sociale
entrata nelle abitudini quotidiane di miliardi di persone. Tutte queste fasi
della storia di internet hanno lasciato alcune influenze formative, vale a
dire che alcune logiche della rete pensate negli anni Cinquanta o Sessanta
del Novecento non sono scomparse, ma anzi continuano ancora oggi a
influenzare il suo funzionamento. In altri termini, anche per chi volesse
studiare i media digitali solo nella loro forma attuale, sarebbe impossibile
evitare la stratificazione storica.
La storia ci aiuta inoltre a combattere il nuovismo anche perché mette in
luce il forte legame tra vecchi e nuovi mezzi di comunicazione: i nuovi
media emergono sempre imitando o comunque ispirandosi ai vecchi, i
quali a loro volta subiscono un processo di rimediazione, riconfigurazione
e di spostamento di senso dovuto all’avvento del nuovo (Balbi 2013;
Bolter, Grusin 1999; Natale 2016). In un determinato periodo storico, in
altri termini, i diversi media sono tutti interrelati e s’influenzano tra loro
secondo una logica intermediale o di sistema dei media (Dahl 1994;
Ortoleva 1995; su intermedialità e digitale cfr. Müller 2010). Questo
elemento di intermedialità sarà preponderante in tutto il volume:
considerando, ad esempio, la storia della telefonia mobile, essa non può
essere del tutto compresa se non si considerano le storie della telefonia
fissa, della telegrafia senza fili, del computer e della rete internet, della
fotografia e della fonografia intesa come conservazione del suono, e molte
altre storie dei media. Insomma, i mezzi di comunicazione – e a maggior
ragione quelli digitali, in cui i processi di convergenza hanno fatto
collassare diverse caratteristiche che precedentemente erano separate –
non possono essere compresi se studiati singolarmente, mentre le loro
dimensioni economiche, tecniche, socioculturali e addirittura
antropologiche emergono solo guardando alla più vasta ecologia mediale
nella quale sono immersi. È questa una delle maggiori novità di questo
volume: i vari media digitali sono infatti studiati in costante rapporto con
gli altri media passati e presenti e, talvolta, anche con altre tecnologie non
di comunicazione. Di conseguenza, l’idea di contrapporre rigidamente
media vecchi e nuovi e considerare questi ultimi come i migliori, i più
evoluti e «naturalmente vincenti» rischia di non farci comprendere molte
caratteristiche rilevanti della digitalizzazione.
► Rivoluzionismo o immobilismo?
L’approccio storico aiuta anche a sbarazzarsi di una seconda deriva
molto comune e che impedisce di capire cosa realmente sia cambiato nel
corso del tempo con la digitalizzazione: è una deriva duplice che, da un
lato, si manifesta in un approccio rivoluzionario, che insiste nel riconoscere
nei media digitali una continua e radicale rivoluzione, in nome
dell’elevato grado di innovazione tecnologica; dall’altro, si manifesta in
una visione opposta dell’immobilismo, che sconfessa il carattere dirompente
del digitale, interpretandolo come la continua riproposizione di
precedenti e inscalfibili schemi. La prima idea, tipica di letture appiattite
sul presente, sottolinea la perpetua instabilità del digitale e la rivoluzione
permanente cui sottopone i soggetti che utilizzano i mezzi digitali. Il
secondo approccio può essere riassunto dal motto «niente cambia
davvero» («nothing really changes», Cavanagh 2007, p. 6) e, abbracciato
principalmente dagli storici, si propone di sottolineare il fatto che le
continuità sono state più importanti delle rotture anche nel campo dei
media digitali. Queste due forme di determinismo sono entrambe
fuorvianti per studiare i media digitali e la digitalizzazione.
L’approccio rivoluzionario, come già ricordato, deriva dal fatto che i
media digitali siano spesso descritti come differenti da tutte le forme di
comunicazione che li hanno preceduti: infinitamente più veloci,
maneggevoli, evoluti. La digitalizzazione ha assunto fin dal principio un
significato «mitico» di rivoluzione permanente, di cesura netta rispetto a
un passato analogico, di fenomeno paradigmatico in grado di veicolare
una nuova era di prosperità economica, di nuove conoscenze e di
possibilità di accesso (Balbi, in corso di stampa). Questa enfasi sulla
natura rivoluzionaria dei media digitali emerge in svariate occasioni.
Anzitutto, il riferimento alla rivoluzione è molto popolare nel mondo
della ricerca scientifica, come si può constatare dalle decine di libri e di
articoli scientifici che contengono nel titolo rivoluzione digitale o
espressioni simili in varie lingue. Inoltre, tale espressione è stata impiegata
in forma retorica da esponenti politici per giustificare le loro decisioni, da
magnati di imprese private per sostenere i loro prodotti, da esperti e
tecnici per giustificare gli investimenti nel settore digitale. Anche in
conseguenza di queste pressioni economico-politiche verso la
digitalizzazione, specie a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, il
tema della rivoluzione digitale è diventato così un argomento ricorrente e
sempre più presente nel dibattito pubblico.
Non stiamo dicendo che la storia non contempli l’idea del
cambiamento, anche quella di un cambiamento radicale; al contrario, il
cambiamento è forse la «dimensione centrale della storia dei media»
(Poster 2007, p. 46). La storia in effetti è, forse, la disciplina negli studi
sulla comunicazione più adatta ad assumere una prospettiva dinamica, in
cui i media sono visti in costante evoluzione – senza accezioni positive o
negative del termine – in periodi di tempo brevi oppure lunghi (Brügger,
Kolstrup 2002). Di conseguenza, il cambiamento è una dimensione
cruciale della storia dei media e soprattutto della storia dei media digitali
perché aiuta gli studiosi a concepire le tecnologie come oggetti instabili,
di transizione, in parte vecchi e in parte nuovi (Thorburn, Jenkins 2003;
Uricchio 2004; Peters 2009).
Ma di quali cambiamenti e rivoluzioni e di quale instabilità stiamo
parlando? Secondo un’efficace metafora dello storico Fernand Braudel
(1982), il movimento del mare è costituito da profondità abissali quasi
statiche, correnti sottomarine che determinano un moto profondo e
increspature sulla superficie del mare che sono costanti. La ricerca storica,
specie quella introdotta dalla scuola delle Annales, deve prendere in
considerazione tutte e tre queste correnti e privilegiare la lentezza e la
longue durée, dove si realizzano i mutamenti sociali più profondi e
significativi. Anche se la lunga durata dei media digitali potrebbe
sembrare piuttosto breve, questo è un altro dei benefici che la storia può
portare agli studi sui media digitali: far comprendere che il ritmo
frenetico e quotidiano dell’innovazione digitale non corrisponde al ritmo
lento e incerto dell’assorbimento, della metabolizzazione,
dell’addomesticamento socioculturale di quelle stesse tecnologie.
Capire che i media digitali non cambiano gli esseri umani ogni giorno,
ma che la loro rilevanza deve essere compresa in una prospettiva di lungo
termine, non significa volere studiare questi mezzi in maniera statica. Si
tratta di una tendenza opposta, ma ugualmente rischiosa: leggere i media
digitali esattamente come la continuazione di quelli analogici, come se la
digitalizzazione non avesse contribuito a cambiare le società
contemporanee, il modo in cui gli esseri umani comunicano e non sia
nata da inedite istanze sociali. Questo è ciò a cui ci riferiamo quando
parliamo di immobilismo, una forma di determinismo che cela un rischio
cruciale per gli storici dei media: l’anacronismo. Si tratta, in altre parole,
di attribuire ai media digitali caratteristiche che non avrebbero potuto
esistere nel tempo passato: ad esempio, è storicamente errato cercare
progenitori dello smartphone o del personal computer in epoche passate,
semplicemente perché questi mezzi così come noi li conosciamo e usiamo
sono la conseguenza di trasformazioni, abitudini e vincoli sociali e
tecnologici emersi nel dopoguerra. Ciò induce spesso a ricreare
genealogie forzate o a trovare improbabili antenati delle moderne
tecnologie di comunicazione, presi dalla foga di sottolineare che nulla è
davvero cambiato. Da questa prospettiva il telegrafo senza fili avrebbe lo
stesso ruolo del telefono mobile, la macchina da scrivere quello della
tastiera del computer, la rete telefonica quello della rete internet.
Ci sono evidentemente continuità di usi e di pensiero nei tre esempi
citati (ed emergeranno nei Capitoli 2, 3 e 4), ma insistere sull’esistenza di
una rigida genealogia per dimostrare che, in fondo, tutto era già stato
previsto e immaginato è del tutto fuorviante, perché ogni medium può
essere compreso solo calandolo pienamente nel contesto in cui è stato
creato e in cui viene usato quotidianamente. Questo determinismo
influenza invece alcuni storici dei media che cercano di confrontare mezzi
di comunicazione del passato e del presente, rimarcando le somiglianze in
misura maggiore rispetto alle discontinuità. Le realtà politiche,
economiche e culturali in cui sono emersi i media digitali contemporanei
sono diverse da quelle dell’Ottocento o del Novecento e, allo stesso
modo, i media digitali sono diversi da quelli analogici: si pensi al
potenziale di contatto continuo e perpetuo, alla quantità di informazioni
libere e accessibili, alla dimensione individuale dei media digitali, tra le
altre questioni.
Lo scopo di questo libro è dunque anche quello di tenere insieme gli
aspetti di continuità e quelli che coinvolgono il cambiamento, adottando
una prospettiva in cui questi due concetti estremi non siano alternativi e
non si escludano a vicenda. La tensione tra i due ovviamente esiste. Ma la
convinzione che vi sia un passato analogico e un presente (e sempre più
un futuro) digitale è sostituita in questo libro dal riconoscimento
dell’influenza reciproca tra vecchi e nuovi sistemi mediali, fino ad arrivare
alla sostanziale indistinguibilità tra i due: come mostrerà il Capitolo 5, le
infinite possibilità di acquisto fornite da siti come Amazon stimolano le
vendite di libri cartacei, piattaforme come Flickr, Instagram e altre sono
un’opportunità per giocare con il passato analogico della fotografia e la
rinnovata popolarità del vinile indica la resistenza e la reinvenzione di
abitudini di consumo apparentemente antiquate. Il vecchio si rinnova e il
nuovo invecchia rapidamente.
► Errore teleologico
Terza e ultima deriva presente negli studi umanistici e sociali dei media
digitali, che la storia può aiutare a contrastare, è quella che possiamo
definire come l’errore teleologico, ovvero l’idea secondo la quale l’evoluzione
tecnologica segua una traiettoria lineare e progressiva, cosicché il digitale
costituisca un movimento in avanti dirompente, inarrestabile e
incontrovertibile. Come ha sostenuto Bruno Latour (1995), gli storici
della scienza e della tecnologia dovrebbero adottare un approccio
«simmetrico», dedicando la medesima attenzione ai media «vincenti» e a
quelli che invece si sono persi o non si sono integrati nell’uso e
contrastando l’idea secondo cui i processi di innovazione siano lineari. Un
processo storicamente lineare prevede che «il passato [sia] spiegato come
una sorta di preparazione al presente. Il presente è prefigurato nel passato
e ne è il culmine» (Lister et al. 2009, p. 54). Prendiamo, ad esempio, la
narrazione che sostiene come gli smartphone siano il punto finale, o
meglio, il culmine di un processo che è iniziato con la telefonia wireless
di Marconi e, inevitabilmente, in modo lineare e senza problemi, si è
concluso con iPhone. Questo è un approccio teleologico del tutto
fuorviante: non esiste un fine verso cui la storia dei media digitali, così
come qualsiasi altra storia, deve tendere; non esiste un percorso lineare e
incontrastabile che fa giungere ai media che usiamo oggi e che, vale la
pena ricordarlo, forse non useremo domani; ci sono molti snodi in cui
sarebbe potuta andare diversamente. Il fatto che la storia e lo sviluppo di
specifici media «sarebbe potuta andare altrimenti» (Parikka 2019, p. 41) è
uno dei mantra di una disciplina affine alla storia dei media: l’archeologia
dei media. La traiettoria evolutiva dei media avrebbe potuto essere
differente rispetto alle caratteristiche e alle forme con cui li conosciamo
oggi e, per questa ragione, i mezzi di comunicazione vanno studiati anche
nelle forme e nelle idee cristallizzate in uno specifico momento del
passato. Traslata verso gli interessi del nostro libro, questa sensibilità
«archeologica» ci aiuta a comprendere meglio il ruolo di quelle forme
tecnologiche ormai estinte, abbandonate o fallite, ma che tuttavia hanno
incarnato, nel momento della loro iniziale diffusione, particolari visioni
del ruolo del digitale all’interno delle relazioni e nei contesti sociali
(Magaudda, Balbi 2018). E la storia del digitale è piena di soluzioni
sconfitte e scartate, così come lo era anche la storia dei media analogici o
tradizionali. La mortalità dei media digitali è elevata e gli errori di
valutazione da parte dei governi e delle aziende hanno spesso costituito
più la regola che l’eccezione, come nel caso del Digital Audio
Broadcasting per la radio. In altri casi, alcune tecnologie «del futuro» sono
state rapidamente dimenticate o superate come è avvenuto per il CD-
ROM. Altri media digitali nati con uno scopo sono stati successivamente
riadattati a particolari esigenze politiche, economiche o culturali come
risulta evidente nella storia di internet.
Ecco, dunque, l’ultima fondamentale rilevanza di un approccio storico
per capire il processo di digitalizzazione: la storia mette in luce la fragilità,
la reversibilità delle traiettorie dell’innovazione, che ci appare spesso come
una forza lineare e univoca, e fa invece affiorare quelle traiettorie
interrotte che potranno magari riemergere in futuro e che riflettono
comunque idee e pratiche legittime del passato. L’utilità di uno specifico
approccio storico potrebbe in sostanza essere proprio questa: la spinta a
«normalizzare» il nostro rapporto con i media digitali, epurarlo da cliché,
facili entusiasmi e mitologie fallaci, permettendo così di osservarlo in
maniera più disincantata e oggettiva.
2. Il computer
2.1. L’origine di tutti i dispositivi digitali
Il computer può legittimamente essere considerato l’origine di tutti i
dispositivi che hanno affollato, negli ultimi decenni, il mondo della
comunicazione digitale. Soprattutto nella sua incarnazione di personal
computer (PC), diffusosi a partire dagli anni Ottanta e Novanta del
Novecento, il computer è stato il primo strumento digitale a essere
adottato in modo capillare in differenti sfere sociali, a venire usato anche
dalle persone comuni, a essere identificato con l’accesso stesso alla rete
internet.
Oggigiorno la traiettoria sociale dei computer ha oramai raggiunto una
fase di piena maturità. Dopo che, all’inizio degli anni Dieci del Duemila,
i PC (fissi e portatili) hanno raggiunto un picco in termini di vendite su
scala mondiale, la loro diffusione ha iniziato a declinare: i PC venduti nel
mondo sono infatti passati dal record storico di 365 milioni nel 2012 ai
275 milioni nel 2020. Come vedremo, tale ridimensionamento non è
certo il risultato di una perdita di importanza dei computer nella società,
ma semmai, all’opposto, la conseguenza della moltiplicazione di differenti
tipologie di dispositivi digitali, maggiormente incentrati sul paradigma
della mobilità, come i tablet e soprattutto gli smartphone, le cui vendite
tra il 2012 e il 2020 sono quasi raddoppiate, passando da 680 milioni a 1,3
miliardi di unità. Insomma, negli anni Dieci del Duemila per un verso i
computer nella loro forma assunta intorno alla fine degli anni Settanta del
Novecento (unità separate, dotate di schermo e tastiera e collegabili a
varie periferiche, da usare tendenzialmente seduti a una scrivania) hanno
smesso di essere i principali strumenti digitali in circolazione, mentre per
un altro verso si è assistito alla diffusione di una miriade di differenti
dispositivi (dagli smartphone agli smartwatch, dagli elettrodomestici
intelligenti alle console per giocare). Come vedremo, dunque, per
descrivere l’attuale periodo di vita sociale del computer abbiamo scelto la
definizione di computer onnipresenti, ovvero una fase storica in cui siamo
circondati dai computer, dalle forme, funzioni e caratteristiche differenti,
ma comunque accomunati, tra le altre cose, dal condividere una
medesima storia ed evoluzione.
Infatti, sebbene oggigiorno viviamo in un ambiente mediale sempre più
caratterizzato dalla presenza di numerosi dispositivi mobili e individuali,
la storia che inizia con i primi calcolatori e arriva a oggi è in grado di
aiutarci a comprendere in che modo i dispositivi digitali si sono fatti
lentamente strada nel contesto sociale. Si tratta di una storia nel corso
della quale possiamo riconoscere un costante cambiamento – a volte
anche abbastanza radicale – degli ambiti sociali in cui i computer sono
stati utilizzati, del profilo sociale dei loro utenti di riferimento, delle
attività in cui essi hanno rivestito un particolare ruolo, nonché dei
significati culturali che a essi sono stati associati.
Il passato dei computer s’intreccia indissolubilmente con la storia stessa
della diffusione dell’informatica, di internet e della società digitale.
Possiamo allora schematizzare l’evoluzione sociotecnica del computer in
quattro differenti fasi che si sono succedute e che possiamo identificare in
base ad alcune tendenze dominanti assunte dai computer nel contesto
sociale.
La prima fase è quella dei calcolatori meccanici, una sorta di «preistoria» del
computer, che abbraccia un periodo lungo diversi millenni, durante i
quali le necessità di calcolare e automatizzare alcuni processi e attività
della vita quotidiana hanno lentamente preso forma, dietro varie spinte
sociali, culturali ed economiche. La seconda fase della storia del computer
riguarda invece la nascita dei primi computer digitali veri e propri, in un
periodo compreso tra gli anni Quaranta e gli anni Settanta del
Novecento, caratterizzato dall’affermazione dei grandi computer prima
per finalità militari e poi per le applicazioni scientifiche e in ambito
professionale; è in questo contesto che, peraltro, vede la luce il progetto
ARPANET e si iniziano a mettere le basi di internet (cfr. Capitolo 3). La
terza fase, che prende avvio a metà degli anni Settanta, è quella del personal
computer di massa, in cui il computer smette di essere unicamente uno
strumento lavorativo, usato prevalentemente all’interno di grandi
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Het voormalig Casteel of Slot.
»Dat alhier een kasteel of slot geweest is,” schrijft de heer Van Kinschot op
bladz. 24, »getuigen vele schrijvers, en is ook zeker, doch de tijd,
w a n n e e r en d o o r wien het gebouwd werd, wordt nergens gevonden.”
Ook wij nemen zulks aan, doch brengen met dit bedoelde kasteel niet in
verband, gelijk voornoemde schrijver, de regelen van den vaderlandschen
historicus Matthijs van der Houven die gewaagt, »dat in ’t kasteleinschap
van Oudewater op den IJssel het oude kasteel plag te liggen, doch, dat het
in zijn tijd niet meer in128 wezen was.”129 Deze regelen toch hebben
betrekking op het kasteel te Vliet in Roozendaal bij Oudewater dat op den
IJssel ligt, en waarvan de ruïne nog bestaat.130
Wij begrijpen te minder, hoe van Kinschot deze regelen van Van der
Houven op het Slot van Oudewater kon toepassen, daar hij reeds op de
volgende bladzijde (25) weder omtrent hare ligging—en nu teregt—schrijft:
Dit Slot heeft eertyds gestaan aan de Noort-Oostzyde van de Stad, by en
omtrent dezelfde plaats, alwaar nu de Linschoter-Poort is gelegen. De
Regeering verzogt zyne Keyzerlyke Majesteit, als Graaf van Holland, in het
jaar 1533, om dit Slot tot eene Poort te maaken, het geen zy verwierven,
onder deze verbintenisse, van dat zy ten allen tyden op de eerste aanmaning
van zyn Keyzerlyke Majesteit of zyne nakomelingen Graaven van Holland,
die Poort van Linschoten op haare kosten weder tot een Slot herstellen
zoude, waarvan de verbindenis Luidt, als volgt:
»Wy Burgemeesteren, Schepenen, ende Raiden der Steede van Oudewater,
doen te weeten, ende bekennen mits deezen onsen Brieve, Dat Alsoe die
Keys: Majt
. belieft heeft tot onsen ernstigen vervolghe ende Sollicitacie te
accordeeren. Dat die Poorte van Linschoten, in voir tyden gemaict tot een
Stercte of Slot, weder toegemaect sal worden tot een Poirte van de voirsz:
Steede, gelyk die in voertyden plach te syne, mits dat wy ’t selve
becostighen souden, ende aan syn Majt
. reserveerende ’t Logys van dezelve
Poorte voir syne officier off andertsins, ende mits oick, dat syne Majt
. die
voirsz: Poirte weder sal mogen maken tot een stercte als ’t zyne Majt
. of
zyne nakomelingen Graaven van Hollandt believen sall, ende van als: geve
onse behoirlicke brieven, wy dancken zyne Majt
. van desen voirsz:
Consente ende Gracie, hebben nair voorgaande Communicatie gehouden
mitten Rycdom ende Vroetschap derzelver Steede, beloeft hebben ende
beloeven mits deesen, dat wy der voirsz: Poirte sullen doen repareeren ende
maken mit dueren, valle bruggen, ameyden ende anders ter ordonnantie van
mynen Heere, Heeren Anthonis van Lalaing, Grave van Hoochstraaten heer
van Montigm: en Stadthouder Gnrael: der voirsz. Landen van Hollandt of
zyne E: Gecommitteerde als van nooden weesen sal ome: daar duer vuyt en:
in der voirsz: Stede te ryden en passeeren: behouden den Keys: majt
. ’t
Logys van den voirsz, Poirte tot zyne Majt
. beliefte, ende diezelve Poirte
zyn, Keys: Majt
. of Nakomelingen te laten volgen, ome: dair van een
Stercte weder gemaict te werden als wy dair toe van syne Majt
. of syne
Erffgenaamen wegen vermaant sullen worden, sonder daar tegens te doen in
eenigerleie manieren.
»Des ’t oerconden, hebben Wij Burgemeesteren, scepenen en Raeden der
Voersz. steede, onser steede zegel hier aangehangen den achtsten dach van
April in ’t jaer ons Heeren duijsend vijf honderd drie en dertich na scrijven
der kerk van Utrecht ende ons voorsz. steede, ende stonde onder geteekend
R. X. Speijert.”
Men zou wanen, dat het vermaken van het kasteel tot poort, ingevolge deze
verbindtenis, spoedig zal hebben plaats gehad, wij kunnen dit echter m e t
z e k e r h e i d tegen schrijven. Immers ziet men dit ten duidelijkste, in de
resolutien van den magistraat en »uit zekere oude lijst van gedane
bekendmakingen, ter secretare van Oudewater berustende,”131 waaruit
blijkt, dat de Baljuw den 14 April des jaars 1585, eerst heeft doen bekend
maken, d a t h i j d e s a n d e r e n d a e g s t e n t h i e n u u r e n
v o o r d e m i d d a g w i l d e b e s t e d e n h e t a f b r e k e n v a n ’ t
k a s t e e l b i j d e L i n s c h o t e r p o o r t b i j p e r s e e l e n ,
b a e c k e n o m d e d e r d e n s t e e n o f t e a n d e r s i n t s , a l l e s
a c h t e r v o l g e n d e d e C o n d i t i e n e n Vo o r w a e r d e n , d i e
m e n a l s d a n o p l e e s e n s o u d e , met bijvoeging, d a t
d e n g e n e n , d i e i n e e n i g w e r k g a d i n g h a d , t e n
v o o r s z . t i j d e k o o m e n s o u d e b i j d e L i n s c h o t e r p o o r t
e n d e b e d i n g e n g o e d l o o n .
Alzoo eerst 52 jaren na de meergemelde verbindtenis werd dit kasteel
geamoveerd132.
Zooals reeds werd beschreven, ontbreken zoowel de naam van den stichter
als de tijdsaanduiding van de stichting van dit kasteel; een geloofwaardig
persoon verzekerde ons echter, dat hij ergens had aangetroffen, dat er in
zeer oude tijden alhier woonachtig geweest waren de vrijheeren van
Oudewater dat nu zoo zijnde, zou er ten minste over den naam des stichters
eenig meerder licht verspreid worden. Hoe het echter zij, ten jare 1527
vinden wij vermeld133 dat kastelein van Oudewater was Jonkheer Jan van
Vliet, schildknape die als »Castelein van het sloth van Oudewater
aangesteld werd den 3 November 1519 by Kaerle, by der Gratiën Godts
koninck van Castilien van Leons etc. volgens Commissie geregistreerd, en
te vinden, in ’ t b l a a u w e r u i g e r e g i s t e r 134 fol. 34 en in 1555
wordt als zoodanig gewag gemaakt, van Jonkheer Pieter van Cats,
maarschalk van Montfoort. Aangezien nu beiden tevens bailluwen etc. van
Oudewater waren, en beiden in hetzelve zijn woonachtig geweest135 zoo
komt het ons voor, dat het geslacht der vrijheeren van Oudewater
uitgestorven zijnde, later het slot van Oudewater tot woning zal
aangewezen zijn, voor de Baljuwen van Oudewater die toen tevens
aangesteld werden als Castelein.136
Later toen ook de Linschoter poort in 1857 werd verbroken, die zooals wij
weten van slot tot poort werd gemaakt, ja toen viel het ook aan de zigtbaar
geworden zware muren en de groote roode steenen, waarvan die waren
opgetrokken, gemakkelijk te bepalen, dat de sloopers daar te doen hadden,
met muren van het oude slot of kasteel!
Het voormalig Arsenaal te Oudewater.
Het gast- en proveniershuis beschrijvende, zagen wij dat dit gebouw door
de Gecommitteerde Raden van Holland en West-Vriesland aangekocht
zijnde, omstreeks 1780 verbroken en in 1786 aangelegd werd, tot een
Artillerie plein waarop een zeer schoon Arsenaal of bergplaats voor
ammunitie in hetzelfde jaar 1786 getimmerd is. Niet langer dan 28 jaren
heeft dit Arsenaal in aanzijn mogen wezen, daar het ten jare 1814 verbroken
werd en men het terrein Anno 1817 tot plantage heeft aangelegd. In 1822
dit plein aan de stad gekomen zijnde, heeft men dezen grond in 1856 in
erfpacht gegeven, waarna later spoedig, daarop een aantal huizen voor min
gegoeden gebouwd zijn.
’s Lands voormalig Magazijn van Oorlog.
Dit fraai gebouw, stond eertijds aan de zuidzijde van de stad, in de straat
genaamd het klooster bij het weeshuis. Het had eene lengte van 138 bij een
breedte van 22 voeten137.
Wanneer hetzelve gebouwd werd, kunnen wij niet met zekerheid bepalen.
Omtrent zijne slooping echter verkeeren wij niet in het onzekere, deze had
in 1820 plaats.
Het voormalig Kruidhuis.
De kruidtoren was gelegen, in een »halve maan” der vestingwerken in het
noordwestelijk gedeelte der stad. De heer Van Kinschot schrijft in 1746,
»dat het binnen weinige jaren gebouwd is.”
De amovering van het kruidhuis geschiedde ten jare 1820, als wanneer het
even als het magazijn van oorlog, door de administratie van ’s lands
domeinen werd verkocht.
De Barak of Caserne.
De Caserne, gelegen aan de westzijde van den IJssel was 168 voeten lang
en 30 voeten breed, terwijl dezelve in 24 vertrekken verdeeld was. Zij werd
voor stads rekening gebouwd, en bij aanbesteding aangenomen voor eene
som van ƒ 14,200; deze gelden zijn voor het grootste gedeelte, door de
burgerij vrijwillig, tegen eene interest van 4% gefourneerd.
De eerste steenen aan dit gebouw werden gelegd, op den 29 Mei 1798 door
A. M. Montijn, Jan de Keiser Jz. en W. Putman, zoo als op een steen in den
voorgevel aangebragt, te zien is.
Sedert het jaar 1811 wordt dit gebouw, door particulieren bewoond, terwijl
het in 1856 in het openbaar werd verkocht, en het gebouw dus nu eigendom
van particulieren geworden is.
De schuttersdoele.
Reeds in het jaar 1501 vinden wij gewag gemaakt van het volgende octrooi
voor de »voetbooghschutters van St. Joris Gilde” te Oudewater. Uit dit
octrooi bekomen wij echter de verzekering, dat zij reeds lang vóór genoemd
jaar zich te dezer plaatse bevonden en hun aantal op het genoemde tijdstip
niet minder dan 80 tot 90 bedroeg. Wij laten dit octrooi nu volgen:
Philips, by der Gracie Goids, Eertshertoge van Oistenryck &c. onsen lieven en
getrouwen Raedt ende Tresor. Gnerl: van allen onsen Domeynen ende Finan:
Jeronimus Lauwerin; Saluyt ende Dilectie. Wy hebben ontfaan die oidmoedige
Supplicae. van onsen welgheminden die Burchers der stede van Oudewater over
ende in den naame van de Handboech-Schutters van den Ghilde van St. Joris der
voirsz: Stede, inhoudende, hoe deselve gelegen is op tie Frontiren van onsen
Lande van Holld. strekkende aan den Gestichte van Utrecht ende Lande van
Gelre, dewelke na den overlyden van wylen onsen lieven Heer ende Grootevader
Hertoge Karel van Bourgn. Zaliger gedagten, veel groote sware lasten en costen
gehad ende geleeden hebben van diverse Oirloogen, niet alleen van den Oorloge
van Utrecht, maar alle andre die geweest zyn in onse voirsz. Lande ende
Graaflicheyt van Holland als oick in de voirsz. Lande van Gelre, Ende hebben de
voirsz: Suppliante tot seekerheyd van der voirsz: Stede van Oudewater opgesteld
’t voirsz. Ghilde van St. Joris van den Voetboech Schutters, tot in den getale van
tagtigh of tnegentigh persoenen, om welke ghilde ende gezelschap ’t onderhouden
by Hertoge Philips ende andre onse Voorvaderen, die voorsz. Supplianten
verleend ende gegeven hebben geweest Vyff ende Twintig Cliuts ’t s’Jaars tot
XXX Gron. ’t stuk, dewelke sy den voirsz. Supplianten beweesen hebben gehad
te ontfaan by handen van den Rentmeester ’t s’Lands van Woerden, ende hebben
’t selve alsoe gebruyckt tot in den Jaar toe van LXXVIIJ. Dat die geroyeerd zyn
geweest by gebrek van nyeuwe brieven van gfirmatien van wylen onse lieve
Vrouwe ende Moeder die Eertshertoginne Saliger gedagten. Ende in den Jaar van
LXXXVIJ. soe zyn die voirsz. XXV. Cliuts s’Jaars den voirn. Schutters
weederome beweesen geweest op den Rentmeester van den Beede in Holland, als
doe wesen uyt kragte van nyeuwe brieven van Confirmacien van mynen
Genadigen Heer ende Vader myn Heer den Coninck, sedert welk tyt tot in den
Jaar toe van XCIIJ. de voirsz. Schutters niet meer betaald en syn geweest, mits
datter gheen Beede in Holland ende Vriesland daar en binnen loop gehad en heeft,
ende hoewel dat seedert den voirsz. Jaar XCIIJ. diversche Beeden in Hollandt
loop gehad hebben ende nog doen, nochtans en hebben die voirn. Schutteren van
den voirsz: XXV. schilden binnen derselver tyd niet ontfaan, overmits dat sy van
huer voirsz. ghifte tot nu toe gheen gfirmacie verkreegen en hebben. Twelke hem
compt ende keert, tot grooten hinder schade en achterdeele, ende meer sal er
werde hen by ons hier op niet voirsien van onse gracie ende behoorlick provisie
alsoo zy seggen, Ons zeer oidmoedelick daar ome biddende, SOE IS ’T dat wy
die saken voirsz. overgemerct, ende daar op gehad ’t advys, eerst van onsen lieven
ende getruwen, die Luyden van onse Reekn. in den Hage, ende daer na van u, wy
hebben den voirn. Schutters van St. Joris Gilde, in onze voirsz. Stede van
Oudewater, genegen wesende ter Beede ende begeerte van de voorn. Supplianten,
ende ten eynde dat sy te bat gehert mogen syn te verstaan tot bewaaringe ende
seekerheyt van de selver onser Stede van Oudewater daer veel belancx in leyd die
Brieven van Gifte ende Octroye van de voirsz. vyff ende Twintich Scilden
’tsjaars, henl. gegonnen ende verleend by onsen voirsz. Voirders als voirsz. is,
geconfirmeerd, gevesticht ende belieft, ende vuyt onsen rechten wetentheyt ende
zonderlinge gracie, confirmeeren, vestigen ende believen, mits desen onzen
Brieve, Ende op dat s’noot sy, hebben hen die selve XXV. scilden ’s jaars van
nieuws gegonnen ende verleend, gonnen en verleenen mits deesen onsen voirsz.
Brieve, om die van nu voortaan Jaarlicx te hebben, ontfangen ende gebruyken van
de Penn. comende van onsen Beden die in onsen voirsz. Landen van Holland en
Vriesland loop hebben sullen, ende by handen van onsen Rentmeester van
denselven Beden in den quartier van Noort-Holland jeegenswoerdich ende
toecomende soe lange als ’t ons gelieven sal, ontbieden u daar ome ende beveelen
dat by u doende die voirsz. Schutters gebruyken van onse voirsz. Gracie,
Confirmacie ende nieuwe Ghifte, ghy hen doet van nu voortaan Jaerlicx uytryken
ende betalen of ’t huren sekeren Bode voor hen de voirsz. XXV. scilden ’s jaars by
handen van onsen Rentmeester van Holland in ’t Quartier van Noortholland
voirsz. jegenswoerdich ende toecomende, ende van de Penningen van synen
ontfange comende van onser Beede aldaar, soo lange als ’t ons gelieven sal, als
voirsz. is. Denwelken onzen Rentmeester jegewoerdich ende toecomende wy
selve beveelen mits deesen dat alsoe te doene, ende mits overbreyngende desen
onsen jegenwoerdigen Brieff Vidimus ofte Copye Auctentyk van dien, mitsgaders
van de andere Brieven van Ghiften ende Confirmatien boven geroerd, voor een
ende d’eerste ryse en soe menich werff als ’t van nooden weesen sal, deuchdelick
genieten van de voirn. Schutters van de voirsz. XXV. scilden ’tsjaars, alleenlick
wy willen dat al ’t geene des hen daar aff gegeeven ende betaald sal worden
geleeden ende gepasseerd zy in ’t uytgeven der Reekeningen van onsen voirsz.
Rentmeester van onsen Beden van Holland in den Quartier van Noortholland
voirsz. jeegenwoordich ende toekomende, die ’t betaald sal hebben, by den voirsz.
Luyden van onsen Rekeningen in den Hage, denwelken wy oock bevelen by
desen, dat alsoe te doene, sonder eenighe zwaricheid ofte wederseggen ter
contrarien, want ons alsoe geliefd, niet jegenstaande eenige Ordonnantien,
Restrinctien, geboden oft verboden ter contrarien, Gegeeven in onser Steede van
Brugge, den lesten dach van April in ’t Jaar ons Heeren Duysent vyff honderd
ende een, Aldus geteykend by mynen Heer den Eertshertoge Jeronimus Lauwerin
Tresorier Generaal van de Finan: ende andre jegenwoerdich, Hanneton. Ende op
ten rugge van deesen Brieve staat gescreven dat hier naar volcht. De Tresorier
Generaal van de Domeynen ende Finantien myns Genaden Heer des Eertshertoge
van Oistenryck, Hertoge van Bourgondien, Jeronimus Lauwerin consenteerd alsoe
verre als in hem is dat ’t inhouden in ’t Witte van desen jegewoordigen volcomen
zy naar zyne vorme ende inhouden, alsoe ende by der manieren dat deselve myne
Geduchtegen Heer wil ende beveeld gedaan ’t fyne by deselve, Geschreven onder
’t handteyken van den voirsz. Tresorier General den tweesten dach van Meye in ’t
Jaar Duysent Vyff Honderd ende Een.
Aldus geteykent,
L A U W E R I N .
Vervolgens berust er op het gemeente archief een ordonnantie voor de
schutters van den »edelen Cruysboog” dd. 26 Augustus 1597, die wij echter
om hare uitgebreidheid niet mogen overnemen. Voorts wordt nog in
verscheiden keuren van deze schutters gewag gemaakt.
Op het stadhuis wordt nog een fraaije vlinder bewaard, die men denkt, als
insigne van de voetboogschutters van St. Joris Gilde gebruikt te zijn.
Omtrent de schuttersdoelen vinden wij vermeld138 in 1746.
»De Doele staande in de Kapelstraat is een oud gebouw, ’t geen groote
ruimte heeft en zeer bekwaam ter Herberging van reizende en andere lieden.
Zij komt de schutterij, die nu in twee quartieren en vaandels verdeeld is, in
eigendom toe, die ook aldaar hare vergadering houdt.”
In den voorgevel van dit gebouw, die in Anno 1787 zeer verfraaid werd, ziet
men den ridder St. Joris den draak bestrijdende in steen uitgehouwen.
Na de vernietiging der stedelijke schutterij, is de Doele ter voldoening van
der stad’s pretentien in 1798 aan de gemeente gekomen en als eigendom
getransporteerd.—De stad heeft dezelve in 1799 voor de som van ƒ 3300
aan een ingezetene dezer plaats verkocht.
De naam van het Logement de St. Jorisdoele, herinnert in onze dagen nog
aan de oude schutters van Oudewater.
En hiermede is ook de reeks gebouwen ten einde, die hun ontstaan
verschuldigd waren uit een beginsel van verdediging, bij eene mogelijke
belegering der plaats. Toen echter Oudewater uit de rei der vestingen
verdween, zijn de meeste dezer gebouwen natuurlijk van onnut geworden,
en wij zagen dan ook de vernietiging van bijna allen. Nu resten ons nog
eenige gebouwen te beschrijven, die wij noch onder de kerken, noch onder
de geestelijke of liefdadige gestichten, noch onder de gebouwen ter
verdediging van stad en land konden rangschikken, en toch tot de
monumenten der stad behoorden of nog behooren.
Wij beginnen met
de voormalige latijnsche school.
Nog tot in het laatst der 17 eeuw139 mogt Oudewater zich beroemen,
binnen zijne muren eene Latijnsche school te hebben, hetgeen voor een
plaatsje als dit, zeer pleiten kon voor de welgesteldheid der ingezetenen.—
Aangezien deze laatsten echter van tijd tot tijd verminderden, en men
dientengevolge geen genoegzaam getal leerlingen op dezelve aanbragt,
moest dezelve noodwendig vervallen.—Volgens resolutie der staten van
Holland dd. 25 Februarij Ao
. 1600, bekwam Oudewater het regt, op zijne
beurt eene »beurssaal” te zenden in het Theologisch Collegie van Holland
binnen de stad Leiden. Deze beurten moesten echter verwisseld worden
tusschen deze plaats in het naburige Woerden zoodat ten allen tijde een
dezer twee steden een student in voornoemd collegie had, achtervolgens
besluit van hunne Ed. Groot. Mog. in derzelver hooge vergadering
genomen, waar omtrent wij verwijzen, naar de resolutien van Holland dd.
25 Junij 1666.
Deze resolutien en dit regt, werden echter ten jare 1797 vervallen verklaard
en de herinnering, dat Oudewater eertijds een Latijnsche school bezat, bleef
alleen in de geschiedrollen bestaan!
Lombarden.
Reeds in het jaar 1319, drie weken na St. Maarten in den Winter, vindt men
gewag gemaakt, dat het Lombardhuis te Oudewater ter bewoning gegeven
werd aan Vranke Oudekijns, tot ’s Graven wederopzeggens toe. Kort daarop
moeten echter de Lombaarden uit Oudewater getogen zijn,140 daar men
vermeld vindt, dat in het jaar 1323. Dirk Batenburg verleid werd met het
Lombaarthuis te Oudewater, mits het zelve weder opgevende by de
terugkomste van de Lombaarden, &c:
Ziet hier de inhoud van het bedoelde stuk.141
Wi Willaem Graue &c: maken cont allen luden, dat wy Dirc Batenburg van
Oudewater gegeven hebben onse huys, dat ons ane gecomen es van de Lombaerts
binnen onse Poirte van Oudewater in rechten liene van ons te houden in der
maniere, wair dat saeke dat die Lombairts weder quamen ende wise in dat huys
voirsz. weder setten mitter woone, soo souden wi Dirc voirsz. sinen cost en sinen
scade, dien hi aen den huse gedaen hadde, gelden, ende dair meede waer die
manscap quite. In oirconde &c: Gegeven tote Scoenhove op Sinte Martynsdach in
de Somer in ’t jaar ons Heeren MCCC drie en twintich.
Daarna werd ten zelfde jare het volgende bevel aan den Magistraat
gegeven, om de nagenoemde Lombaarden in deze Stad te ontvangen en
Burger-regt te laten genieten.
Wi Willaem Gratie &c: onsen lieven en getrouwen Schout, Schepenen, ende Raed
van onser Poirte van Oudewater, saluyt ende onse goede jongste; Wi doen u te
weten, dat wi in onse beschermte en geleyde genomen hebben, en nemen dese
Lombairden, die hier na geschreven staan, dat es te wetene, Dammaes en Philips
Asinier, broeders, en de Hore Maysinden om te wonene en te blivene in onser
Poirte van Oudewater van onser Vrouwe dage in den Mairte die naestcomet,
twaalf jaer daer na volgende, ende sullen coipmanscip driven ande hoir oirbair
doen mit haren gelde, geliken onse andere Lombarden die wonen ende bliven in
onse goede Poirten van Hollant; En ombieden ju naerenstelicken, dat ghi se
ontfaet over uwe Poerters ende hem helpet, vordert en starket in alle hore rechten,
gelike juwe Poerters die jairscarende durende voirsz. ende des en laet niet.
Gegeven in die Hage op den Jairsdach in ’t Jaer ons Heeren M. CCC. en drie en
twintich.
In het jaar 1595 werd van wege de regering van Oudewater aan Jaques de
Causa Michielsz., een piemontees, octrooi verleend tot het houden van de
»tafel van leeninge” binnen Oudewater. Aan ieder die omtrent de
aanstelling van zoodanigen tafelhouder, de voorwaarden waarop de
verpanding en bij niet lossing, den verkoop der panden plaats greep, iets
meer weten wil, verwijzen wij naar de beschrijving van Oudewater door G.
R. van Kinschot bladz. 439–450.
Nog omstreeks de helft der voorgaande eeuw, vindt men vermeld, dat de
Bank van leening, met het daarbij van ouds behoorende woonhuis, onder de
accijnsen der stad, voor zekere jaren verpacht werd.
Uit een en ander zien wij, dat Oudewater nevens alle andere steden in
Holland en West Vriesland geprivilegieerd was, zoodanige bank te mogen
hebben en verpachten, met uitsluiting van alle andere plaatsen in het platte
land142 zijnde zelfs ingevolge deze volmagt, de steden niet gehouden,
eenige tafelen toe te laten, al hadden zij ook eertijds octrooijen daarvoor
verkregen143. Volgens resolutie der staten van Holland 3–12 Maart 1594
mogt door den Lombardhouder van de zes gulden, een halve stuiver in de
week geheven worden.
Het laatste Lombardhuis te Oudewater bevond zich op de Donkere Gaard
en is tegenwoordig bekend onder nummer 491. Sedert een groot aantal
jaren, werd dit huis verkocht, en wordt het door particulieren bewoond.
Alleen het stadswapen met het bijschrift:
SAUVE GARDE Ao. 1756
doen den opmerkzamen voorbijganger alligt vermoeden, dat hij zich bij het
oude Lombardhuis bevindt. Tegenwoordig bestaat er te Oudewater slechts
een hulp Lombard en wel onder opzigt en contrôle van den Lombard uit het
naburig Woerden.
De Waag, ook gezegd de Heksenwaag.
Dit stadsgebouw, bevindt zich aan de markt, op den hoek der Gasthuissteeg,
en werd waarschijnlijk in het jaar 1595 gebouwd, aangezien dit jaartal in
den voorgevel van dit gebouw wordt aangetroffen.—Reeds lang vóór
genoemd jaar, bezat Oudewater echter reeds eene Waag, immers reeds ten
jare 1547, werd door Zijne Keizerlijke Majesteit een bevel uitgevaardigd,
waarbij hij gelastte, dat het gewigt der stad Gouda in de Waag der stad
Oudewater overgebragt zoude worden, en tegen het gewigt uit
laatstgenoemde plaats in gelijke stukken, ten overstaan van zijn
gecommitteerden gewogen zoude worden.
Wij laten den inhoud van dat stuk hier volgen:
»Op Huyden den anderen dach Marcy Ao
. XVc
, XLVII. Stilo Trajectense
zoe zyn Adriaen Louwerisz., Jacob Gerytsz. Moen, Burgemeysters en
Schepenen desz. stede van Oudewater alsook Frederick Jansz. Muntere en
Jan Jansz. en Pieter Speyert, Secretaris derselver stede, geweest in de
voorsz. stede Waech, ende aldaar gewoogen der stede Wicht van der Goude
gebrocht by Dirck Cornz., Tollenaar ende Rentmr
derzelver stede, van
wegen der K. Majt
tegens de wicht derzelver stede van Oudewater in
gelijke stucken, ende is bevonden mitten zelfe te accorderen. Geschiet op
ten dach, jaer en de maent als boven, (o n d e r s t o n d ): geëxtraheert uit
het voorsz. stedeboeck en accordeert daer naede by my onderteykent.
P. Speyert.”144
Zooals iedere andere Waag, werd dezelve gebouwd, tot het wegen van
verschillende koopmanschappen, en wel voornamelijk h i e r , voor, kaas,
hennip en verschillende soorten van touw, allen producten en waren,
waarvan in en om Oudewater veel in den handel wordt omgezet.
Doch, uitgenomen deze artikelen, werd er eertijds nog een artikel
opgewogen, waardoor deze Waag zich bij alle andere Wagen
onderscheidde, een artikel, dat haar een ongekenden naam in de
geschiedrollen bezorgde, en de Waag deed worden »een weldaad voor het
menschdom.” Aldus toch, wordt onze Waag genoemd, in de »Almanach tot
Nut van ’t Algemeen,” jaargang 1792, bladz. 95. Het artikel, dat wij
bedoelen, waren…. m e n s c h e n , die van tooverij beschuldigd waren, en
heksen genoemd werden.
Wij willen de aanleiding tot het wegen van deze menschen, een weinig
breeder uiteenzetten en moeten daarvoor in dit hoofdstuk de
onderafdeeling:
BIJGELOOF VOORHEEN EN LATER
daartusschen lasschen.
Het is slecht, of eigenlijk in het geheel niet te bepalen, wàt b i j g e l o o f is,
indien wij de tegenstelling niet vermelden van g e l o o f en o n g e l o o f .
Het g e l o o f zelve wordt nog in veel soorten verdeeld.
Immers in het d a g e l i j k s c h l e v e n , verwart men g e l o o v e n
meestentijds met m e e n e n , met iets v o o r w a a r h o u d e n , waarvoor
men geene gronden kan bijbrengen.
In het s t o f f e l i j k e , gelooft men, wat men met de zintuigen bemerkt,
wanneer geen zinbedrog ons misleidt, en
In het g e e s t e l i j k e eindelijk, is het aan iedere gezindte bekend, wat
door geloof verstaan wordt.—Bij de Christenen behoort dit g e l o o f , dit
aannemen van iets, wat men n i e t ziet, tot hunne Godsdienst, en wel in die
mate, dat hunne G o d s d i e n s t veelal hun g e l o o f genoemd wordt.
Het o n g e l o o f staat natuurlijk tegenover g e l o o f ; zoowel in het
g e e s t e l i j k e als in het s t o f f e l i j k e nu, heerscht ongeloof.—Zoo is b.
v. in het stoffelijke, hij ongeloovig, wanneer hij niet aanneemt, d a t het zoo
is, en het toch wezenlijk bestaat, zonder het met zijne zintuigen te hebben
bemerkt.
B i j g e l o o f is het geloovig, het met volle overtuiging aannemen van
hetgeen wezenlijk n i e t is. Bijgeloof is meestal eene nog sterkere
overtuiging, dan een waar geloof, doch het is en blijft altijd een
w a n g e l o o f , een o n j u i s t g e l o o f , een geloof, waarbij de mensch
zich zelven bedriegt145.—Wij zullen wel niet behoeven aan te toonen, dat
men ook hier weder in het stoffelijke en in het onstoffelijke bijgeloovige
kan zijn.
Het voornaamste bijgeloof van lateren en zelfs nog van onzen tijd, is een
overblijfsel, van de mythologie onzer voorvaderen, waarover hiervoren
breedvoerig geschreven is.
Toen wij de aandacht onzer lezers op de mythologische daadzaken in het
heidendom bepaalden, maakten wij bijna ook op iedere bladzijde, de
schaduw daarvan nog in onze dagen aanwezig, bekend.
Eigenlijk gezegd, was de mythologie onzer vaderen voor hen nog geen
bijgeloof, het was eene natuurleer, een wangeloof—doch het voortbestaan
in het Christendom van de onwaarheden, die hunne mythologie bevattede,
dàt werd voor den C h r i s t e n natuurlijk bijgeloof.
Teregt vinden wij dan ook vermeld146. Onze voorouders hadden, als alle
volkeren van den Indisch-Germaanschen stam, een duister Godsdienstig
geloof aan een goed en een kwaad beginsel; doch, gelijk het in de kindsheid
der barbaarsche volken gaat, waar het geloof aan een eenig God is
verduisterd, stelde men zich die beginselen voor als krachten, als
persoonlijke krachten, als krachten van bovennatuurlijke wezens, waarvoor
de zwakke mensch moest bukken.—In hunne sagen werd gesproken, van de
helden, van het voorgeslacht; en de verbeelding verhief die voorouders tot
goden.—Hetgeen men waarnam en niet kon verklaren, werd aan de werking
dezer Azen toegeschreven.—Bij iedere aanraking, van den eenen volksstam
met den anderen, vermeerderde allengskens het bijgeloof; maar toch te
midden van dat bijgeloof, bleef er nog eenig geloof over, aan e e n
magtigsten God. Wij hebben u dien God reeds als Wodan doen kennen, en
Wodan was het, die in het laatst der dagen, alle goden aan zich zou
onderwerpen. De goden der wereld, en de aardgeesten voerden wel strijd,
tegen den God des hemels, eindelijk zouden zij echter toch het onderspit
moeten delven.
In één woord, alles hetgeen door de menschen gedaan en verkregen werd,
werd door het volksgeloof aan de inwerking der Goden, toegeschreven.
Toen het heidendom voor het Christendom moest wijken, bleven echter de
toovenaars en heksen bestaan. Toovenaars waren de menschen, die met de
booze geesten of goden in verbinding stonden en die als overblijfselen van
de heidensche priesters konden worden beschouwd, terwijl de heksen, die
vrouwen waren, doen denken aan de wigchelaarsters in de mythologie.
Deze heksen nu hadden het vermogen, de menschen op velerlei manieren te
kwellen en nadeel toe te brengen, geen wonder dus, dat de jonge
Christenen, door oppervlakkigen Godsdienstijver gedreven, met groote
woede en toorn, somtijds tegen die gewaande toovenaars en heksen vervuld
werden, wanneer er aardsche rampen voorvielen, die zij aan de toovenaars
en heksen, en hunne verbinding met de booze geesten toeschreven.
Toen de Noord-Duitschers en Denen pas tot het Christendom bekeerd
waren, hadden booze wraakoefeningen tegen zoogenaamde heksen
meermalen plaats, weshalve paus Gregorius VII (die regeerde van Ao
.
1073–1085) zeer ernstig aan zijne geestelijken in Denemarken schreef, dat
zij dat volksbijgeloof toch zouden tegenwerken, enz.
In de middeneeuwen, nam zelfs het geloof aan hekserij ontzaggelijk toe, en
geen wonder! de steeds toenemende beschaving en de meer en meer
aangroeijende ondereenmenging van verschillende volken bragt te weeg,
dat er onderscheidene kunsten en uitvindingen werden ontdekt; de drukpers
nu was er nog niet, om de volken het geheim dier uitvindingen kenbaar te
maken, en wat het volk niet begreep, was een wonder of tooverij en de
uitvinder eener nuttige zaak, werd niet zelden vervolgd als heks en
toovenaar.
Het zou ons verbazend wijdloopig doen worden, de duizendtallen
voorbeelden aan te halen, van de slagtoffers om tooverij en hekserij.—De
vervolging was weldra tot eene ongekende hoogte gestegen.—Meest alle
rampen en plagen werden aan tooverij toegeschreven, en de beschuldiging
van tooverij ging zelfs zóó ver, dat vorsten en geestelijken, de
beschuldigingen van hekserij niet konden ontgaan!
Ontelbaar zijn dan ook de menschen geweest, die hunne beschuldiging met
het leven moesten boeten. Een paar voorbeelden, slechts. In het kleine
bisdom Bamberg werden in vijf jaren tijds 600 menschen om tooverij ter
dood veroordeeld, meest verbrand, en in hetzelfde tijdsverloop telde het niet
veel grootere bisdom Würzburg 900 offers147.
Maar, vraagt mij welligt iemand, werd dan iedereen, die van tooverij
beschuldigd was, zonder vorm van proces veroordeeld, werden er geene
pogingen aangewend, de ongelukkige beschuldigden van den dood te
redden?
Ja mijne lezers er werden pogingen daarvoor in het werk gesteld, doch
hoedanig waren zij? Ach zij bragten zoo zelden redding voor de beklaagden
aan! Ja de p i j n b a n k was er, en die dan van tooverij en hekserij
beschuldigd of verdacht waren, werden op die pijnbank gebragt. Onder de
smartelijkste folteringen werden zij ondervraagd. De pijniging hield meestal
aan, totdat zij tot de bekentenis waren gebragt, en daar eene bekentenis
genoegzaam werd geacht, wanneer zij op de vragen slechts een
toestemmend antwoord hadden gegeven, is het daaruit gemakkelijk te
begrijpen, hoevele duizenden onder de felste folteringen het »Ja” hebben
uitgeroepen, om eenigen tijd verligting te erlangen, op de vragen, of zij op
bezemstokken door de lucht hadden gereden, of zij katten waren geweest,
enz. enz.148.”
Ja er waren nog andere proeven, zooals het o r d a l , de v u u r -, de w a t e r -
en n a a l d e n -proef, doch het behoorde bij al deze tot de hooge
zeldzaamheden, indien zij ten gunste der beklaagden uitvielen. Geen
wonder! men vergde in deze, bijna altijd wonderen van de Godheid, en na
de wreedste pijnen reeds in de »proef” doorstaan te hebben, werden zij
meestentijds naar den houtstapel geleid en verbrand! O de proeven ter
bevrijding der ongelukkigen, zij waren zoo slecht gekozen!
Van tijd tot tijd echter stonden er groote mannen op, die het durfden wagen
openlijk hunne stem te verheffen, ter bestrijding van het venijnig serpent,
dat men tooverij en hekserij noemde. D u r f d e n wagen? Ja voorzeker er
behoorde moed toe, tegen dit bijgeloof met open vizier te velde te trekken,
in d i e n tijd, toen bijna ieder onder de magt van het ellendig gedrocht zich
bewoog.
De eerst bekende groote man, die het bijgeloof heeft bestreden, was voor
zoover wij weten, paus Gregorius de VII in de elfde eeuw.—Ofschoon het
wel degelijk te vooronderstellen is, dat in de drie volgende eeuwen dit niet
zonder tegenspraak van velen heeft geheerscht, zoo vinden wij echter eerst
kort na de uitvinding der boekdrukkunst, en de daardoor veroorzaakte
meerdere bekendheid van gevoelens, onderscheidene personen, die het
geloof aan hekserij en tooverij bestreden.
De beroemde regtsgeleerde Alciatus, leerde reeds, »dat het beter was, de
heksen nieskruid te geven, dan haar ten vure te doemen” daarmede zoo het
schijnt doelende, op zijne overtuiging, dat zij, die zich verbeelden onder de
magt van booze kwellingen te staan, meestal krank naar ligchaam en ziel
waren.
Onze groote Rotterdammer Desiderius Erasmus, stelde de geheele zaak der
tooverij in een bespottelijk daglicht149.
In 1512 verscheen er te Gent een boekje in het licht, bevattende 2
kluchtspelen nl. de k l u c h t v a n H o m u l u s en H a n s k e v a n d e r
S c h i l d e . Dit boekje had een morele strekking, het bestrijden der tooverij;
een ander boekje heeft tot titel: t o o v e r e n , w a t d a t v o o r e e n
w e r k i s , beschreven door Jacob Vallick, pastoor te Grossen 1559. Het
bijgeloof, wordt daarin bestreden, op gronden van Godsdienst en
Zedekunde. Johannes Wier, in 1515 te Grave geboren, later lijfmedicus van
den Hertog van Cleef en Berg, was echter de eerste, die volledig de
vooroordeelen in deze bestreed. Hij had op zijne reizen onderscheidene
executien van zoogenaamde heksen gezien. De edele man had het
voornemen opgevat, de vooroordeelen van zijnen tijd grondig te
wederleggen. Hij schreef eene verhandeling over de giftmengers en de
toovenaars, waarin hij bewees, dat die twee zaken wel degelijk vaneen
gescheiden moesten worden, en toonde aan, dat de regters van zijnen tijd,
dit niet deden.
Vele regters erkenden hunne dwaling, en betuigden hem hunne
dankbaarheid, voor zijn uitmuntend betoog. Hierdoor aangemoedigd,
schreef hij nog tot aan het laatst van zijn leven, ter verdediging der
zoogenaamde heksen.
Cornelis Loos van Gouda werd aangezocht een zeker boek van Wier te
wederleggen, doch door het lezen van zijn geschrift overtuigd wordende,
werd zijn geschrijf een eere schrift op zijn boek. Men weigerde te Keulen
het manuscript te drukken, en Loos werd gedwongen onderscheidene
stellingen te herroepen en niet zonder vele pogingen ontkwam hij eene
vervolging150.
Bij al deze gunstige geschriften ter bestrijding van het bijgeloof, schreef
zekere Martinus del Rio het groote boek: O n d e r z o e k n a a r d e
t o o v e r i j , dat in 1599 uitkwam, en waarin het bestaan van toovenaars
verdedigd werd. Del Rio ging zelfs zoo ver, dat hij beweerde, dat de
verlichte Wier zelf een toovenaar was, en hij hen daarom in zijn geschrijf
verdedigd had.
In Reijnald Scott een verlicht engelschman, vond del Rio echter een
geduchten bestrijder, doch het bijgeloof woedde echter nog steeds met
hevigheid voort. In Engeland vatte een Jacobus I de pen op, om de
voorstanders der verlichting Wier en Scott te wederleggen en in
Duitschland werd de heksengeschiedenis, door het gezag van den
regtsgeleerden Carpzovius in wezen gehouden.
Op het laatst der 17de eeuw, begonnen de regeringen de vervolgingen
wegens tooverij, wel meer na te laten, doch het volk bleef niet minder
bijgeloovig dan vroeger, ofschoon het weder krachtige en bekwame
strijders vond in Adam Tanner en Frederik Spee. De laatste had als Jezuit,
menige veroordeelde heks, in hare laatste levensuren moeten bijstaan.
Getroffen door hetgeen hij gezien en gehoord had, schreef hij zijn boekje:
Wa e r b o r g o m g e e n q u a a t h a l s g e r e g t t e d o e n , een lief
boekje, dat door onzen bekenden Amsterdamschen predikant Balthazar
Bekker hoog geroemd en geprezen werd. Het geschrift van den Jezuit Spee,
werd in onze taal overgebragt, door N. B. A., zijnde N. Borremans,
Remonstrantsch predikant te Oudewater.
Doch, wat werden die edele menschenvrienden, in hunne pogingen om de
waarheid te verkondigen, gedaan? Frederick Spee zond zijn boekje om zich
voor vervolging te behoeden, naamloos in het licht. Borremans, vertaalde
het onder de letters N. B. A. en Balthazar Bekker, die in zijne
b e t o o v e r d e w e r e l d , het bijgeloof aanrandde, werd in 1692 van zijn
predikantsplaats ontzet, als onregtzinnig151.
Ik verzoek den lezer nog eens kortelijk met mij eenigen tijd terug te gaan,
tot naar het midden der 16e
eeuw en daar nog eens het bijgeloof en hare
gevolgen kortelijk herhalen. Het ligt echter niet in ons plan, dat bijgeloof
stap voor stap te volgen, immers dit onderwerp zou een ruimte beslaan, als
voor deze geheele plaatsbeschrijving bestemd is.
Wij voeren u dus in gedachten terug tot in het regeringstijdvak van Karel de
Vijfden, waarin wij de ter doodbrenging van eene heks zullen schilderen.
Allerwege ontwaart men brandstapels, die de ongelukkige toeven, die van
tooverij beschuldigd zijn. Zie daar nadert men met zoodanig een slagtoffer
den houtmijt! Ach het is eene vrouw en zij is echtgenoot en moeder, want
hij, die zich onder den stoet bevindt, hij met dien zonderling wreede trek op
het gelaat, met van woede glinsterende oogen, die dreigend staren op de
leiders van de zoogenaamde h e k s , hij prevelt verwenschingen, voor de
beschuldigers zijner »l i e f d e v o l l e g a d e .” Is zij ook moeder? Ja, ja,
zie naast de veroordeelde draagt een andere vrouw een schreijende
zuigeling, en geleidt een achtjarige knaap, en terwijl de vlottende menigte
nu langzaam voortgolft naar de plaats waar het doodvonnis zal voltrokken
worden, ontwaakt de ongelukkige »heks” met aan razernij grenzende
wanhoop uit den stillen waanzin, waarin zij gedompeld was! want zij ziet
de houtmijt vóór zich, die weldra met hare assche een vormloos
zaamgestorte massa zal uitmaken! M i j n e k i n d e r e n gilt zij, groote
God, mijne kinderen! de zuigeling en de knaap omvattende, o uwe moeder
omklemt u nu voor het laatst, zij drukt u na dezen immermeer de vurige
kussen op uwe wangen. Zij zal haren lieven zoon niet meer ter schole
leiden, hare zuigeling niet meer voeden met het moederlijk voedsel! en gij
echtgenoot, kermt zij, ach, zie niet zoo dreigend in deze bange ure, wij zien
ons weder, dáár, waar wij niet meer aldus gescheiden zullen worden, zorg
voor onze kleinen, voor de telgen van onzen gelukkigen echt, omhels mij
zoo als ik hen omhels.—God! God! ik moet van u en hen scheiden……
Hier zonk de ongelukkige bewusteloos ineen, door smartgevoel overstelpt.
In dezen toestand wordt zij op den brandstapel geplaatst, aan den paal
gebonden, men brengt het vuur met de drooge twijgen in aanraking, en
weldra kronkelen zich de woeste vlammen, om de in onmagt zijnde vrouw!
Het vuur wekt echter spoedig de ongelukkige uit hare bezwijming, en
wanhopend wringt zij zich op den brandstapel, door ligchaamspijn en
boezemwee overstelpt—toch zoekt zij nog naar de plaats vanwaar zij hoort
kermen, gade dierbare gade, vaarwel tot wederzien bij God in den hemel!
vanwaar zij hoort smeken, moeder, lieve moeder, o kom bij mij!
O deze smartvolle ontboezemingen wat verschilden zij van de uitroepingen
der volksmenigte. Voort, voort met de heks, want zij heeft met
bezemstokken door de lucht gereden, wij hebben haar in de gedaante eener
kat gezien, zij heeft onweders en ziekten verwekt, en de kinderen
betooverd, zóó zóó, verbrand haar, verbrand haar!
Weldra waren de laatste levensvonken van de ongelukkige echtgenoot en
moeder uitgebluscht, en…. het bijgeloof had een offer meer geëischt en
genomen!!
Zulke treurige executien, hadden in de tijden waarvan wij schrijven
menigmaal plaats, op honderde manieren gevarieerd, zonder onderscheid
van kunne of ouderdom. Geen wonder ook, wij hebben het reeds
aangetoond, de proeven aangewend tot bevrijding eener aangeklaagde
»heks,” zij gelukten bijna nooit in het voordeel der laatsten.
Maar eindelijk daagde er toch lichte aan den horizont: er werd eene proef
ontdekt, die a l t i j d de vrijspraak voor de beschuldigden van tooverij
moest ten gevolge hebben, eene proef, die ook geen pijn veroorzaakte, eene
proef even onschuldig als zeker, de heksen moesten zich namelijk l a t e n
w e g e n op de stadswaag te Oudewater.
Waarom vraagt ons welligt iemand moesten de heksen gewogen worden,
waarom moesten zij te Oudewater gewogen worden en wie is de uitvinder,
de bedenker van deze proef, die zooveel invloed op het bestrijden van het
bijgeloof ten gevolge moet hebben gehad? Wij zullen een en ander zoo
beknopt en duidelijk mogelijk ter neder schrijven.
De heksen, die in het volksbijgeloof door de lucht konden rijden, hadden
volgens gevoelen van hare beschuldigers en vervolgers geene
ligchaamszwaarte, somtijds meende men zelfs, »dat zij nog minder dan
niets wogen.” Werden zij dus ter schale geleid, en bevond men, dat zij zoo
zwaar wogen, dat het met de natuurlijke proportie haars ligchaams overeen
kwam, en dat kon nimmer missen, dan werd aan dezulken te Oudewater een
certificaat gegeven, dat haar bij de minste beschuldiging van tooverij
vrijwaarde, tegen alle mogelijke vervolging.
Waarom zij nu te Oudewater moesten gewogen worden en wie de bedenker
dezer weegproef was, hiervan kunnen wij het volgende berigten:
Van oudsher had de waag te Oudewater een bijzonder goeden naam om
hare juistheid in het wegen; maar bovenal ook om het juiste en eerlijke
gewigt in deze waag aanwezig zijnde en gebruikt wordende. Immers, ten
bewijze strekke hiervoor, de ordonnantie van keizer Karel de V, waarbij hij
ten jare 1547 aan die van Gouda gelastte, hun gewigt met dat van
Oudewater te laten »ijken” zouden wij in onze dagen zeggen.152 Hieruit
blijkt dus, dat die vorst voor deze waag reeds eenige voorliefde had, en men
houdt dan ook algemeen den keizer, voor den bedenker van deze weegkuur,
ofschoon het echter niet met zekerheid te bepalen is, ten minste onder de
oude geschriften ter gemeente secretarie berustende, vinde ik
dienaangaande geen licht verspreid. Het is echter bijna zeker, dat Karel de
V wel de bedoelde persoon zal zijn, die dat gebruik ingevoerd heeft, en het
ontbreekt dan ook niet aan schrijvers, die dat zonder eenige bedenking
aannemen.
Laat ons nu overgaan, meerdere bijzonderheden omtrent de aloude
weegkuur te Oudewater zooveel mogelijk uit oude stukken aan te voeren.
Wij hebben hiervoren reeds gemeld, dat er in het tijdvak dezer
heksenbeschuldigingen, door den pater jesuit Spee, een werkje ter
bestrijding van het bijgeloof geschreven was, ten titel voerende:
Wa e r b o r g o m g e e n q u a a t h a l s r e c h t t e d o e n , en dat dit
boekje in onze taal werd overgebragt door N. B. A., zijnde N. Borremans,
eertijds Remonstrantsch predikant te Oudewater.
In de voorrede van deze vertaling, vermeldt de heer Borremans eenige
gissingen, omtrent den oorsprong van dit weegregt alhier, en deelt daarin
tevens de volgende bijzonderheden mede, door een der burgemeesteren van
Oudewater dier eeuw, aan Borremans zelf geschreven, die zijn verzoek aan
dezen magistraats-persoon omtrent eenige bijzonderheden van de waag en
de gewogen wordende, in zekere vragen had doen geworden.
Na vermeld te hebben, dat er vele zoogenaamde heksen van de stiften
Keulen, Munster en Padeborn sedert keizer Karels tijd, reeds gewogen
waren en nog werden, vinden wij daarop t. a. p. aangeteekend:
»Dat daar noit ymand uit een van die plaatsen gekomen was, of zy hebben
alle eenstemmig verklaart, dat zy in hun land t’ onregten van Tovery
beschuldigt wierden: en zoo zy geen bewys bekomen konden, van dat ze in
de Stads Waege t’ Oudewater gewogen waren, en hun gewigte met de
gelegentheid hunnes Lichaems overeen quam, dat zy gevaer liepen van in
hun Land om lyf en goed te raaken: ’T zeggen van die luyden was
doorgaans, dat die in hun Land voor Tovenaers gehouden wierden, welken
minder woegen. De overleden Secretaris de Hoy hadde hem verhaalt, dat in
zynen tyd zeker persoon, uit de bovendeelen in ’t Land daar hy woonde,
door eenen, daar hy mede in geschil geraakt was, in ’t geruchte was gebragt,
van een Tovenaar te zyn, en dat hy geraden wiert, om zich van de gezeyde
laster te suyveren, naer Oudewater in Holland te reysen, en hem aldaar in
de Stads Schale te laeten wegen, en dat hy daar gekomen, het zy door
bottigheyd, het zy door vreeze, of door quade onderrigtinge, wederom
gekeert was na zyn Landt, zonder gewoogen te zyn, maar dat hy in zyn
Vaderland komende, en niet konnende toonen, dat hy gewogen was (zulx
vermoedelyk voor bewys van schuldigheid genomen zynde, als of hy te
licht bevonden waare) zoo is ’t gerugt voort geslagen tot den Regter van de
plaats, die gezogt had deze Persoon in hegtenis te nemen, maar hy
gewaerschouwt was ’t ontvlugt. Daer na in ’t Land, daar hy gevlucht was,
geraakt zynde by een persoon, die te vooren hier ook met eenen anderen in
zodanige gelegentheid geweest was, heeft den selven bevoolen met hem
herwaarts aan te reysen, gelyk hy ook t’ Oudewater gekomen, en in de
Stads wage, op die reyze en wyze als verhaelt is, gewogen zynde, weder
was na huys gekeert, en in zyn Vaderland, daar hy van daan gevlugt was,
het bescheyt van aldaer gewogen te zyn vertoont hebbende, was hy weder
in zyn geheel en in de volle bezittinge zyner goederen, die by den Regter al
waren aengeslagen, hersteld geworden.
»Op de 2de Vrage seit de Burgemeester, dat geen seker gewichte gestelt is,
wat iemand wegen moet, maar dat het daarop aan kwam, dat het gewicht
met de natuurlyke geschapentheid des lichaams overeenkomt.
»Op de 3de Vrage, van waar dit zyn oorsprong heeft, seyt hy, dat hem zulks
onbekent zy, maer dat egter blykt, dat hunne Stads wage in die buiten
landen zulken aanzien hadde, also ’t verscheide malen gebeurt was, dat die
geenen, welken verzochten gewogen te worden, met bysondere
Voorschryvens hunner Stad of plaats gekomen zyn.
»Echter word daarby gezegt, dat Keyzer Karel zulk Voorregt aan de Stad
Oudewater, uit oorzaak van hunne beproefde Oprechtigheid in desen, en
van seker bedrog, in een nabuurig dorp ontdekt, geschonken heeft, immers
dat zulks het algemeen zeggen is.”
Teregt merkt Ds. Kits van Heyningen, dan ook dien ten gevolge op:153
»Men ziet uit bovenstaand berigt, dat de waag te Oudewater niet alleen veel
bekendheid had, en voor officieel getuigenis diende, maar, dat ook de proef
zeer onschuldig was. Had men een bepaald gewigt gesteld, dat iemand op
zekeren leeftijd wegen moest, terwijl een ligter zijn, dan zoodanig gesteld
gewigt voor bewijs van schuld gold, de proef ware wel niet pijnlijk, maar
toch gevaarlijk geweest. Nu daarentegen, was ’t genoeg, wanneer het
gewigt, met de gewone gesteldheid des ligchaams in overeenstemming was.
Men grondde die bepaling zeker op het volksgeloof, dat onder andere
meeningen ook deze koesterde, dat een heks of toovenaar geen gewigt had.”
»Intusschen was het voorregt aan de waag gegeven, den waagmeester
zelven niet geheel onverschillig. Wie gewogen werd, betaalde natuurlijk het
waaggeld en schoon de som zoo groot niet was, bij de meerdere waarde, die
het geld in dien tijd had, was zij toch een emolument geweest, dat bij zijn
post gerekend werd, indien zij niet, omdat een ieder er iets van hebben

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Media digitali La storia i contesti sociali le narrazioni Italian Edition Gabriele Balbi Paolo Magaudda

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  • 7. Indice Introduzione Ringraziamenti 1. Studiare i media e la società digitale in prospettiva storica 1.1. Contestualizzare, definire e decostruire il «digitale» 1.2. Digitale e modelli di società: una breve storia 1.3. Perché una prospettiva storica? ► Nuovismo ► Rivoluzionismo o immobilismo? ► Errore teleologico 2. Il computer 2.1. L’origine di tutti i dispositivi digitali 2.2. I computer meccanici e il bisogno sociale di calcolare 2.3. La nascita dei computer digitali e i mainframes 2.4. Tra i mainframes e i PC: il computer «da tavolo», il time-sharing e i microprocessori 2.5. Il personal computer ► L’invenzione ► Una nuova visione culturale ► Il PC diventa un oggetto di consumo ► La maturità: internet, laptop e Linux 2.6. Verso una società di computer onnipresenti 3. Internet 3.1. Cosa intendiamo quando parliamo di internet 3.2. L’influenza militare 3.3. L’influenza accademico-scientifica 3.4. L’influenza controculturale 3.5. L’influenza di «servizio pubblico» 3.6. L’influenza commerciale 3.7. L’influenza sociale ► Il web 2.0 e la retorica della partecipazione
  • 8. ► Dalla libertà al controllo sociale ► La rete diventa mondiale e si profila una «guerra» tra Stati Uniti e Cina per il suo controllo 3.8. E la prossima influenza formativa? 3.9. Conclusione: uno sguardo storico alla rete 4. Il telefono mobile 4.1. Telefonia mobile, mobilità e società contemporanee 4.2. Prima nascita: telefonia fissa, telegrafia senza fili e altri servizi di comunicazione mobile 4.3. Seconda nascita: il ritardo americano, la frammentazione europea (con un’eccezione) 4.4. Primo boom: GSM, digitalizzazione ed esplosione della telefonia mobile 4.5. Non solo per telefonare: breve storia degli SMS 4.6. Secondo boom: internet mobile e smartphone come nuovi paradigmi 4.7. La globalizzazione: un telefono per ogni abitante della Terra 4.8. Quale sarà la prossima fase? 5. La digitalizzazione dei media analogici 5.1. Due logiche di fondo: l’intermedialità e la dialettica tra trasformazione/continuità 5.2. La musica: compact disc, MP3 e streaming on line 5.3. La stampa: libri e giornalismo tra carta e digitale 5.4. Il cinema e il video: Pixar, Netflix e i nuovi consumi digitali 5.5. La fotografia: fotoritocco, cameraphone e social media 5.6. La televisione: digitalizzazione del segnale, smart TV e contenuti on line 5.7. La radio: il «fallimento» del DAB, lo streaming e i podcast 5.8. Un quadro d’insieme: alcune macrotendenze della digitalizzazione 6. La digitalizzazione come mitologia contemporanea 6.1. I «miti» della digitalizzazione come «egemonia culturale» 6.2. Primo mito: la digitalizzazione come una forza irresistibile 6.3. Secondo mito: la digitalizzazione come una livella globale 6.4. Terzo mito: la digitalizzazione come una forza rivoluzionaria 6.5. Il futuro della storia dei media digitali: nuove strade e alcune questioni aperte Bibliografia Appendice di dati
  • 9. Introduzione Media digitali. La storia, i contesti, le narrazioni è uno strumento per avvicinarsi allo studio dei media digitali adottando una prospettiva storica, attenta agli aspetti sociali e culturali che la digitalizzazione ha prodotto e continua a produrre a livello globale. Il libro è progettato per essere usato nei corsi di media e comunicazione, ma è di interesse anche per altre discipline, come la storia, la sociologia, gli studi sulla scienza e la tecnologia, l’economia politica, gli studi culturali, l’antropologia e altri ambiti che vogliano far comprendere ai propri studenti come i media digitali siano emersi e si siano sviluppati nel corso di più di un secolo, o anche oltre. Difatti, la caratteristica principale e più originale del libro è l’adozione di una prospettiva storica. Le storie del computer, di internet, del telefono mobile e della digitalizzazione dei media analogici vengono ricostruite nel corso dei capitoli a partire almeno dalla fine dell’Ottocento, con una intensificazione a partire dalla seconda metà del Novecento. Quello che proponiamo, insomma, è uno sguardo ai media digitali di lunga durata, pur consapevoli che, secondo la prospettiva di longue durée millenaria suggerita dallo storico francese Fernand Braudel, questo periodo di tempo potrebbe sembrare in realtà piuttosto breve. Non è così per gli studi sui media digitali, che si concentrano generalmente sui fenomeni del presente o sugli ultimi anni dell’evoluzione della digitalizzazione. Adottare una prospettiva di lungo periodo è utile in primo luogo per far emergere l’inestricabile intreccio tra il cambiamento portato dalle tecnologie digitali e le forme di continuità con il sistema dei media precedente e, in particolare, con le pratiche e le culture che hanno preso forma nel passato con i media analogici. La dialettica tra cambiamento e continuità rappresenta un’altra delle dimensioni fondanti di questo libro e, al contempo, fornisce una risposta a una delle «mitologie» più
  • 10. persistenti della digitalizzazione: l’idea che i media digitali abbiano causato una «rivoluzione digitale» permanente, un radicale cambiamento nelle abitudini di vita delle persone. La realtà, come sempre, è molto più complessa e contraddittoria e questa complessità può essere compresa solo riannodando i fili di un processo di lungo periodo, che ha visto emergere alcune condizioni e bisogni sociali che hanno posto le basi per lo sviluppo dei media digitali, che a loro volta hanno contribuito a trasformare le società in cui sono stati adottati. Le storie narrate in questo libro non si limitano però a un approccio storico basato sugli eventi in ordine cronologico (la cosiddetta storia evenemenziale). Piuttosto, l’idea è quella di identificare alcuni degli snodi e dei processi più significativi nella nascita e nell’evoluzione sociale dei media digitali, considerando tanto le storie di successo come alcuni clamorosi fallimenti: dalle decisioni politiche ed economiche prese dai governi e dagli organismi internazionali, al ruolo delle piccole startup locali e delle potenti compagnie globali, fino alle forme imprevedibili e inaspettate di riappropriazione delle tecnologie digitali da parte degli utenti finali in diverse regioni del mondo. La storia dei media digitali che proponiamo sarà quindi raccontata da vari punti di vista e attraverso molteplici strumenti interpretativi per far emergere il costante intreccio tra aspetti politici, economici, culturali, materiali e simbolici delle società contemporanee. Tutto questo per provare a comprendere come le tecnologie digitali abbiano plasmato diverse culture umane in vari modi, ma anche come esse stesse siano state influenzate dalle società, in un processo di «co-costruzione» o «modellamento reciproco» tra tecnologie mediali e società, come spesso tale processo viene definito dagli studiosi sociali di scienza e tecnologia. Inoltre, vale la pena sottolineare che, sebbene i capitoli su computer, internet e telefonia mobile siano distinti per ragioni di semplicità analitica e perché il lavoro degli studiosi li ha tradizionalmente separati, questo libro enfatizza la necessità di considerare i media digitali nella loro interazione reciproca e ricorsiva. La storia dello smartphone è l’esempio tipico di un mezzo che vede convergere idee, tecnologie e abitudini d’uso che provengono da tradizioni e media differenti come il computer, internet, la telefonia mobile e molti altri dispositivi digitali (e analogici). Lo smartphone è un computer, è il principale strumento di accesso alla
  • 11. rete, è un telefono ma è anche molte altre cose: una macchina fotografica, un orologio, uno strumento di elaborazione di informazioni, e così via. Per capire la rilevanza sociale e culturale dello smartphone occorre quindi adottare una prospettiva che definiamo intermediale, per cui è necessario considerare l’interazione e l’influenza reciproca di diversi media in uno stesso periodo storico. Lo stesso vale per i media «tradizionali» che si sono digitalizzati: la storia della televisione, ad esempio, non può essere compresa senza considerare le «nuove» tecnologie (digitali e non) degli anni Settanta come i satelliti, i videoregistratori e i telecomandi, così come i social network come YouTube o le piattaforme di streaming come Netflix (dove molte serie TV di culto vengono prodotte e rilasciate oggigiorno). Infine, il libro presenta anche una sensibilità globale. Ciò non significa che in questo volume si parlerà di ogni paese del mondo, ma piuttosto che si sottolineerà come la digitalizzazione generi tensioni e contraddizioni anche su un piano globale: ad esempio, la produzione dei media digitali è storicamente concentrata in un’area geografica, politica ed economica limitata (con una prevalenza del mondo occidentale e degli Stati Uniti, cui si è aggiunta l’Asia nell’ultimo decennio); oppure la maggioranza degli utenti di internet o della telefonia mobile sono oramai collocati in aree del mondo in precedenza secondarie nell’economia dei media globali (come la Cina, l’India, il Brasile e alcuni paesi dell’Africa come la Nigeria), con una profonda differenza rispetto alla prima fase di diffusione dei media digitali, in cui gli utilizzatori erano concentrati specie negli Stati Uniti e in Europa. Infine, considerare la dimensione globale dei media digitali significa anche riconoscere che usi e pratiche sociali relativi a questi strumenti di comunicazione sono profondamente differenti in contesti sociali diversi, ricalcando la varietà di risposte che le dimensioni locali hanno prodotto nei confronti delle pressioni esercitate dal processo di globalizzazione. A questa dimensione globale e, al contempo, culturalmente situata si lega l’attenzione ai contesti sociali: la società globale contemporanea è stata investita e affascinata in maniera sorprendentemente uniforme dalla digitalizzazione, ma al contempo presenta conseguenze tutt’altro che uniformi in varie aree del mondo e questo libro ne metterà in luce alcune contraddizioni. La digitalizzazione, inoltre, non riguarda solo aspetti tecnici, ma
  • 12. presenta profonde implicazioni culturali e simboliche, come metteremo in luce in particolare nel capitolo conclusivo del volume. Le narrazioni del digitale includono la costruzione di potenti «mitologie» attorno a personaggi, oggetti, luoghi o idee che sono diventati centrali nello sviluppo del mondo contemporaneo, alimentando costantemente l’affermazione di un particolare modello di società sempre più incentrata sui media digitali. Del resto, anche la digitalizzazione in sé può essere considerata come una forza mitologica, rappresentata come una risorsa autonoma in grado di cambiare le società in cui prende piede, di migliorare la vita delle persone sotto vari aspetti, ma a volte anche di proiettare ombre oscure su una serie di fenomeni, come la sorveglianza dei cittadini, lo strapotere economico delle grandi aziende digitali o i timori per le forme di dipendenza dall’uso dei dispositivi digitali. Anche le mitologie, infine, hanno una loro dimensione diacronica e cambiano nel corso del tempo, sostituite da altre narrazioni (o contro-narrazioni) più potenti. Il libro è diviso in sei capitoli. Il Capitolo 1 definisce i media digitali e alcune delle caratteristiche più evidenti della digitalizzazione, propone una breve storia dei modelli di società emersi con la «rivoluzione» dei computer, dell’informazione e di altri strumenti digitali e, infine, risponde a una domanda fondamentale: perché e quali benefici apporta adottare una prospettiva storica alla digitalizzazione? I Capitoli 2, 3 e 4 sviluppano le storie specifiche di tre media digitali: computer, internet e telefoni mobili. Questi mezzi di comunicazione, emblematici della cosiddetta «rivoluzione digitale», sono in realtà emersi da idee e mezzi di comunicazione precedenti. Obiettivo dei tre capitoli è quello di raccontare gli intrecci tra questi media digitali e la politica, l’economia e le società, anche grazie a una periodizzazione chiara, in grado di fornire ai lettori e agli studenti dei quadri temporali di riferimento. Il Capitolo 5 analizzerà le conseguenze e le principali tendenze del processo di digitalizzazione nei media «tradizionali» e, nello specifico, in sei settori: musica, libri e giornali, cinema e video, fotografia, TV e radio. Infine, il Capitolo 6, che funge anche da conclusione del volume, farà il punto sulle principali narrazioni legate ai media digitali. Oltre alla bibliografia, utile per approfondire alcuni dei temi affrontati nel volume, il lettore troverà
  • 13. anche un’appendice di dati con alcune serie storiche in grado di illustrare le principali tendenze nello sviluppo dei media digitali a livello globale. Come tutte le storie, quella che proponiamo è necessariamente parziale e selettiva. Ci siamo concentrati su tre grandi media digitali e sulle conseguenze che la digitalizzazione ha avuto per i principali media analogici, lasciando inevitabilmente da parte un certo numero di altre storie che probabilmente sarebbero state altrettanto interessanti. Da un lato, questo è comprensibile quando si tenta una ricognizione così ampia in uno spazio limitato. D’altra parte, come sottolineeremo nel Capitolo 6, questo libro è concepito come un primo passo entro un universo vasto e ancora incompiuto, un punto di partenza introduttivo. Naturalmente, speriamo che il libro riesca comunque a offrire una panoramica ampia e variegata e a suggerire ulteriori percorsi di approfondimento che i singoli lettori potranno decidere di intraprendere. Ringraziamenti Questo libro rappresenta il punto di arrivo di un lavoro quasi decennale portato avanti congiuntamente dai due autori, che ha preso forma in almeno altre due pubblicazioni: Storia dei media digitali. Rivoluzioni e continuità, pubblicato sempre da Laterza nel 2014, e A History of Digital Media. An Intermedia and Global Perspective, pubblicato da Routledge nel 2018. Dei due volumi precedenti, il presente libro ricalca la struttura di base, ma la arricchisce non solo aggiornando storie, dati e avvenimenti, ma modificando anche alcune delle interpretazioni delle traiettorie che hanno caratterizzato l’affermazione dei media digitali nelle società contemporanee. Tra le numerosissime persone che hanno contribuito direttamente o indirettamente a plasmare questo lungo lavoro, talvolta spingendoci a modificare i nostri punti di vista di partenza, vorremmo ringraziare alcuni colleghi, ben consapevoli che probabilmente ne dimenticheremo molti altri: Raffaele Barberio, Deborah Barcella, Luca Barra, Eleonora Benecchi, Daniel Boccacci, Tiziano Bonini, Davide Borrelli, Paolo Bory, Stefano Bory, Attila Bruni, Antonio Catolfi, Massimo Cerulo, Stefano Crabu, Stefano Cristante, Alessandro Delfanti, Philip Di Salvo, Andreas Fickers, Martin Fomasi, Richard R. John, Juraj Kittler, Katharina Lobinger, Ely Luethi, Paolo Mancini, Rita Marchetti, Alberto Marinelli, Massimo Mazzotti, Manuel Menke, Andrea Miconi, Sergio Minniti, Francesca Musiani, Simone Natale, Gianluigi Negro, Federico Neresini, Peppino Ortoleva, David Park, Benjamin Peters, John Durham Peters, Benedetta Prario, Nelson Ribeiro, Giuseppe Richeri, Maria Rikitianskaia, Massimo Rospocher, Massimo Scaglioni, Cosimo Marco Scarcelli, Valérie Schafer, Christian Schwarzenegger, Daya Thussu, Assunta Viteritti, Guobin Yang e Sara Zanatta. A questi si aggiungono le decine di altri colleghi che, in conferenze e seminari, hanno permesso al libro di crescere
  • 14. e, speriamo, migliorare. Un ringraziamento particolare va poi a Lia Di Trapani e all’editore Laterza, non solo perché quasi un decennio fa hanno creduto nella validità del nostro lavoro e l’hanno stimolato, ma anche perché sono ancora disposti a darci fiducia e a sopportare i nostri ritardi. Gabriele Balbi e Paolo Magaudda Lugano e Bologna, 30 aprile 2021
  • 15. 1. Studiare i media e la società digitale in prospettiva storica 1.1. Contestualizzare, definire e decostruire il «digitale» A partire dagli anni Duemila i media digitali sono diventati un elemento centrale delle riflessioni e dell’immaginario delle società contemporanee, una possibile soluzione a buona parte dei problemi economici e sociali, una delle principali «ossessioni» del nostro tempo: connettersi (o essere sempre connessi) in rete, scambiarsi like o commenti sui social media, acquistare prodotti on line, scaricare un’app, aggiornare il proprio profilo virtuale, scambiare email, SMS o messaggi WhatsApp o WeChat, fare brevi video su Instagram o TikTok, cercare informazioni sul web sono solo alcune tra le infinite attività e i gesti abitudinari entrati a far parte della vita quotidiana di miliardi di persone, modificando le possibilità d’accesso alle informazioni, le opportunità economiche, la forma delle relazioni sociali e i processi di costruzione dell’identità. I media digitali e il loro uso sono diventati potenti metafore per descrivere e dare senso alle società contemporanee a cavallo del millennio: il filosofo francese Stéphane Vial (2013) ha parlato in proposito di «ontofania digitale», adattando un’espressione traslata dalla semantica religiosa (dal greco on che significa essere e faneia apparizione) per indicare quanto l’universo digitale appaia oggi come una delle «fedi» e delle «mitologie» più rilevanti del mondo contemporaneo, in grado di condizionare nel profondo la percezione e l’esperienza della realtà. Gli «effetti» veri o presunti delle tecnologie digitali hanno assunto dimensioni positive o negative, in relazione ai differenti periodi storici e ai contesti culturali in cui sono state adottate. Per un verso, ad esempio, il digitale è stato acclamato per aver permesso la creazione di nuove «comunità», formate da persone che prima non avevano modo di
  • 16. interagire tra loro, ma dall’altro verso ha anche contribuito alla formazione di nuove barriere e disuguaglianze. Questa dimensione controversa dei media digitali in ambito sociale è diventata oggetto di discussione e di attenzione generale, a cominciare dall’immaginario popolare, grazie a serie TV come Black Mirror (prima stagione nel 2011), che ha offerto una lettura spesso distopica e inquietante sulle conseguenze della digitalizzazione nel presente o nel prossimo futuro. Proprio per la forza che ha esercitato nel costruire il mondo contemporaneo, per il suo potere trasformativo e la sua forza metaforica, per il fatto di essere impiegata frequentemente nel discorso pubblico ora con toni trionfalistici ora con timore e paura, la digitalizzazione richiede in primo luogo di essere definita e decostruita. Da dove proviene, dunque, la parola «digitale»? L’aggettivo «digitale» deriva dal latino digitus (dito) e, come ha sostenuto Ben Peters (2016b), gli esseri umani sono «naturalmente» digitali, perché fin dalle origini hanno dovuto contare, indicare e manipolare con le proprie dita. Il termine digitale non nasce quindi con i computer o altri strumenti tecnologici, ma è connaturato alla stessa natura umana. Eppure, nella società contemporanea, il termine «digitale» è spesso usato in contrapposizione ad «analogico», quasi si trattasse di due estremi di un continuum. Un esempio concreto tratto dal mondo della musica ci aiuta a chiarire questa distinzione: la differenza tra il disco in vinile analogico e il compact disc digitale. Gli appassionati del vinile sanno che il suono del disco è prodotto dal contatto tra la puntina e i solchi incisi sul disco stesso. Questi solchi sono continui, nel senso che non ci sono interruzioni nella spirale su cui sono incise le frequenze che contengono musica e parole. Tra il suono e il solco c’è quindi un’analogia fisica, una similitudine: se il solco è più o meno profondo produce un suono diverso. Nel caso del CD, invece, la traccia audio è scomposta (o meglio campionata) in una miriade di punti, e quindi in unità discrete e non continue, i cui valori sono registrati sulla superficie del supporto in formato binario, sotto forma di 0 e di 1. Il suono è prodotto dalla lettura che il laser fa dei valori di questi singoli punti che, tradotti poi in frequenze sonore, possono essere ascoltati in sequenza, ricreando così la continuità dell’ascolto. Questa distinzione presuppone che analogico sia tutto ciò che non è
  • 17. digitale e viceversa. Tuttavia, come ha mostrato lo storico dei media Jonathan Sterne (2016), la distinzione tra analogico e digitale è molto più intricata e meno scontata. In primo luogo, «l’idea dell’analogico come non-digitale è più nuova dell’idea stessa di digitale» (p. 32), poiché la contrapposizione analogico/digitale si è definita con forza solo negli ultimi decenni, ed è quindi successiva alla creazione dei primi computer che oggi definiamo «digitali». Ciò che intendiamo oggi con la parola «analogico» è più il risultato storico di una serie di distinzioni culturali e mutamenti dei confini simbolici del termine, piuttosto che una caratteristica tecnica oggettiva: negli anni Cinquanta del Novecento il termine «analogico» indicava tutto ciò che riguardava i computer, negli anni Settanta il termine iniziò a significare un contrasto con i nuovi dispositivi elettronici (ma non per forza digitali) e, infine, solo dagli anni Novanta ha iniziato a essere utilizzato con la connotazione di «vecchio stile» e anche «vintage». In altre parole, le definizioni di analogico e digitale si sono evolute insieme e sono cambiate nel tempo in un rapporto dialettico e reciproco. Il significato che oggi attribuiamo comunemente al digitale è legato anche a due processi che spesso vengono confusi: la numerizzazione e la binarizzazione (Lister et al. 2009). La digitalizzazione è un fenomeno che coinvolge in primo luogo la numerizzazione (tanto che in italiano e in francese, ad esempio, si usano i termini numerizzazione e numérisation), ovvero la conversione in cifre di contenuti che prima erano espressi in linguaggi differenti. Con le tecnologie analogiche, ad esempio, video, audio e testo erano trasmessi come segnali continui e ciascuna di queste tre forme di contenuti era differente dalle altre; con la digitalizzazione video, audio e testo sono invece tutti codificati come dati numerici e risultano quindi indistinguibili tra loro. Scomposti in numeri, non riusciamo infatti a capire se la stringa di cifre sia riferita a un video o a un testo. Vi è poi la binarizzazione: spesso si crede, erroneamente, che digitalizzare equivalga a convertire dati fisici in informazione binaria. In realtà, la digitalizzazione, come indica la sua seconda etimologia tratta questa volta dall’inglese digit (cifra), è la semplice assegnazione di valori numerici, così come l’abbiamo su descritta. D’altra parte, il fatto che si sia pensato di digitalizzare i contenuti attraverso stringhe di 0 e 1, chiamate
  • 18. bit, ha enormemente semplificato il processo di codifica e decodifica, perché riduce ogni componente a due stati: acceso o spento, passaggio o non-passaggio di corrente, 0 o 1. I programmi che vediamo sulle nostre TV digitali non sono altro che sequenze di 0 e 1, in cui sono scomposte le onde continue generate da suoni e immagini, trasformate in stringhe di valori che non hanno più alcuna relazione analogica o meglio nessuna analogia con gli originali. Sono dunque le TV o i decoder a tradurre e ricomporre la sequenza di 0 e 1 in suoni e immagini comprensibili e consumabili nelle nostre case. I fenomeni di numerizzazione e di trasformazione in codice binario hanno diverse importanti conseguenze per la circolazione dei contenuti mediali. In primo luogo, trattare tutte le forme di comunicazione allo stesso modo permette apparentemente di «smaterializzare» i contenuti dei media; comprimerli e quindi trasferirli più in fretta; manipolarli o modificarli in maniera semplice; conservarli in supporti che occupano poco spazio perché l’informazione digitale è densa – si pensi alla differenza tra le ore di audio-video che possono essere contenute in una cassetta VHS e in un hard disk esterno da alcuni gigabyte, o ancora allo spazio potenzialmente infinito in cloud. Una delle differenze spesso evidenziate tra i media analogici e quelli digitali è che, con quelli analogici, tutti questi processi erano più complessi e costosi, come dimostra la necessità di dover tagliare e copiare supporti fisici (si pensi alle bobine cinematografiche) o trasferirli da un luogo all’altro attraverso sistemi di trasporto (si pensi al giornale cartaceo). Tuttavia, questa ipotesi può essere contestata con una prospettiva storica: le onde radio o i cavi telegrafici e telefonici permettevano già di trasferire informazioni in maniera istantanea oppure i primi computer necessitavano di supporti grandi e pesanti come le bobine di nastro magnetico per immagazzinare la memoria (cfr. Capitolo 2). Ciò detto, è forse più interessante decostruire un’altra argomentazione di frequente collegata alla digitalizzazione: quella che essa causi immancabilmente la smaterializzazione dei contenuti e della cultura. Al contrario, possiamo constatare che la digitalizzazione è stata accompagnata da un’esplosione della presenza di nuovi oggetti materiali e di nuovi hardware nella nostra società: dai personal computer agli smartphone, dai DVD alle penne USB, dai lettori MP3 alle fotocamere,
  • 19. dai cavi in fibra ottica ai grandi server che necessitano di essere raffreddati, fino a un’infinità di accessori all’apparenza superflui ma che fanno parte del mondo digitale come le custodie degli smartphone. Possiamo così decostruire un’idea assai diffusa attorno ai presunti effetti del digitale: anziché tradursi in una smaterializzazione della cultura, le tecnologie digitali sembrano invece stimolare la diffusione di un nuovo universo materiale, costituito da supporti e oggetti fisici. Oggetti che, nelle diverse culture, sono spesso circondati da significati, simboli e mitologie. 1.2. Digitale e modelli di società: una breve storia Il digitale non è costituito solo da aspetti tecnici e materiali: per ricostruire i significati profondi che ruotano attorno alla digitalizzazione occorre anche considerare come si siano evolute le rappresentazioni e gli immaginari del digitale nella cultura contemporanea. Nonostante l’importanza culturale, sociale ed economica dei media digitali, infatti, fino a oggi le scienze storico-sociali si sono interrogate solo in modo parziale sulle radici, le correnti di pensiero, le metafore e le visioni che hanno favorito l’emergere di una società sempre più digitalizzata. In altre parole: quando e in che modo la nostra società ha iniziato a pensare a sé stessa come a una società digitale? I primi tentativi di individuare il fulcro delle trasformazioni in atto nella società moderna nell’evoluzione del calcolo, della comunicazione e dei computer risalgono al periodo immediatamente successivo alla Seconda guerra mondiale e, in particolare, al successo di due cornici teoriche emerse in quegli anni: la cibernetica e la teoria dell’informazione (Heims 1994). La cibernetica fu un innovativo ambito interdisciplinare che prese forma dagli anni Quaranta del Novecento. Etimologicamente, «cibernetica» proviene dal greco e rimanda al campo semantico navale e si può tradurre letteralmente come «l’arte di pilotare». Padre della cibernetica è considerato il matematico statunitense Norbert Wiener, che si occupò di studiare i fenomeni di autoregolazione dei sistemi di comunicazione nelle loro interazioni con l’ambiente sociale. Wiener riconobbe tra i fenomeni cruciali per le trasformazioni sociali sia l’evoluzione delle forme di comunicazione, sia il ruolo delle macchine e
  • 20. della loro interazione con l’ambiente sociale. Sempre nei medesimi anni, più precisamente nel 1948, l’ingegnere e matematico Claude Shannon tracciò le basi logico-matematiche di un modello di trasferimento della comunicazione, chiamato «teoria dell’informazione» e poi evolutosi nella «teoria matematica dell’informazione» con l’aiuto di un altro scienziato, Warren Weaver. Tali modelli, basati perlopiù sulle comunicazioni telefoniche, dal momento che i due matematici li svilupparono nei laboratori di ricerca della principale società telefonica americana, AT&T, rappresentarono un riferimento centrale dei nascenti studi sulla comunicazione e, più in generale, permisero di identificare «la comunicazione» come dimensione cruciale della società postbellica. È questo l’assunto di base di una tesi elaborata da Philippe Breton (1996). Secondo lo storico francese, infatti, il successo delle tesi di Wiener, Shannon e Weaver fu possibile solo grazie all’eredità culturale della Prima e della Seconda guerra mondiale. All’indomani delle guerre mondiali, apparve chiaro come gli esseri umani nella prima metà del Novecento avessero assunto delle scelte irrazionali e fortemente autodistruttive. Meglio sarebbe stato, era anche la convinzione dei cibernetici, che queste scelte fossero compiute da macchine in grado di comunicare tra loro in maniera logica e razionale. La comunicazione tra macchine, in altri termini, assunse un valore post-traumatico – ovvero la capacità di rassicurare dopo il trauma delle guerre – e l’idea di comunicazione in sé cominciò a essere percepita come uno strumento salvifico e liberatorio, un valore centrale nella rifondazione dell’organizzazione delle società uscite dal secondo conflitto mondiale. Nel 1948 Wiener stesso, nell’introduzione a La cibernetica (1953, p. 23), scrisse che «la società può essere compresa soltanto attraverso lo studio dei messaggi e dei mezzi di comunicazione relativi ad essi». Fu insomma grazie alla cibernetica e alla teoria dell’informazione che le scienze della comunicazione cominciarono a essere considerate come discipline fondamentali nell’alveo delle scienze umane e sociali. Nei decenni successivi, varie teorie e cornici interpretative misero a fuoco una serie di trasformazioni sociali e culturali che solo in seguito divennero caratterizzanti dell’odierna società digitale. Possiamo identificare almeno cinque differenti cornici teoriche o modelli di
  • 21. riferimento di nuove società emersi nella seconda metà del Novecento e che hanno in qualche modo aperto la strada all’idea di società digitale. La prima è quella di società dell’informazione, una definizione che mette in luce la centralità dell’informazione quale risorsa e motore più importante dello sviluppo politico, economico e culturale della società contemporanea. Questa prospettiva vedeva l’informazione come una forza irresistibile in grado di rivoluzionare interamente la società e in particolare il mercato del lavoro e l’economia (Dordick, Wang 1993; Richeri 2012). Tale concetto fu introdotto nel corso degli anni Sessanta del Novecento, ma la sua origine è incerta: tra i molti studiosi che hanno ispirato le tesi della società dell’informazione sono stati ricordati, ad esempio, il francese Gottmann, l’austriaco-statunitense Machlup, i giapponesi Umesao, Igarashi, Masuda e Hayashi. Il primo piano organico a prevedere la trasformazione della società in direzione dell’informazione è probabilmente quello contenuto in un documento del 1972 dello Japan Computer Usage Development Institute (1974): in esso viene dettagliatamente illustrato il piano del governo per raggiungere un «nuovo traguardo nazionale» rappresentato appunto dall’informatizzazione della società giapponese. Frank Webster (2006), forse uno dei maggiori studiosi del tema, ha elencato le principali caratteristiche che definiscono le società dell’informazione: tra queste, il fatto che le attività economiche siano guidate dall’informazione, che la maggior parte delle occupazioni si trovino in quel settore, che luoghi spazialmente disgiunti siano messi in connessione grazie alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che ci sia un aumento esponenziale dell’informazione a disposizione, che siano fiorite nuove tecnologie come i satelliti, i computer, la convergenza tra varie tecnologie di rete e la rapida crescita di internet. Tuttavia molte di queste caratteristiche, osserva Webster (2006, p. 21), possono essere criticate e ribaltate, dal momento che spesso si limitano a fornire parametri quantitativi, senza descrivere nel profondo la qualità di queste trasformazioni. Ad esempio, l’aumento percentuale delle mansioni legate all’informazione, della percentuale di prodotto interno lordo nazionale generato dall’informazione, oppure il presunto aumento esponenziale dell’informazione che possiamo consumare che impatto
  • 22. hanno sulle società? E tale impatto è misurabile con gli strumenti e i parametri attuali? Un altro dibattito vede contrapporsi posizioni che individuano nell’avvento di una società dell’informazione un salto di paradigma rispetto al passato, e studi che, invece, mettono enfasi sulle continuità storiche. Ai fini di questo libro è però interessante notare come l’emersione della società dell’informazione incroci la digitalizzazione almeno per due aspetti: da un lato, alcuni media digitali (computer in primis, ma anche internet e comunicazioni mobili) sono anche tecnologie caratterizzanti della società dell’informazione; dall’altro, vi è una comunanza di molte caratteristiche (e mitologie) che, nate nella società dell’informazione, sono poi diventate un riferimento dell’attuale società digitale, come vedremo nelle prossime righe. In altre parole, pur se data per scontata, l’idea di società dell’informazione è profondamente intrecciata al digitale, la cui recente diffusione ha contribuito ancor di più a porre il concetto di informazione (e di disinformazione) al centro della comprensione delle società contemporanee. Un’altra forma di società, spesso usata in stretta relazione con società dell’informazione, è la cosiddetta società postindustriale. Secondo la nota definizione del sociologo Daniel Bell (1973), nei primi anni Settanta con questa locuzione si iniziò a indicare il passaggio imminente da un’economia basata sulla produzione di beni a una incentrata sui servizi. Questo passaggio includeva la progressiva crescita di rilevanza dei lavoratori cognitivi, delle conoscenze teoriche e della cosiddetta «tecnologia intellettuale», che vedeva nel computer uno strumento indispensabile per l’organizzazione automatica di tutti gli aspetti della vita umana. Oltre all’onnipresenza dei computer, un punto di forte contatto tra società postindustriale e digitalizzazione è la centralità acquisita dalla dimensione immateriale e dai servizi, che sono possibili grazie alla creazione, trasferimento e conservazione di dati digitali. Anche l’idea di società postindustriale può essere criticata sotto vari punti di vista. Ad esempio, possiamo chiederci: perché un maggior numero di impiegati nel settore dell’informazione dovrebbero dar vita a una nuova era (post-) rispetto alla precedente? Oppure: perché Daniel Bell e altri teorici usarono i classici della sociologia di fine Ottocento per descrivere una società nata solo nel secondo Novecento? O meglio, come
  • 23. potevano questi studiosi avere gli strumenti per definire e comprendere il postindustriale, se quest’ultimo rappresenta davvero una cesura? Infine, è possibile definire in modo univoco il settore dei servizi come quello caratterizzante un’intera epoca, vista peraltro la sua disomogeneità? Ciò detto, ancora una volta è centrale evidenziare come le nuove tecnologie dell’informazione, digitali e non digitali, vennero viste come portatrici di nuove forme di società. Una terza visione di società è legata al macroconcetto della convergenza dei media, un’idea definita in modo autonomo all’interno del sistema dei media (Balbi 2017a), ma che interseca e rinforza in più punti quella di digitalizzazione. L’idea di convergenza dei media, anzitutto, ha un’origine di natura tecnologica. A partire dai tardi anni Settanta e primi anni Ottanta del Novecento, vari studiosi e professionisti dei media hanno previsto la progressiva sovrapposizione di settori mediali precedentemente distinti: in particolare informatica, telecomunicazioni e contenuti editoriali sarebbero inevitabilmente andati a convergere come conseguenza della digitalizzazione dei contenuti, dei dispositivi e delle reti di trasporto dell’informazione. Allo stesso modo sarebbero andati a convergere i media digitali e, progressivamente, le persone avrebbero usato un unico dispositivo digitale che avrebbe sussunto tutti i precedenti (era questa l’idea della cosiddetta überbox). Negli anni Novanta, questa idea di convergenza dei media venne esplicitata anche sul piano politico ed economico. Vari governi del mondo attuarono politiche di liberalizzazione dei mercati, permettendo così alle aziende di investire in settori diversi da quelli di appartenenza e quindi favorendo la convergenza tra imprese mediali appartenenti a diversi ambiti. Così, tra la seconda metà degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio si realizzarono una serie di fusioni tra grandi compagnie, come, ad esempio, quella tra America On Line e Time Warner oppure tra Viacom e CBS (in questi due casi aziende di telecomunicazioni, e quindi provider internet, si fusero con altre di intrattenimento). A partire dagli anni Duemila una nuova accezione di convergenza dei media ha cominciato a emergere, specialmente sotto la spinta delle teorie dello studioso dei media Henry Jenkins (2010): la cultura della convergenza ha portato a un progressivo fluire di prodotti mediali attraverso diverse piattaforme digitali, cosa che ha profondamente
  • 24. cambiato anche il consumo dei media contemporaneo, rendendolo più attivo e partecipativo. Anche se molti fenomeni di convergenza dei media precedono la digitalizzazione, come vari studi hanno messo in luce (O’Sullivan, Fortunati 2021), la crescita di interesse per questo fenomeno è stata amplificata dalla progressiva trasformazione digitale degli ultimi decenni. La quarta forma di società che incrocia il digitale è quella postmoderna. L’idea dell’emergere di una società postmoderna è andata definendosi a metà degli anni Ottanta, a partire dalle riflessioni di filosofi e sociologi soprattutto francesi, come Jean-François Lyotard (1981) e Jean Baudrillard (2008). Queste riflessioni individuavano una cesura, nella storia del Novecento, tra una modernità tradizionale e un’epoca postmoderna caratterizzata dal crollo di valori e di narrazioni sociali condivise e, dunque, incapace di fornire un’interpretazione unificante dell’esperienza sociale. Nel corso degli anni la definizione di postmodernità è andata caratterizzandosi soprattutto in termini culturali, diventando un’etichetta utile per mettere in rilievo alcuni fenomeni che, sotto differenti aspetti, sono stati associati anche alla rivoluzione digitale: tra questi, un indebolimento della distinzione tra reale e virtuale, da un lato, e la tendenza all’appropriazione e alla decontestualizzazione di riferimenti e simboli culturali appartenenti ad altre epoche o luoghi per attribuirgli nuovi significati, dall’altro. La quinta e ultima società cui ci riferiamo è la network society o «società delle reti»: una definizione portata alla ribalta a metà degli anni Novanta e che, pur avendo una semantica autonoma rispetto al digitale, è direttamente incentrata sulle trasformazioni prodotte dalla rete internet e quindi dalle comunicazioni digitali (Miconi 2013). La formulazione di tale espressione risale anch’essa alla fine degli anni Settanta del Novecento, ma la sua popolarizzazione si deve principalmente a due volumi scritti a metà degli anni Novanta da Jan van Dijk (1999) e Manuel Castells (2002). Con questa espressione i due sociologi hanno inteso fotografare una serie di trasformazioni avvenute nella seconda metà del Novecento e che, nuovamente, coinvolgono aspetti economici, lavorativi, spaziali, temporali e comunicativi. Queste trasformazioni hanno fatto delle reti la dimensione centrale e la forma predominante di organizzazione della modernità: lo ha sostenuto anche Pierre Musso
  • 25. (2007), che ha addirittura definito questa ideologia contemporanea della rete con il termine «retiologia». I media digitali sono centrali nella definizione della società delle reti non solo perché internet e la telefonia mobile sono basati su network di comunicazione, ma anche perché le reti rappresentano l’infrastruttura informativa su cui i processi culturali della network society sono basati. Internet, poi, è divenuta simbolo della società delle reti per antonomasia, imponendo il concetto stesso di rete come una delle metafore preponderanti della società digitale. La storia culturale dell’idea di digitalizzazione interseca dunque visioni della società e delle comunicazioni che si sviluppano almeno dagli anni Quaranta, per poi emergere prepotentemente all’attenzione generale a partire dagli anni Settanta e Ottanta del Novecento. Queste idee riconoscono nell’informazione, nell’economia immateriale, nella convergenza dei media, nella perdita di cornici culturali condivise e nell’esistenza stessa della rete i tratti caratteristici delle società avanzate. L’idea stessa di digitalizzare le comunicazioni e i contenuti culturali prese forma sulla scorta della crescente popolarità di un nuovo mezzo di comunicazione che, proprio in quei decenni, cominciava a uscire dai laboratori accademici, dai settori di ricerca e sviluppo delle grandi aziende e dai centri militari per farsi un medium popolare e portatore di una nuova cultura: il computer. Come vedremo nel Capitolo 2, fu il personal computer, in particolare, a favorire la diffusione dell’idea che la digitalizzazione avrebbe rappresentato la nuova frontiera rivoluzionaria del mondo della comunicazione, poi seguito da molti altri dispositivi tecnologici di cui parleremo nei vari capitoli e che rappresentano una sorta di estensione e progressiva concretizzazione dell’idea di digitale. Una piena riflessione di natura politica sulla digitalizzazione emerse tra gli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, quando, parallelamente in diversi paesi del mondo, i governi compresero la necessità di rinnovare radicalmente le proprie infrastrutture di telecomunicazione. Esse avrebbero dovuto trasportare sempre più dati (e non solo voce) e la loro digitalizzazione andava interpretata come un volano per l’economia e addirittura per lo sviluppo dell’intera società. Negli anni Novanta, si fece largo l’idea che la rete internet avrebbe trasformato la società (cfr. Capitolo 3). Dagli anni Duemila, la digitalizzazione è stata riconosciuta come un’idea data per scontata, una forza irresistibile che avrebbe
  • 26. trasformato nel profondo le società contemporanee. In termini quantitativi, ci sono pochi dubbi sull’esplosione e la diffusione di dispositivi digitali, specie se guardiamo alla telefonia mobile (cfr. Capitolo 4) e poi alla progressiva e non sempre vincente digitalizzazione dei mezzi di comunicazione tradizionali (cfr. Capitolo 5). Espressioni come «rivoluzione digitale» o, più di recente, «trasformazione digitale» e digital disruption racchiudono in slogan di grande fortuna l’idea che la digitalizzazione sia destinata a cambiare radicalmente il modo di vivere degli esseri umani. Abbiamo fin qui definito il digitale ed evidenziato nuovi modelli e forme sociali emersi nelle società contemporanee che si sono intrecciati con la digitalizzazione. È ora il momento di chiedersi come la digitalizzazione e, più nello specifico, i media digitali possano essere analizzati con un approccio storico e quali siano i vantaggi di uno sguardo attento alle traiettorie di lungo periodo. 1.3. Perché una prospettiva storica? Negli ultimi decenni, il ruolo di primo piano assunto dai media digitali ha generato una crescente attenzione di varie discipline delle scienze sociali e umanistiche. Ad esempio, studi sociologici hanno indagato l’impatto dei «nuovi media» sulle identità e i legami collettivi, concentrandosi tra gli altri su temi quali la privacy, i social network, le disuguaglianze, la celebrità. Approcci psicologici hanno messo maggiormente in rilievo l’impatto del digitale sui rapporti interpersonali, così come sulla mente e il cervello degli utenti (conducendo spesso a risultati contrastanti che vanno dal potenziamento dell’intelligenza all’incentivazione della stupidità collettiva). Le scienze economiche hanno guardato alla digitalizzazione, e più in generale all’informatizzazione, come a una dirompente forza di cambiamento delle pratiche produttive e della tradizionale relazione tra domanda e offerta di beni e servizi (non è un caso che la cosiddetta new economy sia sostanzialmente divenuta un sinonimo di economia digitale). Studi politologici hanno visto nella rete internet e nelle reti sociali nuovi luoghi di aggregazione e di discussione dei valori politici condivisivi, oscillando anch’essi tra l’entusiasmo per nuove forme di partecipazione politica (ad esempio, la democrazia diretta
  • 27. digitale) e la preoccupazione per il controllo di stampo totalitario permesso dalle tecnologie digitali. Ci sarebbero moltissimi altri esempi di discipline che hanno messo la digitalizzazione al centro della loro riflessione recente. Riferendoci al solo contesto italiano, negli ultimi anni si sono moltiplicati sia i manuali di scienze sociali espressamente dedicati ai media digitali (Arvidsson, Delfanti 2013; Bennato 2011; Boccia Artieri 2012; Miconi 2013; Paccagnella, Vellar 2016; Stella et al. 2014; Tosoni 2011), sia approfondimenti specifici sul loro ruolo culturale e simbolico, come, ad esempio, nell’analisi della già citata serie TV Black Mirror (Bennato 2018; Garofalo 2017; Tirino, Tramontana 2018). Questo libro intende affrontare lo studio dei media digitali da un versante perlopiù trascurato: quello della storia. La storia dei media digitali è stata fino ad anni recenti ben poco considerata, sia perché i nuovi media sono un fenomeno apparentemente recente (anche se lo stesso termine «nuovi media» è stato usato almeno a partire dagli anni Sessanta e Settanta in riferimento ai satelliti, alle videocamere e ad altre tecnologie della comunicazione), sia perché essi sembrano cambiare così in fretta da non permettere uno sguardo distaccato e di lungo periodo come quello storico, sia infine perché il discorso comune sui media è appiattito su una descrizione «rivoluzionaria» e su una rottura drastica con il passato. Media digitali intende invece seguire e sviluppare ulteriormente l’agenda di ricerca identificata da alcuni storici dei media come Lisa Gitelman (2006), Jonathan Sterne (2012), Benjamin Peters (2009), Dave Park, Nick Jankowski e Steve Jones (2011), Jussi Parikka (2019) e molti altri. Studiare i media digitali con una prospettiva storica significa adottare uno sguardo di lungo periodo, in grado di bilanciare cambiamenti e continuità che si realizzano nel corso del tempo, prestando attenzione a forme di comunicazione digitale che sono oggi scomparse ma che in passato erano viste come il futuro obbligato. Non proporremo un’analisi storica che vuole ordinare cronologicamente gli eventi in una successione di date e invenzioni rilevanti, ma una storia in grado di interrogarsi – anche con l’ausilio di altre discipline quali la political economy of communication, gli studi sociali sulla scienza e tecnologia e gli studi culturali – su alcuni snodi fondamentali della digitalizzazione. A interessarci saranno in primis la storia delle idee e delle azioni di governi e aziende private che abbiano
  • 28. impattato sullo sviluppo del digitale. Per fare solo tre esempi che troverete nel volume, ci soffermeremo sulle direttive politiche che hanno guidato le strutture e i significati della rete internet in diversi contesti, sul sistema GSM applicato alla telefonia mobile in Europa e poi via via in molti paesi del mondo, infine sui formati come l’MP3 poi divenuti popolari nell’universo digitale. Al tempo stesso, nel libro sarà dedicato ampio spazio al ruolo che alcune aziende digitali hanno giocato negli ultimi decenni: Amazon, Google, Facebook, Alibaba, Tencent, Samsung, Apple e molte altre saranno analizzate nella loro rilevanza storica e «mitologica», prestando particolare attenzione al loro status simbolico nella cosiddetta rivoluzione digitale. Accanto alla dimensione politico-economica, ce ne sarà una propriamente tecnologica. Come già ricordato, infatti, il digitale ha imposto una nuova materialità fatta di nuovi strumenti, oggetti e reti (Gillespie et al. 2014; Magaudda 2020). La materialità dei media è oggi un tema centrale negli studi sui flussi di produzione, conservazione, distribuzione e consumo dei media digitali: dai server che ospitano i dati in cloud, che vengono conservati in centri e luoghi ben identificabili (Hu 2015), ai cavi sottomarini attraverso cui è veicolato il 90% del traffico internazionale di internet (Parks, Starosielski 2015; Starosielski 2015); dall’obsolescenza di oggetti digitali, che passano rapidamente di moda e vengono sostituiti e riciclati con frequenza (Tischleder, Wasserman 2015), all’inquinamento generato proprio da quelle tecnologie digitali che sono state spesso raccontate come pulite ed ecocompatibili (Gabrys 2011; Cubitt 2017). Il ruolo della dimensione materiale dei media digitali sarà un aspetto ricorrente anche in questo libro e, in varie parti, si porrà attenzione alla vita sociale di differenti oggetti e infrastrutture come gli hub che ospitano i centri di raccolta dati, i cavi delle reti, il personal computer e tutti i dispositivi oggi onnipresenti come smartphone, tablet, lettori MP3, e molti altri. Una terza prospettiva storica del libro ha a che fare con gli utenti e la riappropriazione culturale dei media digitali in diverse società. È una dimensione attenta sia al fatto che i media digitali siano un fenomeno globale, sia alle modalità con cui spesso essi vengono riadattati dagli utenti alle proprie esigenze. Nei vari capitoli di questo libro, si apriranno piccole storie alternative dell’appropriazione dei vari media digitali e riferite a
  • 29. regioni del mondo considerate come «subalterne» al modello statunitense o europeo. L’ascesa del modello multilaterale di governance globale di internet sostenuto da Cina e Russia contro il modello multistakeholder guidato dagli Stati Uniti, l’uso del telefono mobile in alcuni paesi africani o ancora il predominio delle aziende giapponesi nel mercato delle fotocamere digitali sono solo alcuni esempi di nuovi trend in grado di sovvertire le logiche di potere classiche e di far emergere tensioni e differenze regionali nelle pratiche culturali legate al digitale. Più in generale, il contributo di questa prospettiva è quello di spingerci a considerare la storia dei media digitali in un’ottica veramente globale, dove globale non significa che verranno approfondite le storie della digitalizzazione in tutte le regioni del mondo, ma si traduce invece in un invito a de-occidentalizzare l’interpretazione oggi dominante delle conseguenze dei media digitali nel mondo sociale. Ma l’approccio storico non esaurisce qui i suoi effetti che riteniamo benevoli. Più in generale, infatti, guardare storicamente ai media digitali significa capire meglio cosa sia veramente nuovo rispetto al recente passato e quali siano le conseguenze profonde e durature della digitalizzazione. Nel fare questo, l’approccio storico contribuisce a contrastare, o quantomeno mitigare, tre derive ricorrenti nelle scienze sociali e umane applicate ai media (e in particolare a oggetti in costante cambiamento come i media digitali): il nuovismo, l’oscillazione tra rivoluzione e immobilismo e, infine, l’errore teleologico. Analizziamole più nello specifico perché ci aiuteranno a illustrare il nostro modo di fare e intendere la storia dei media digitali. ► Nuovismo I media digitali sono stati spesso studiati con un atteggiamento «nuovista», che tende a sopravvalutare ogni nuovo mezzo di comunicazione, a focalizzare l’attenzione e le ricerche solo sugli ultimi ritrovati tecnologici e, addirittura, a giudicare i mezzi del passato come inevitabilmente peggiori o meno evoluti. Il nuovismo, in tal senso, può essere ritenuto un corollario del presentismo o del crono-centrismo, due termini molto utilizzati dagli storici e che indicano appunto la tirannia che il tempo presente esercita sulla nostra capacità di giudizio e di mettere in dimensione storica gli avvenimenti. Nuovisti, presentisti e crono- centristi ritengono che il presente in cui si trovano a vivere (e a scrivere)
  • 30. sia un momento senza precedenti e quindi con caratteristiche uniche e inedite rispetto al passato. Inutile tentare parallelismi con epoche storiche e strumenti tecnologici di altre ere. I media digitali sono spesso stati interpretati e studiati con un’attitudine nuovista, che ne offusca la piena comprensione per almeno tre motivi. Innanzitutto, il mezzo «più recente» è solo un concetto temporale, temporaneo e storico, dal momento che ciò che oggi appare come la punta dell’innovazione digitale (il nuovo), domani sarà già considerato qualcosa di sorpassato. In secondo luogo, non esiste un processo lineare che vada da forme di comunicazione povere e «stupide» a forme ricche e «intelligenti» (smart, non a caso, è uno dei prefissi più usati nei media digitali oggi). Come hanno sottolineato ancora Lisa Gitelman e Geoffrey B. Pingree (2003), il medium più recente non è sempre il migliore e le storie dei media sono spesso un processo costituito da prove ed errori, forme di metabolizzazione e di rifiuto da parte di potenziali utenti. Infine, per valutare se davvero i media digitali abbiano fatto entrare l’umanità in un nuovo paradigma comunicativo senza precedenti storici occorrerebbe conoscere a fondo la storia della comunicazione e rintracciare eventuali parallelismi, non tanto a livello tecnologico, quanto a livello concettuale. Non è infatti la prima volta nella storia in cui si discute, per citare alcuni presunti effetti dei media digitali, di notizie false, echo chambers, attivismo mediatico, solitudine, amatorialità, telepresenza, intelligenza artificiale e molti altri concetti (Balbi et al. 2021). Rintracciare la traiettoria storica di questi e altri concetti all’apparenza nati come digitali è indispensabile per capirne l’affermazione contemporanea, i significati che si sono stratificati nel corso del tempo e, appunto, per evitare di cadere in un approccio tutto teso a esaltare le novità. Ma, allora, come può un approccio storico contrastare il cosiddetto nuovismo? Anzitutto, i media nello stato in cui si presentano oggi sono frutto di un processo di selezione storica (Stöber 2004). Ad esempio, internet, come verrà messo in luce nel Capitolo 3, è cambiata molte volte nel corso della sua storia: da rete utile a scopi militari a strumento di condivisione della ricerca scientifica, da idea controculturale di comunicazione libera e illimitata a deposito del sapere mondiale con il WWW, infine da immenso luogo del commercio virtuale a rete sociale
  • 31. entrata nelle abitudini quotidiane di miliardi di persone. Tutte queste fasi della storia di internet hanno lasciato alcune influenze formative, vale a dire che alcune logiche della rete pensate negli anni Cinquanta o Sessanta del Novecento non sono scomparse, ma anzi continuano ancora oggi a influenzare il suo funzionamento. In altri termini, anche per chi volesse studiare i media digitali solo nella loro forma attuale, sarebbe impossibile evitare la stratificazione storica. La storia ci aiuta inoltre a combattere il nuovismo anche perché mette in luce il forte legame tra vecchi e nuovi mezzi di comunicazione: i nuovi media emergono sempre imitando o comunque ispirandosi ai vecchi, i quali a loro volta subiscono un processo di rimediazione, riconfigurazione e di spostamento di senso dovuto all’avvento del nuovo (Balbi 2013; Bolter, Grusin 1999; Natale 2016). In un determinato periodo storico, in altri termini, i diversi media sono tutti interrelati e s’influenzano tra loro secondo una logica intermediale o di sistema dei media (Dahl 1994; Ortoleva 1995; su intermedialità e digitale cfr. Müller 2010). Questo elemento di intermedialità sarà preponderante in tutto il volume: considerando, ad esempio, la storia della telefonia mobile, essa non può essere del tutto compresa se non si considerano le storie della telefonia fissa, della telegrafia senza fili, del computer e della rete internet, della fotografia e della fonografia intesa come conservazione del suono, e molte altre storie dei media. Insomma, i mezzi di comunicazione – e a maggior ragione quelli digitali, in cui i processi di convergenza hanno fatto collassare diverse caratteristiche che precedentemente erano separate – non possono essere compresi se studiati singolarmente, mentre le loro dimensioni economiche, tecniche, socioculturali e addirittura antropologiche emergono solo guardando alla più vasta ecologia mediale nella quale sono immersi. È questa una delle maggiori novità di questo volume: i vari media digitali sono infatti studiati in costante rapporto con gli altri media passati e presenti e, talvolta, anche con altre tecnologie non di comunicazione. Di conseguenza, l’idea di contrapporre rigidamente media vecchi e nuovi e considerare questi ultimi come i migliori, i più evoluti e «naturalmente vincenti» rischia di non farci comprendere molte caratteristiche rilevanti della digitalizzazione. ► Rivoluzionismo o immobilismo?
  • 32. L’approccio storico aiuta anche a sbarazzarsi di una seconda deriva molto comune e che impedisce di capire cosa realmente sia cambiato nel corso del tempo con la digitalizzazione: è una deriva duplice che, da un lato, si manifesta in un approccio rivoluzionario, che insiste nel riconoscere nei media digitali una continua e radicale rivoluzione, in nome dell’elevato grado di innovazione tecnologica; dall’altro, si manifesta in una visione opposta dell’immobilismo, che sconfessa il carattere dirompente del digitale, interpretandolo come la continua riproposizione di precedenti e inscalfibili schemi. La prima idea, tipica di letture appiattite sul presente, sottolinea la perpetua instabilità del digitale e la rivoluzione permanente cui sottopone i soggetti che utilizzano i mezzi digitali. Il secondo approccio può essere riassunto dal motto «niente cambia davvero» («nothing really changes», Cavanagh 2007, p. 6) e, abbracciato principalmente dagli storici, si propone di sottolineare il fatto che le continuità sono state più importanti delle rotture anche nel campo dei media digitali. Queste due forme di determinismo sono entrambe fuorvianti per studiare i media digitali e la digitalizzazione. L’approccio rivoluzionario, come già ricordato, deriva dal fatto che i media digitali siano spesso descritti come differenti da tutte le forme di comunicazione che li hanno preceduti: infinitamente più veloci, maneggevoli, evoluti. La digitalizzazione ha assunto fin dal principio un significato «mitico» di rivoluzione permanente, di cesura netta rispetto a un passato analogico, di fenomeno paradigmatico in grado di veicolare una nuova era di prosperità economica, di nuove conoscenze e di possibilità di accesso (Balbi, in corso di stampa). Questa enfasi sulla natura rivoluzionaria dei media digitali emerge in svariate occasioni. Anzitutto, il riferimento alla rivoluzione è molto popolare nel mondo della ricerca scientifica, come si può constatare dalle decine di libri e di articoli scientifici che contengono nel titolo rivoluzione digitale o espressioni simili in varie lingue. Inoltre, tale espressione è stata impiegata in forma retorica da esponenti politici per giustificare le loro decisioni, da magnati di imprese private per sostenere i loro prodotti, da esperti e tecnici per giustificare gli investimenti nel settore digitale. Anche in conseguenza di queste pressioni economico-politiche verso la digitalizzazione, specie a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, il
  • 33. tema della rivoluzione digitale è diventato così un argomento ricorrente e sempre più presente nel dibattito pubblico. Non stiamo dicendo che la storia non contempli l’idea del cambiamento, anche quella di un cambiamento radicale; al contrario, il cambiamento è forse la «dimensione centrale della storia dei media» (Poster 2007, p. 46). La storia in effetti è, forse, la disciplina negli studi sulla comunicazione più adatta ad assumere una prospettiva dinamica, in cui i media sono visti in costante evoluzione – senza accezioni positive o negative del termine – in periodi di tempo brevi oppure lunghi (Brügger, Kolstrup 2002). Di conseguenza, il cambiamento è una dimensione cruciale della storia dei media e soprattutto della storia dei media digitali perché aiuta gli studiosi a concepire le tecnologie come oggetti instabili, di transizione, in parte vecchi e in parte nuovi (Thorburn, Jenkins 2003; Uricchio 2004; Peters 2009). Ma di quali cambiamenti e rivoluzioni e di quale instabilità stiamo parlando? Secondo un’efficace metafora dello storico Fernand Braudel (1982), il movimento del mare è costituito da profondità abissali quasi statiche, correnti sottomarine che determinano un moto profondo e increspature sulla superficie del mare che sono costanti. La ricerca storica, specie quella introdotta dalla scuola delle Annales, deve prendere in considerazione tutte e tre queste correnti e privilegiare la lentezza e la longue durée, dove si realizzano i mutamenti sociali più profondi e significativi. Anche se la lunga durata dei media digitali potrebbe sembrare piuttosto breve, questo è un altro dei benefici che la storia può portare agli studi sui media digitali: far comprendere che il ritmo frenetico e quotidiano dell’innovazione digitale non corrisponde al ritmo lento e incerto dell’assorbimento, della metabolizzazione, dell’addomesticamento socioculturale di quelle stesse tecnologie. Capire che i media digitali non cambiano gli esseri umani ogni giorno, ma che la loro rilevanza deve essere compresa in una prospettiva di lungo termine, non significa volere studiare questi mezzi in maniera statica. Si tratta di una tendenza opposta, ma ugualmente rischiosa: leggere i media digitali esattamente come la continuazione di quelli analogici, come se la digitalizzazione non avesse contribuito a cambiare le società contemporanee, il modo in cui gli esseri umani comunicano e non sia nata da inedite istanze sociali. Questo è ciò a cui ci riferiamo quando
  • 34. parliamo di immobilismo, una forma di determinismo che cela un rischio cruciale per gli storici dei media: l’anacronismo. Si tratta, in altre parole, di attribuire ai media digitali caratteristiche che non avrebbero potuto esistere nel tempo passato: ad esempio, è storicamente errato cercare progenitori dello smartphone o del personal computer in epoche passate, semplicemente perché questi mezzi così come noi li conosciamo e usiamo sono la conseguenza di trasformazioni, abitudini e vincoli sociali e tecnologici emersi nel dopoguerra. Ciò induce spesso a ricreare genealogie forzate o a trovare improbabili antenati delle moderne tecnologie di comunicazione, presi dalla foga di sottolineare che nulla è davvero cambiato. Da questa prospettiva il telegrafo senza fili avrebbe lo stesso ruolo del telefono mobile, la macchina da scrivere quello della tastiera del computer, la rete telefonica quello della rete internet. Ci sono evidentemente continuità di usi e di pensiero nei tre esempi citati (ed emergeranno nei Capitoli 2, 3 e 4), ma insistere sull’esistenza di una rigida genealogia per dimostrare che, in fondo, tutto era già stato previsto e immaginato è del tutto fuorviante, perché ogni medium può essere compreso solo calandolo pienamente nel contesto in cui è stato creato e in cui viene usato quotidianamente. Questo determinismo influenza invece alcuni storici dei media che cercano di confrontare mezzi di comunicazione del passato e del presente, rimarcando le somiglianze in misura maggiore rispetto alle discontinuità. Le realtà politiche, economiche e culturali in cui sono emersi i media digitali contemporanei sono diverse da quelle dell’Ottocento o del Novecento e, allo stesso modo, i media digitali sono diversi da quelli analogici: si pensi al potenziale di contatto continuo e perpetuo, alla quantità di informazioni libere e accessibili, alla dimensione individuale dei media digitali, tra le altre questioni. Lo scopo di questo libro è dunque anche quello di tenere insieme gli aspetti di continuità e quelli che coinvolgono il cambiamento, adottando una prospettiva in cui questi due concetti estremi non siano alternativi e non si escludano a vicenda. La tensione tra i due ovviamente esiste. Ma la convinzione che vi sia un passato analogico e un presente (e sempre più un futuro) digitale è sostituita in questo libro dal riconoscimento dell’influenza reciproca tra vecchi e nuovi sistemi mediali, fino ad arrivare alla sostanziale indistinguibilità tra i due: come mostrerà il Capitolo 5, le
  • 35. infinite possibilità di acquisto fornite da siti come Amazon stimolano le vendite di libri cartacei, piattaforme come Flickr, Instagram e altre sono un’opportunità per giocare con il passato analogico della fotografia e la rinnovata popolarità del vinile indica la resistenza e la reinvenzione di abitudini di consumo apparentemente antiquate. Il vecchio si rinnova e il nuovo invecchia rapidamente. ► Errore teleologico Terza e ultima deriva presente negli studi umanistici e sociali dei media digitali, che la storia può aiutare a contrastare, è quella che possiamo definire come l’errore teleologico, ovvero l’idea secondo la quale l’evoluzione tecnologica segua una traiettoria lineare e progressiva, cosicché il digitale costituisca un movimento in avanti dirompente, inarrestabile e incontrovertibile. Come ha sostenuto Bruno Latour (1995), gli storici della scienza e della tecnologia dovrebbero adottare un approccio «simmetrico», dedicando la medesima attenzione ai media «vincenti» e a quelli che invece si sono persi o non si sono integrati nell’uso e contrastando l’idea secondo cui i processi di innovazione siano lineari. Un processo storicamente lineare prevede che «il passato [sia] spiegato come una sorta di preparazione al presente. Il presente è prefigurato nel passato e ne è il culmine» (Lister et al. 2009, p. 54). Prendiamo, ad esempio, la narrazione che sostiene come gli smartphone siano il punto finale, o meglio, il culmine di un processo che è iniziato con la telefonia wireless di Marconi e, inevitabilmente, in modo lineare e senza problemi, si è concluso con iPhone. Questo è un approccio teleologico del tutto fuorviante: non esiste un fine verso cui la storia dei media digitali, così come qualsiasi altra storia, deve tendere; non esiste un percorso lineare e incontrastabile che fa giungere ai media che usiamo oggi e che, vale la pena ricordarlo, forse non useremo domani; ci sono molti snodi in cui sarebbe potuta andare diversamente. Il fatto che la storia e lo sviluppo di specifici media «sarebbe potuta andare altrimenti» (Parikka 2019, p. 41) è uno dei mantra di una disciplina affine alla storia dei media: l’archeologia dei media. La traiettoria evolutiva dei media avrebbe potuto essere differente rispetto alle caratteristiche e alle forme con cui li conosciamo oggi e, per questa ragione, i mezzi di comunicazione vanno studiati anche nelle forme e nelle idee cristallizzate in uno specifico momento del
  • 36. passato. Traslata verso gli interessi del nostro libro, questa sensibilità «archeologica» ci aiuta a comprendere meglio il ruolo di quelle forme tecnologiche ormai estinte, abbandonate o fallite, ma che tuttavia hanno incarnato, nel momento della loro iniziale diffusione, particolari visioni del ruolo del digitale all’interno delle relazioni e nei contesti sociali (Magaudda, Balbi 2018). E la storia del digitale è piena di soluzioni sconfitte e scartate, così come lo era anche la storia dei media analogici o tradizionali. La mortalità dei media digitali è elevata e gli errori di valutazione da parte dei governi e delle aziende hanno spesso costituito più la regola che l’eccezione, come nel caso del Digital Audio Broadcasting per la radio. In altri casi, alcune tecnologie «del futuro» sono state rapidamente dimenticate o superate come è avvenuto per il CD- ROM. Altri media digitali nati con uno scopo sono stati successivamente riadattati a particolari esigenze politiche, economiche o culturali come risulta evidente nella storia di internet. Ecco, dunque, l’ultima fondamentale rilevanza di un approccio storico per capire il processo di digitalizzazione: la storia mette in luce la fragilità, la reversibilità delle traiettorie dell’innovazione, che ci appare spesso come una forza lineare e univoca, e fa invece affiorare quelle traiettorie interrotte che potranno magari riemergere in futuro e che riflettono comunque idee e pratiche legittime del passato. L’utilità di uno specifico approccio storico potrebbe in sostanza essere proprio questa: la spinta a «normalizzare» il nostro rapporto con i media digitali, epurarlo da cliché, facili entusiasmi e mitologie fallaci, permettendo così di osservarlo in maniera più disincantata e oggettiva.
  • 37. 2. Il computer 2.1. L’origine di tutti i dispositivi digitali Il computer può legittimamente essere considerato l’origine di tutti i dispositivi che hanno affollato, negli ultimi decenni, il mondo della comunicazione digitale. Soprattutto nella sua incarnazione di personal computer (PC), diffusosi a partire dagli anni Ottanta e Novanta del Novecento, il computer è stato il primo strumento digitale a essere adottato in modo capillare in differenti sfere sociali, a venire usato anche dalle persone comuni, a essere identificato con l’accesso stesso alla rete internet. Oggigiorno la traiettoria sociale dei computer ha oramai raggiunto una fase di piena maturità. Dopo che, all’inizio degli anni Dieci del Duemila, i PC (fissi e portatili) hanno raggiunto un picco in termini di vendite su scala mondiale, la loro diffusione ha iniziato a declinare: i PC venduti nel mondo sono infatti passati dal record storico di 365 milioni nel 2012 ai 275 milioni nel 2020. Come vedremo, tale ridimensionamento non è certo il risultato di una perdita di importanza dei computer nella società, ma semmai, all’opposto, la conseguenza della moltiplicazione di differenti tipologie di dispositivi digitali, maggiormente incentrati sul paradigma della mobilità, come i tablet e soprattutto gli smartphone, le cui vendite tra il 2012 e il 2020 sono quasi raddoppiate, passando da 680 milioni a 1,3 miliardi di unità. Insomma, negli anni Dieci del Duemila per un verso i computer nella loro forma assunta intorno alla fine degli anni Settanta del Novecento (unità separate, dotate di schermo e tastiera e collegabili a varie periferiche, da usare tendenzialmente seduti a una scrivania) hanno smesso di essere i principali strumenti digitali in circolazione, mentre per un altro verso si è assistito alla diffusione di una miriade di differenti dispositivi (dagli smartphone agli smartwatch, dagli elettrodomestici
  • 38. intelligenti alle console per giocare). Come vedremo, dunque, per descrivere l’attuale periodo di vita sociale del computer abbiamo scelto la definizione di computer onnipresenti, ovvero una fase storica in cui siamo circondati dai computer, dalle forme, funzioni e caratteristiche differenti, ma comunque accomunati, tra le altre cose, dal condividere una medesima storia ed evoluzione. Infatti, sebbene oggigiorno viviamo in un ambiente mediale sempre più caratterizzato dalla presenza di numerosi dispositivi mobili e individuali, la storia che inizia con i primi calcolatori e arriva a oggi è in grado di aiutarci a comprendere in che modo i dispositivi digitali si sono fatti lentamente strada nel contesto sociale. Si tratta di una storia nel corso della quale possiamo riconoscere un costante cambiamento – a volte anche abbastanza radicale – degli ambiti sociali in cui i computer sono stati utilizzati, del profilo sociale dei loro utenti di riferimento, delle attività in cui essi hanno rivestito un particolare ruolo, nonché dei significati culturali che a essi sono stati associati. Il passato dei computer s’intreccia indissolubilmente con la storia stessa della diffusione dell’informatica, di internet e della società digitale. Possiamo allora schematizzare l’evoluzione sociotecnica del computer in quattro differenti fasi che si sono succedute e che possiamo identificare in base ad alcune tendenze dominanti assunte dai computer nel contesto sociale. La prima fase è quella dei calcolatori meccanici, una sorta di «preistoria» del computer, che abbraccia un periodo lungo diversi millenni, durante i quali le necessità di calcolare e automatizzare alcuni processi e attività della vita quotidiana hanno lentamente preso forma, dietro varie spinte sociali, culturali ed economiche. La seconda fase della storia del computer riguarda invece la nascita dei primi computer digitali veri e propri, in un periodo compreso tra gli anni Quaranta e gli anni Settanta del Novecento, caratterizzato dall’affermazione dei grandi computer prima per finalità militari e poi per le applicazioni scientifiche e in ambito professionale; è in questo contesto che, peraltro, vede la luce il progetto ARPANET e si iniziano a mettere le basi di internet (cfr. Capitolo 3). La terza fase, che prende avvio a metà degli anni Settanta, è quella del personal computer di massa, in cui il computer smette di essere unicamente uno strumento lavorativo, usato prevalentemente all’interno di grandi
  • 39. Other documents randomly have different content
  • 40. Het voormalig Casteel of Slot. »Dat alhier een kasteel of slot geweest is,” schrijft de heer Van Kinschot op bladz. 24, »getuigen vele schrijvers, en is ook zeker, doch de tijd, w a n n e e r en d o o r wien het gebouwd werd, wordt nergens gevonden.” Ook wij nemen zulks aan, doch brengen met dit bedoelde kasteel niet in verband, gelijk voornoemde schrijver, de regelen van den vaderlandschen historicus Matthijs van der Houven die gewaagt, »dat in ’t kasteleinschap van Oudewater op den IJssel het oude kasteel plag te liggen, doch, dat het in zijn tijd niet meer in128 wezen was.”129 Deze regelen toch hebben betrekking op het kasteel te Vliet in Roozendaal bij Oudewater dat op den IJssel ligt, en waarvan de ruïne nog bestaat.130 Wij begrijpen te minder, hoe van Kinschot deze regelen van Van der Houven op het Slot van Oudewater kon toepassen, daar hij reeds op de volgende bladzijde (25) weder omtrent hare ligging—en nu teregt—schrijft: Dit Slot heeft eertyds gestaan aan de Noort-Oostzyde van de Stad, by en omtrent dezelfde plaats, alwaar nu de Linschoter-Poort is gelegen. De Regeering verzogt zyne Keyzerlyke Majesteit, als Graaf van Holland, in het jaar 1533, om dit Slot tot eene Poort te maaken, het geen zy verwierven, onder deze verbintenisse, van dat zy ten allen tyden op de eerste aanmaning
  • 41. van zyn Keyzerlyke Majesteit of zyne nakomelingen Graaven van Holland, die Poort van Linschoten op haare kosten weder tot een Slot herstellen zoude, waarvan de verbindenis Luidt, als volgt: »Wy Burgemeesteren, Schepenen, ende Raiden der Steede van Oudewater, doen te weeten, ende bekennen mits deezen onsen Brieve, Dat Alsoe die Keys: Majt . belieft heeft tot onsen ernstigen vervolghe ende Sollicitacie te accordeeren. Dat die Poorte van Linschoten, in voir tyden gemaict tot een Stercte of Slot, weder toegemaect sal worden tot een Poirte van de voirsz: Steede, gelyk die in voertyden plach te syne, mits dat wy ’t selve becostighen souden, ende aan syn Majt . reserveerende ’t Logys van dezelve Poorte voir syne officier off andertsins, ende mits oick, dat syne Majt . die voirsz: Poirte weder sal mogen maken tot een stercte als ’t zyne Majt . of zyne nakomelingen Graaven van Hollandt believen sall, ende van als: geve onse behoirlicke brieven, wy dancken zyne Majt . van desen voirsz: Consente ende Gracie, hebben nair voorgaande Communicatie gehouden mitten Rycdom ende Vroetschap derzelver Steede, beloeft hebben ende beloeven mits deesen, dat wy der voirsz: Poirte sullen doen repareeren ende maken mit dueren, valle bruggen, ameyden ende anders ter ordonnantie van mynen Heere, Heeren Anthonis van Lalaing, Grave van Hoochstraaten heer van Montigm: en Stadthouder Gnrael: der voirsz. Landen van Hollandt of zyne E: Gecommitteerde als van nooden weesen sal ome: daar duer vuyt en: in der voirsz: Stede te ryden en passeeren: behouden den Keys: majt . ’t Logys van den voirsz, Poirte tot zyne Majt . beliefte, ende diezelve Poirte zyn, Keys: Majt . of Nakomelingen te laten volgen, ome: dair van een Stercte weder gemaict te werden als wy dair toe van syne Majt . of syne Erffgenaamen wegen vermaant sullen worden, sonder daar tegens te doen in eenigerleie manieren. »Des ’t oerconden, hebben Wij Burgemeesteren, scepenen en Raeden der Voersz. steede, onser steede zegel hier aangehangen den achtsten dach van April in ’t jaer ons Heeren duijsend vijf honderd drie en dertich na scrijven der kerk van Utrecht ende ons voorsz. steede, ende stonde onder geteekend R. X. Speijert.”
  • 42. Men zou wanen, dat het vermaken van het kasteel tot poort, ingevolge deze verbindtenis, spoedig zal hebben plaats gehad, wij kunnen dit echter m e t z e k e r h e i d tegen schrijven. Immers ziet men dit ten duidelijkste, in de resolutien van den magistraat en »uit zekere oude lijst van gedane bekendmakingen, ter secretare van Oudewater berustende,”131 waaruit blijkt, dat de Baljuw den 14 April des jaars 1585, eerst heeft doen bekend maken, d a t h i j d e s a n d e r e n d a e g s t e n t h i e n u u r e n v o o r d e m i d d a g w i l d e b e s t e d e n h e t a f b r e k e n v a n ’ t k a s t e e l b i j d e L i n s c h o t e r p o o r t b i j p e r s e e l e n , b a e c k e n o m d e d e r d e n s t e e n o f t e a n d e r s i n t s , a l l e s a c h t e r v o l g e n d e d e C o n d i t i e n e n Vo o r w a e r d e n , d i e m e n a l s d a n o p l e e s e n s o u d e , met bijvoeging, d a t d e n g e n e n , d i e i n e e n i g w e r k g a d i n g h a d , t e n v o o r s z . t i j d e k o o m e n s o u d e b i j d e L i n s c h o t e r p o o r t e n d e b e d i n g e n g o e d l o o n . Alzoo eerst 52 jaren na de meergemelde verbindtenis werd dit kasteel geamoveerd132. Zooals reeds werd beschreven, ontbreken zoowel de naam van den stichter als de tijdsaanduiding van de stichting van dit kasteel; een geloofwaardig persoon verzekerde ons echter, dat hij ergens had aangetroffen, dat er in zeer oude tijden alhier woonachtig geweest waren de vrijheeren van Oudewater dat nu zoo zijnde, zou er ten minste over den naam des stichters eenig meerder licht verspreid worden. Hoe het echter zij, ten jare 1527 vinden wij vermeld133 dat kastelein van Oudewater was Jonkheer Jan van Vliet, schildknape die als »Castelein van het sloth van Oudewater aangesteld werd den 3 November 1519 by Kaerle, by der Gratiën Godts koninck van Castilien van Leons etc. volgens Commissie geregistreerd, en te vinden, in ’ t b l a a u w e r u i g e r e g i s t e r 134 fol. 34 en in 1555 wordt als zoodanig gewag gemaakt, van Jonkheer Pieter van Cats, maarschalk van Montfoort. Aangezien nu beiden tevens bailluwen etc. van Oudewater waren, en beiden in hetzelve zijn woonachtig geweest135 zoo komt het ons voor, dat het geslacht der vrijheeren van Oudewater uitgestorven zijnde, later het slot van Oudewater tot woning zal
  • 43. aangewezen zijn, voor de Baljuwen van Oudewater die toen tevens aangesteld werden als Castelein.136 Later toen ook de Linschoter poort in 1857 werd verbroken, die zooals wij weten van slot tot poort werd gemaakt, ja toen viel het ook aan de zigtbaar geworden zware muren en de groote roode steenen, waarvan die waren opgetrokken, gemakkelijk te bepalen, dat de sloopers daar te doen hadden, met muren van het oude slot of kasteel!
  • 44. Het voormalig Arsenaal te Oudewater. Het gast- en proveniershuis beschrijvende, zagen wij dat dit gebouw door de Gecommitteerde Raden van Holland en West-Vriesland aangekocht zijnde, omstreeks 1780 verbroken en in 1786 aangelegd werd, tot een Artillerie plein waarop een zeer schoon Arsenaal of bergplaats voor ammunitie in hetzelfde jaar 1786 getimmerd is. Niet langer dan 28 jaren heeft dit Arsenaal in aanzijn mogen wezen, daar het ten jare 1814 verbroken werd en men het terrein Anno 1817 tot plantage heeft aangelegd. In 1822 dit plein aan de stad gekomen zijnde, heeft men dezen grond in 1856 in erfpacht gegeven, waarna later spoedig, daarop een aantal huizen voor min gegoeden gebouwd zijn.
  • 45. ’s Lands voormalig Magazijn van Oorlog. Dit fraai gebouw, stond eertijds aan de zuidzijde van de stad, in de straat genaamd het klooster bij het weeshuis. Het had eene lengte van 138 bij een breedte van 22 voeten137. Wanneer hetzelve gebouwd werd, kunnen wij niet met zekerheid bepalen. Omtrent zijne slooping echter verkeeren wij niet in het onzekere, deze had in 1820 plaats.
  • 46. Het voormalig Kruidhuis. De kruidtoren was gelegen, in een »halve maan” der vestingwerken in het noordwestelijk gedeelte der stad. De heer Van Kinschot schrijft in 1746, »dat het binnen weinige jaren gebouwd is.” De amovering van het kruidhuis geschiedde ten jare 1820, als wanneer het even als het magazijn van oorlog, door de administratie van ’s lands domeinen werd verkocht.
  • 47. De Barak of Caserne. De Caserne, gelegen aan de westzijde van den IJssel was 168 voeten lang en 30 voeten breed, terwijl dezelve in 24 vertrekken verdeeld was. Zij werd voor stads rekening gebouwd, en bij aanbesteding aangenomen voor eene som van ƒ 14,200; deze gelden zijn voor het grootste gedeelte, door de burgerij vrijwillig, tegen eene interest van 4% gefourneerd. De eerste steenen aan dit gebouw werden gelegd, op den 29 Mei 1798 door A. M. Montijn, Jan de Keiser Jz. en W. Putman, zoo als op een steen in den voorgevel aangebragt, te zien is. Sedert het jaar 1811 wordt dit gebouw, door particulieren bewoond, terwijl het in 1856 in het openbaar werd verkocht, en het gebouw dus nu eigendom van particulieren geworden is.
  • 48. De schuttersdoele. Reeds in het jaar 1501 vinden wij gewag gemaakt van het volgende octrooi voor de »voetbooghschutters van St. Joris Gilde” te Oudewater. Uit dit octrooi bekomen wij echter de verzekering, dat zij reeds lang vóór genoemd jaar zich te dezer plaatse bevonden en hun aantal op het genoemde tijdstip niet minder dan 80 tot 90 bedroeg. Wij laten dit octrooi nu volgen: Philips, by der Gracie Goids, Eertshertoge van Oistenryck &c. onsen lieven en getrouwen Raedt ende Tresor. Gnerl: van allen onsen Domeynen ende Finan: Jeronimus Lauwerin; Saluyt ende Dilectie. Wy hebben ontfaan die oidmoedige Supplicae. van onsen welgheminden die Burchers der stede van Oudewater over ende in den naame van de Handboech-Schutters van den Ghilde van St. Joris der voirsz: Stede, inhoudende, hoe deselve gelegen is op tie Frontiren van onsen Lande van Holld. strekkende aan den Gestichte van Utrecht ende Lande van Gelre, dewelke na den overlyden van wylen onsen lieven Heer ende Grootevader Hertoge Karel van Bourgn. Zaliger gedagten, veel groote sware lasten en costen gehad ende geleeden hebben van diverse Oirloogen, niet alleen van den Oorloge van Utrecht, maar alle andre die geweest zyn in onse voirsz. Lande ende Graaflicheyt van Holland als oick in de voirsz. Lande van Gelre, Ende hebben de voirsz: Suppliante tot seekerheyd van der voirsz: Stede van Oudewater opgesteld ’t voirsz. Ghilde van St. Joris van den Voetboech Schutters, tot in den getale van tagtigh of tnegentigh persoenen, om welke ghilde ende gezelschap ’t onderhouden by Hertoge Philips ende andre onse Voorvaderen, die voorsz. Supplianten
  • 49. verleend ende gegeven hebben geweest Vyff ende Twintig Cliuts ’t s’Jaars tot XXX Gron. ’t stuk, dewelke sy den voirsz. Supplianten beweesen hebben gehad te ontfaan by handen van den Rentmeester ’t s’Lands van Woerden, ende hebben ’t selve alsoe gebruyckt tot in den Jaar toe van LXXVIIJ. Dat die geroyeerd zyn geweest by gebrek van nyeuwe brieven van gfirmatien van wylen onse lieve Vrouwe ende Moeder die Eertshertoginne Saliger gedagten. Ende in den Jaar van LXXXVIJ. soe zyn die voirsz. XXV. Cliuts s’Jaars den voirn. Schutters weederome beweesen geweest op den Rentmeester van den Beede in Holland, als doe wesen uyt kragte van nyeuwe brieven van Confirmacien van mynen Genadigen Heer ende Vader myn Heer den Coninck, sedert welk tyt tot in den Jaar toe van XCIIJ. de voirsz. Schutters niet meer betaald en syn geweest, mits datter gheen Beede in Holland ende Vriesland daar en binnen loop gehad en heeft, ende hoewel dat seedert den voirsz. Jaar XCIIJ. diversche Beeden in Hollandt loop gehad hebben ende nog doen, nochtans en hebben die voirn. Schutteren van den voirsz: XXV. schilden binnen derselver tyd niet ontfaan, overmits dat sy van huer voirsz. ghifte tot nu toe gheen gfirmacie verkreegen en hebben. Twelke hem compt ende keert, tot grooten hinder schade en achterdeele, ende meer sal er werde hen by ons hier op niet voirsien van onse gracie ende behoorlick provisie alsoo zy seggen, Ons zeer oidmoedelick daar ome biddende, SOE IS ’T dat wy die saken voirsz. overgemerct, ende daar op gehad ’t advys, eerst van onsen lieven ende getruwen, die Luyden van onse Reekn. in den Hage, ende daer na van u, wy hebben den voirn. Schutters van St. Joris Gilde, in onze voirsz. Stede van Oudewater, genegen wesende ter Beede ende begeerte van de voorn. Supplianten, ende ten eynde dat sy te bat gehert mogen syn te verstaan tot bewaaringe ende seekerheyt van de selver onser Stede van Oudewater daer veel belancx in leyd die Brieven van Gifte ende Octroye van de voirsz. vyff ende Twintich Scilden ’tsjaars, henl. gegonnen ende verleend by onsen voirsz. Voirders als voirsz. is, geconfirmeerd, gevesticht ende belieft, ende vuyt onsen rechten wetentheyt ende zonderlinge gracie, confirmeeren, vestigen ende believen, mits desen onzen Brieve, Ende op dat s’noot sy, hebben hen die selve XXV. scilden ’s jaars van nieuws gegonnen ende verleend, gonnen en verleenen mits deesen onsen voirsz. Brieve, om die van nu voortaan Jaarlicx te hebben, ontfangen ende gebruyken van de Penn. comende van onsen Beden die in onsen voirsz. Landen van Holland en Vriesland loop hebben sullen, ende by handen van onsen Rentmeester van denselven Beden in den quartier van Noort-Holland jeegenswoerdich ende toecomende soe lange als ’t ons gelieven sal, ontbieden u daar ome ende beveelen dat by u doende die voirsz. Schutters gebruyken van onse voirsz. Gracie, Confirmacie ende nieuwe Ghifte, ghy hen doet van nu voortaan Jaerlicx uytryken ende betalen of ’t huren sekeren Bode voor hen de voirsz. XXV. scilden ’s jaars by handen van onsen Rentmeester van Holland in ’t Quartier van Noortholland voirsz. jegenswoerdich ende toecomende, ende van de Penningen van synen ontfange comende van onser Beede aldaar, soo lange als ’t ons gelieven sal, als
  • 50. voirsz. is. Denwelken onzen Rentmeester jegewoerdich ende toecomende wy selve beveelen mits deesen dat alsoe te doene, ende mits overbreyngende desen onsen jegenwoerdigen Brieff Vidimus ofte Copye Auctentyk van dien, mitsgaders van de andere Brieven van Ghiften ende Confirmatien boven geroerd, voor een ende d’eerste ryse en soe menich werff als ’t van nooden weesen sal, deuchdelick genieten van de voirn. Schutters van de voirsz. XXV. scilden ’tsjaars, alleenlick wy willen dat al ’t geene des hen daar aff gegeeven ende betaald sal worden geleeden ende gepasseerd zy in ’t uytgeven der Reekeningen van onsen voirsz. Rentmeester van onsen Beden van Holland in den Quartier van Noortholland voirsz. jeegenwoordich ende toekomende, die ’t betaald sal hebben, by den voirsz. Luyden van onsen Rekeningen in den Hage, denwelken wy oock bevelen by desen, dat alsoe te doene, sonder eenighe zwaricheid ofte wederseggen ter contrarien, want ons alsoe geliefd, niet jegenstaande eenige Ordonnantien, Restrinctien, geboden oft verboden ter contrarien, Gegeeven in onser Steede van Brugge, den lesten dach van April in ’t Jaar ons Heeren Duysent vyff honderd ende een, Aldus geteykend by mynen Heer den Eertshertoge Jeronimus Lauwerin Tresorier Generaal van de Finan: ende andre jegenwoerdich, Hanneton. Ende op ten rugge van deesen Brieve staat gescreven dat hier naar volcht. De Tresorier Generaal van de Domeynen ende Finantien myns Genaden Heer des Eertshertoge van Oistenryck, Hertoge van Bourgondien, Jeronimus Lauwerin consenteerd alsoe verre als in hem is dat ’t inhouden in ’t Witte van desen jegewoordigen volcomen zy naar zyne vorme ende inhouden, alsoe ende by der manieren dat deselve myne Geduchtegen Heer wil ende beveeld gedaan ’t fyne by deselve, Geschreven onder ’t handteyken van den voirsz. Tresorier General den tweesten dach van Meye in ’t Jaar Duysent Vyff Honderd ende Een. Aldus geteykent, L A U W E R I N . Vervolgens berust er op het gemeente archief een ordonnantie voor de schutters van den »edelen Cruysboog” dd. 26 Augustus 1597, die wij echter om hare uitgebreidheid niet mogen overnemen. Voorts wordt nog in verscheiden keuren van deze schutters gewag gemaakt. Op het stadhuis wordt nog een fraaije vlinder bewaard, die men denkt, als insigne van de voetboogschutters van St. Joris Gilde gebruikt te zijn. Omtrent de schuttersdoelen vinden wij vermeld138 in 1746.
  • 51. »De Doele staande in de Kapelstraat is een oud gebouw, ’t geen groote ruimte heeft en zeer bekwaam ter Herberging van reizende en andere lieden. Zij komt de schutterij, die nu in twee quartieren en vaandels verdeeld is, in eigendom toe, die ook aldaar hare vergadering houdt.” In den voorgevel van dit gebouw, die in Anno 1787 zeer verfraaid werd, ziet men den ridder St. Joris den draak bestrijdende in steen uitgehouwen. Na de vernietiging der stedelijke schutterij, is de Doele ter voldoening van der stad’s pretentien in 1798 aan de gemeente gekomen en als eigendom getransporteerd.—De stad heeft dezelve in 1799 voor de som van ƒ 3300 aan een ingezetene dezer plaats verkocht. De naam van het Logement de St. Jorisdoele, herinnert in onze dagen nog aan de oude schutters van Oudewater. En hiermede is ook de reeks gebouwen ten einde, die hun ontstaan verschuldigd waren uit een beginsel van verdediging, bij eene mogelijke belegering der plaats. Toen echter Oudewater uit de rei der vestingen verdween, zijn de meeste dezer gebouwen natuurlijk van onnut geworden, en wij zagen dan ook de vernietiging van bijna allen. Nu resten ons nog eenige gebouwen te beschrijven, die wij noch onder de kerken, noch onder de geestelijke of liefdadige gestichten, noch onder de gebouwen ter verdediging van stad en land konden rangschikken, en toch tot de monumenten der stad behoorden of nog behooren. Wij beginnen met
  • 52. de voormalige latijnsche school. Nog tot in het laatst der 17 eeuw139 mogt Oudewater zich beroemen, binnen zijne muren eene Latijnsche school te hebben, hetgeen voor een plaatsje als dit, zeer pleiten kon voor de welgesteldheid der ingezetenen.— Aangezien deze laatsten echter van tijd tot tijd verminderden, en men dientengevolge geen genoegzaam getal leerlingen op dezelve aanbragt, moest dezelve noodwendig vervallen.—Volgens resolutie der staten van Holland dd. 25 Februarij Ao . 1600, bekwam Oudewater het regt, op zijne beurt eene »beurssaal” te zenden in het Theologisch Collegie van Holland binnen de stad Leiden. Deze beurten moesten echter verwisseld worden tusschen deze plaats in het naburige Woerden zoodat ten allen tijde een dezer twee steden een student in voornoemd collegie had, achtervolgens besluit van hunne Ed. Groot. Mog. in derzelver hooge vergadering genomen, waar omtrent wij verwijzen, naar de resolutien van Holland dd. 25 Junij 1666. Deze resolutien en dit regt, werden echter ten jare 1797 vervallen verklaard en de herinnering, dat Oudewater eertijds een Latijnsche school bezat, bleef alleen in de geschiedrollen bestaan!
  • 53. Lombarden. Reeds in het jaar 1319, drie weken na St. Maarten in den Winter, vindt men gewag gemaakt, dat het Lombardhuis te Oudewater ter bewoning gegeven werd aan Vranke Oudekijns, tot ’s Graven wederopzeggens toe. Kort daarop moeten echter de Lombaarden uit Oudewater getogen zijn,140 daar men vermeld vindt, dat in het jaar 1323. Dirk Batenburg verleid werd met het Lombaarthuis te Oudewater, mits het zelve weder opgevende by de terugkomste van de Lombaarden, &c: Ziet hier de inhoud van het bedoelde stuk.141 Wi Willaem Graue &c: maken cont allen luden, dat wy Dirc Batenburg van Oudewater gegeven hebben onse huys, dat ons ane gecomen es van de Lombaerts binnen onse Poirte van Oudewater in rechten liene van ons te houden in der maniere, wair dat saeke dat die Lombairts weder quamen ende wise in dat huys voirsz. weder setten mitter woone, soo souden wi Dirc voirsz. sinen cost en sinen scade, dien hi aen den huse gedaen hadde, gelden, ende dair meede waer die manscap quite. In oirconde &c: Gegeven tote Scoenhove op Sinte Martynsdach in de Somer in ’t jaar ons Heeren MCCC drie en twintich. Daarna werd ten zelfde jare het volgende bevel aan den Magistraat gegeven, om de nagenoemde Lombaarden in deze Stad te ontvangen en Burger-regt te laten genieten.
  • 54. Wi Willaem Gratie &c: onsen lieven en getrouwen Schout, Schepenen, ende Raed van onser Poirte van Oudewater, saluyt ende onse goede jongste; Wi doen u te weten, dat wi in onse beschermte en geleyde genomen hebben, en nemen dese Lombairden, die hier na geschreven staan, dat es te wetene, Dammaes en Philips Asinier, broeders, en de Hore Maysinden om te wonene en te blivene in onser Poirte van Oudewater van onser Vrouwe dage in den Mairte die naestcomet, twaalf jaer daer na volgende, ende sullen coipmanscip driven ande hoir oirbair doen mit haren gelde, geliken onse andere Lombarden die wonen ende bliven in onse goede Poirten van Hollant; En ombieden ju naerenstelicken, dat ghi se ontfaet over uwe Poerters ende hem helpet, vordert en starket in alle hore rechten, gelike juwe Poerters die jairscarende durende voirsz. ende des en laet niet. Gegeven in die Hage op den Jairsdach in ’t Jaer ons Heeren M. CCC. en drie en twintich. In het jaar 1595 werd van wege de regering van Oudewater aan Jaques de Causa Michielsz., een piemontees, octrooi verleend tot het houden van de »tafel van leeninge” binnen Oudewater. Aan ieder die omtrent de aanstelling van zoodanigen tafelhouder, de voorwaarden waarop de verpanding en bij niet lossing, den verkoop der panden plaats greep, iets meer weten wil, verwijzen wij naar de beschrijving van Oudewater door G. R. van Kinschot bladz. 439–450. Nog omstreeks de helft der voorgaande eeuw, vindt men vermeld, dat de Bank van leening, met het daarbij van ouds behoorende woonhuis, onder de accijnsen der stad, voor zekere jaren verpacht werd. Uit een en ander zien wij, dat Oudewater nevens alle andere steden in Holland en West Vriesland geprivilegieerd was, zoodanige bank te mogen hebben en verpachten, met uitsluiting van alle andere plaatsen in het platte land142 zijnde zelfs ingevolge deze volmagt, de steden niet gehouden, eenige tafelen toe te laten, al hadden zij ook eertijds octrooijen daarvoor verkregen143. Volgens resolutie der staten van Holland 3–12 Maart 1594 mogt door den Lombardhouder van de zes gulden, een halve stuiver in de week geheven worden. Het laatste Lombardhuis te Oudewater bevond zich op de Donkere Gaard en is tegenwoordig bekend onder nummer 491. Sedert een groot aantal jaren, werd dit huis verkocht, en wordt het door particulieren bewoond.
  • 55. Alleen het stadswapen met het bijschrift: SAUVE GARDE Ao. 1756 doen den opmerkzamen voorbijganger alligt vermoeden, dat hij zich bij het oude Lombardhuis bevindt. Tegenwoordig bestaat er te Oudewater slechts een hulp Lombard en wel onder opzigt en contrôle van den Lombard uit het naburig Woerden.
  • 56. De Waag, ook gezegd de Heksenwaag. Dit stadsgebouw, bevindt zich aan de markt, op den hoek der Gasthuissteeg, en werd waarschijnlijk in het jaar 1595 gebouwd, aangezien dit jaartal in den voorgevel van dit gebouw wordt aangetroffen.—Reeds lang vóór genoemd jaar, bezat Oudewater echter reeds eene Waag, immers reeds ten jare 1547, werd door Zijne Keizerlijke Majesteit een bevel uitgevaardigd, waarbij hij gelastte, dat het gewigt der stad Gouda in de Waag der stad Oudewater overgebragt zoude worden, en tegen het gewigt uit laatstgenoemde plaats in gelijke stukken, ten overstaan van zijn gecommitteerden gewogen zoude worden. Wij laten den inhoud van dat stuk hier volgen: »Op Huyden den anderen dach Marcy Ao . XVc , XLVII. Stilo Trajectense zoe zyn Adriaen Louwerisz., Jacob Gerytsz. Moen, Burgemeysters en Schepenen desz. stede van Oudewater alsook Frederick Jansz. Muntere en Jan Jansz. en Pieter Speyert, Secretaris derselver stede, geweest in de voorsz. stede Waech, ende aldaar gewoogen der stede Wicht van der Goude gebrocht by Dirck Cornz., Tollenaar ende Rentmr derzelver stede, van wegen der K. Majt tegens de wicht derzelver stede van Oudewater in gelijke stucken, ende is bevonden mitten zelfe te accorderen. Geschiet op
  • 57. ten dach, jaer en de maent als boven, (o n d e r s t o n d ): geëxtraheert uit het voorsz. stedeboeck en accordeert daer naede by my onderteykent. P. Speyert.”144 Zooals iedere andere Waag, werd dezelve gebouwd, tot het wegen van verschillende koopmanschappen, en wel voornamelijk h i e r , voor, kaas, hennip en verschillende soorten van touw, allen producten en waren, waarvan in en om Oudewater veel in den handel wordt omgezet. Doch, uitgenomen deze artikelen, werd er eertijds nog een artikel opgewogen, waardoor deze Waag zich bij alle andere Wagen onderscheidde, een artikel, dat haar een ongekenden naam in de geschiedrollen bezorgde, en de Waag deed worden »een weldaad voor het menschdom.” Aldus toch, wordt onze Waag genoemd, in de »Almanach tot Nut van ’t Algemeen,” jaargang 1792, bladz. 95. Het artikel, dat wij bedoelen, waren…. m e n s c h e n , die van tooverij beschuldigd waren, en heksen genoemd werden. Wij willen de aanleiding tot het wegen van deze menschen, een weinig breeder uiteenzetten en moeten daarvoor in dit hoofdstuk de onderafdeeling: BIJGELOOF VOORHEEN EN LATER daartusschen lasschen. Het is slecht, of eigenlijk in het geheel niet te bepalen, wàt b i j g e l o o f is, indien wij de tegenstelling niet vermelden van g e l o o f en o n g e l o o f . Het g e l o o f zelve wordt nog in veel soorten verdeeld. Immers in het d a g e l i j k s c h l e v e n , verwart men g e l o o v e n meestentijds met m e e n e n , met iets v o o r w a a r h o u d e n , waarvoor
  • 58. men geene gronden kan bijbrengen. In het s t o f f e l i j k e , gelooft men, wat men met de zintuigen bemerkt, wanneer geen zinbedrog ons misleidt, en In het g e e s t e l i j k e eindelijk, is het aan iedere gezindte bekend, wat door geloof verstaan wordt.—Bij de Christenen behoort dit g e l o o f , dit aannemen van iets, wat men n i e t ziet, tot hunne Godsdienst, en wel in die mate, dat hunne G o d s d i e n s t veelal hun g e l o o f genoemd wordt. Het o n g e l o o f staat natuurlijk tegenover g e l o o f ; zoowel in het g e e s t e l i j k e als in het s t o f f e l i j k e nu, heerscht ongeloof.—Zoo is b. v. in het stoffelijke, hij ongeloovig, wanneer hij niet aanneemt, d a t het zoo is, en het toch wezenlijk bestaat, zonder het met zijne zintuigen te hebben bemerkt. B i j g e l o o f is het geloovig, het met volle overtuiging aannemen van hetgeen wezenlijk n i e t is. Bijgeloof is meestal eene nog sterkere overtuiging, dan een waar geloof, doch het is en blijft altijd een w a n g e l o o f , een o n j u i s t g e l o o f , een geloof, waarbij de mensch zich zelven bedriegt145.—Wij zullen wel niet behoeven aan te toonen, dat men ook hier weder in het stoffelijke en in het onstoffelijke bijgeloovige kan zijn. Het voornaamste bijgeloof van lateren en zelfs nog van onzen tijd, is een overblijfsel, van de mythologie onzer voorvaderen, waarover hiervoren breedvoerig geschreven is. Toen wij de aandacht onzer lezers op de mythologische daadzaken in het heidendom bepaalden, maakten wij bijna ook op iedere bladzijde, de schaduw daarvan nog in onze dagen aanwezig, bekend. Eigenlijk gezegd, was de mythologie onzer vaderen voor hen nog geen bijgeloof, het was eene natuurleer, een wangeloof—doch het voortbestaan in het Christendom van de onwaarheden, die hunne mythologie bevattede, dàt werd voor den C h r i s t e n natuurlijk bijgeloof.
  • 59. Teregt vinden wij dan ook vermeld146. Onze voorouders hadden, als alle volkeren van den Indisch-Germaanschen stam, een duister Godsdienstig geloof aan een goed en een kwaad beginsel; doch, gelijk het in de kindsheid der barbaarsche volken gaat, waar het geloof aan een eenig God is verduisterd, stelde men zich die beginselen voor als krachten, als persoonlijke krachten, als krachten van bovennatuurlijke wezens, waarvoor de zwakke mensch moest bukken.—In hunne sagen werd gesproken, van de helden, van het voorgeslacht; en de verbeelding verhief die voorouders tot goden.—Hetgeen men waarnam en niet kon verklaren, werd aan de werking dezer Azen toegeschreven.—Bij iedere aanraking, van den eenen volksstam met den anderen, vermeerderde allengskens het bijgeloof; maar toch te midden van dat bijgeloof, bleef er nog eenig geloof over, aan e e n magtigsten God. Wij hebben u dien God reeds als Wodan doen kennen, en Wodan was het, die in het laatst der dagen, alle goden aan zich zou onderwerpen. De goden der wereld, en de aardgeesten voerden wel strijd, tegen den God des hemels, eindelijk zouden zij echter toch het onderspit moeten delven. In één woord, alles hetgeen door de menschen gedaan en verkregen werd, werd door het volksgeloof aan de inwerking der Goden, toegeschreven. Toen het heidendom voor het Christendom moest wijken, bleven echter de toovenaars en heksen bestaan. Toovenaars waren de menschen, die met de booze geesten of goden in verbinding stonden en die als overblijfselen van de heidensche priesters konden worden beschouwd, terwijl de heksen, die vrouwen waren, doen denken aan de wigchelaarsters in de mythologie. Deze heksen nu hadden het vermogen, de menschen op velerlei manieren te kwellen en nadeel toe te brengen, geen wonder dus, dat de jonge Christenen, door oppervlakkigen Godsdienstijver gedreven, met groote woede en toorn, somtijds tegen die gewaande toovenaars en heksen vervuld werden, wanneer er aardsche rampen voorvielen, die zij aan de toovenaars en heksen, en hunne verbinding met de booze geesten toeschreven. Toen de Noord-Duitschers en Denen pas tot het Christendom bekeerd waren, hadden booze wraakoefeningen tegen zoogenaamde heksen meermalen plaats, weshalve paus Gregorius VII (die regeerde van Ao .
  • 60. 1073–1085) zeer ernstig aan zijne geestelijken in Denemarken schreef, dat zij dat volksbijgeloof toch zouden tegenwerken, enz. In de middeneeuwen, nam zelfs het geloof aan hekserij ontzaggelijk toe, en geen wonder! de steeds toenemende beschaving en de meer en meer aangroeijende ondereenmenging van verschillende volken bragt te weeg, dat er onderscheidene kunsten en uitvindingen werden ontdekt; de drukpers nu was er nog niet, om de volken het geheim dier uitvindingen kenbaar te maken, en wat het volk niet begreep, was een wonder of tooverij en de uitvinder eener nuttige zaak, werd niet zelden vervolgd als heks en toovenaar. Het zou ons verbazend wijdloopig doen worden, de duizendtallen voorbeelden aan te halen, van de slagtoffers om tooverij en hekserij.—De vervolging was weldra tot eene ongekende hoogte gestegen.—Meest alle rampen en plagen werden aan tooverij toegeschreven, en de beschuldiging van tooverij ging zelfs zóó ver, dat vorsten en geestelijken, de beschuldigingen van hekserij niet konden ontgaan! Ontelbaar zijn dan ook de menschen geweest, die hunne beschuldiging met het leven moesten boeten. Een paar voorbeelden, slechts. In het kleine bisdom Bamberg werden in vijf jaren tijds 600 menschen om tooverij ter dood veroordeeld, meest verbrand, en in hetzelfde tijdsverloop telde het niet veel grootere bisdom Würzburg 900 offers147. Maar, vraagt mij welligt iemand, werd dan iedereen, die van tooverij beschuldigd was, zonder vorm van proces veroordeeld, werden er geene pogingen aangewend, de ongelukkige beschuldigden van den dood te redden? Ja mijne lezers er werden pogingen daarvoor in het werk gesteld, doch hoedanig waren zij? Ach zij bragten zoo zelden redding voor de beklaagden aan! Ja de p i j n b a n k was er, en die dan van tooverij en hekserij beschuldigd of verdacht waren, werden op die pijnbank gebragt. Onder de
  • 61. smartelijkste folteringen werden zij ondervraagd. De pijniging hield meestal aan, totdat zij tot de bekentenis waren gebragt, en daar eene bekentenis genoegzaam werd geacht, wanneer zij op de vragen slechts een toestemmend antwoord hadden gegeven, is het daaruit gemakkelijk te begrijpen, hoevele duizenden onder de felste folteringen het »Ja” hebben uitgeroepen, om eenigen tijd verligting te erlangen, op de vragen, of zij op bezemstokken door de lucht hadden gereden, of zij katten waren geweest, enz. enz.148.” Ja er waren nog andere proeven, zooals het o r d a l , de v u u r -, de w a t e r - en n a a l d e n -proef, doch het behoorde bij al deze tot de hooge zeldzaamheden, indien zij ten gunste der beklaagden uitvielen. Geen wonder! men vergde in deze, bijna altijd wonderen van de Godheid, en na de wreedste pijnen reeds in de »proef” doorstaan te hebben, werden zij meestentijds naar den houtstapel geleid en verbrand! O de proeven ter bevrijding der ongelukkigen, zij waren zoo slecht gekozen! Van tijd tot tijd echter stonden er groote mannen op, die het durfden wagen openlijk hunne stem te verheffen, ter bestrijding van het venijnig serpent, dat men tooverij en hekserij noemde. D u r f d e n wagen? Ja voorzeker er behoorde moed toe, tegen dit bijgeloof met open vizier te velde te trekken, in d i e n tijd, toen bijna ieder onder de magt van het ellendig gedrocht zich bewoog. De eerst bekende groote man, die het bijgeloof heeft bestreden, was voor zoover wij weten, paus Gregorius de VII in de elfde eeuw.—Ofschoon het wel degelijk te vooronderstellen is, dat in de drie volgende eeuwen dit niet zonder tegenspraak van velen heeft geheerscht, zoo vinden wij echter eerst kort na de uitvinding der boekdrukkunst, en de daardoor veroorzaakte meerdere bekendheid van gevoelens, onderscheidene personen, die het geloof aan hekserij en tooverij bestreden. De beroemde regtsgeleerde Alciatus, leerde reeds, »dat het beter was, de heksen nieskruid te geven, dan haar ten vure te doemen” daarmede zoo het schijnt doelende, op zijne overtuiging, dat zij, die zich verbeelden onder de
  • 62. magt van booze kwellingen te staan, meestal krank naar ligchaam en ziel waren. Onze groote Rotterdammer Desiderius Erasmus, stelde de geheele zaak der tooverij in een bespottelijk daglicht149. In 1512 verscheen er te Gent een boekje in het licht, bevattende 2 kluchtspelen nl. de k l u c h t v a n H o m u l u s en H a n s k e v a n d e r S c h i l d e . Dit boekje had een morele strekking, het bestrijden der tooverij; een ander boekje heeft tot titel: t o o v e r e n , w a t d a t v o o r e e n w e r k i s , beschreven door Jacob Vallick, pastoor te Grossen 1559. Het bijgeloof, wordt daarin bestreden, op gronden van Godsdienst en Zedekunde. Johannes Wier, in 1515 te Grave geboren, later lijfmedicus van den Hertog van Cleef en Berg, was echter de eerste, die volledig de vooroordeelen in deze bestreed. Hij had op zijne reizen onderscheidene executien van zoogenaamde heksen gezien. De edele man had het voornemen opgevat, de vooroordeelen van zijnen tijd grondig te wederleggen. Hij schreef eene verhandeling over de giftmengers en de toovenaars, waarin hij bewees, dat die twee zaken wel degelijk vaneen gescheiden moesten worden, en toonde aan, dat de regters van zijnen tijd, dit niet deden. Vele regters erkenden hunne dwaling, en betuigden hem hunne dankbaarheid, voor zijn uitmuntend betoog. Hierdoor aangemoedigd, schreef hij nog tot aan het laatst van zijn leven, ter verdediging der zoogenaamde heksen. Cornelis Loos van Gouda werd aangezocht een zeker boek van Wier te wederleggen, doch door het lezen van zijn geschrift overtuigd wordende, werd zijn geschrijf een eere schrift op zijn boek. Men weigerde te Keulen het manuscript te drukken, en Loos werd gedwongen onderscheidene stellingen te herroepen en niet zonder vele pogingen ontkwam hij eene vervolging150. Bij al deze gunstige geschriften ter bestrijding van het bijgeloof, schreef zekere Martinus del Rio het groote boek: O n d e r z o e k n a a r d e
  • 63. t o o v e r i j , dat in 1599 uitkwam, en waarin het bestaan van toovenaars verdedigd werd. Del Rio ging zelfs zoo ver, dat hij beweerde, dat de verlichte Wier zelf een toovenaar was, en hij hen daarom in zijn geschrijf verdedigd had. In Reijnald Scott een verlicht engelschman, vond del Rio echter een geduchten bestrijder, doch het bijgeloof woedde echter nog steeds met hevigheid voort. In Engeland vatte een Jacobus I de pen op, om de voorstanders der verlichting Wier en Scott te wederleggen en in Duitschland werd de heksengeschiedenis, door het gezag van den regtsgeleerden Carpzovius in wezen gehouden. Op het laatst der 17de eeuw, begonnen de regeringen de vervolgingen wegens tooverij, wel meer na te laten, doch het volk bleef niet minder bijgeloovig dan vroeger, ofschoon het weder krachtige en bekwame strijders vond in Adam Tanner en Frederik Spee. De laatste had als Jezuit, menige veroordeelde heks, in hare laatste levensuren moeten bijstaan. Getroffen door hetgeen hij gezien en gehoord had, schreef hij zijn boekje: Wa e r b o r g o m g e e n q u a a t h a l s g e r e g t t e d o e n , een lief boekje, dat door onzen bekenden Amsterdamschen predikant Balthazar Bekker hoog geroemd en geprezen werd. Het geschrift van den Jezuit Spee, werd in onze taal overgebragt, door N. B. A., zijnde N. Borremans, Remonstrantsch predikant te Oudewater. Doch, wat werden die edele menschenvrienden, in hunne pogingen om de waarheid te verkondigen, gedaan? Frederick Spee zond zijn boekje om zich voor vervolging te behoeden, naamloos in het licht. Borremans, vertaalde het onder de letters N. B. A. en Balthazar Bekker, die in zijne b e t o o v e r d e w e r e l d , het bijgeloof aanrandde, werd in 1692 van zijn predikantsplaats ontzet, als onregtzinnig151. Ik verzoek den lezer nog eens kortelijk met mij eenigen tijd terug te gaan, tot naar het midden der 16e eeuw en daar nog eens het bijgeloof en hare gevolgen kortelijk herhalen. Het ligt echter niet in ons plan, dat bijgeloof
  • 64. stap voor stap te volgen, immers dit onderwerp zou een ruimte beslaan, als voor deze geheele plaatsbeschrijving bestemd is. Wij voeren u dus in gedachten terug tot in het regeringstijdvak van Karel de Vijfden, waarin wij de ter doodbrenging van eene heks zullen schilderen. Allerwege ontwaart men brandstapels, die de ongelukkige toeven, die van tooverij beschuldigd zijn. Zie daar nadert men met zoodanig een slagtoffer den houtmijt! Ach het is eene vrouw en zij is echtgenoot en moeder, want hij, die zich onder den stoet bevindt, hij met dien zonderling wreede trek op het gelaat, met van woede glinsterende oogen, die dreigend staren op de leiders van de zoogenaamde h e k s , hij prevelt verwenschingen, voor de beschuldigers zijner »l i e f d e v o l l e g a d e .” Is zij ook moeder? Ja, ja, zie naast de veroordeelde draagt een andere vrouw een schreijende zuigeling, en geleidt een achtjarige knaap, en terwijl de vlottende menigte nu langzaam voortgolft naar de plaats waar het doodvonnis zal voltrokken worden, ontwaakt de ongelukkige »heks” met aan razernij grenzende wanhoop uit den stillen waanzin, waarin zij gedompeld was! want zij ziet de houtmijt vóór zich, die weldra met hare assche een vormloos zaamgestorte massa zal uitmaken! M i j n e k i n d e r e n gilt zij, groote God, mijne kinderen! de zuigeling en de knaap omvattende, o uwe moeder omklemt u nu voor het laatst, zij drukt u na dezen immermeer de vurige kussen op uwe wangen. Zij zal haren lieven zoon niet meer ter schole leiden, hare zuigeling niet meer voeden met het moederlijk voedsel! en gij echtgenoot, kermt zij, ach, zie niet zoo dreigend in deze bange ure, wij zien ons weder, dáár, waar wij niet meer aldus gescheiden zullen worden, zorg voor onze kleinen, voor de telgen van onzen gelukkigen echt, omhels mij zoo als ik hen omhels.—God! God! ik moet van u en hen scheiden…… Hier zonk de ongelukkige bewusteloos ineen, door smartgevoel overstelpt. In dezen toestand wordt zij op den brandstapel geplaatst, aan den paal gebonden, men brengt het vuur met de drooge twijgen in aanraking, en weldra kronkelen zich de woeste vlammen, om de in onmagt zijnde vrouw! Het vuur wekt echter spoedig de ongelukkige uit hare bezwijming, en wanhopend wringt zij zich op den brandstapel, door ligchaamspijn en boezemwee overstelpt—toch zoekt zij nog naar de plaats vanwaar zij hoort
  • 65. kermen, gade dierbare gade, vaarwel tot wederzien bij God in den hemel! vanwaar zij hoort smeken, moeder, lieve moeder, o kom bij mij! O deze smartvolle ontboezemingen wat verschilden zij van de uitroepingen der volksmenigte. Voort, voort met de heks, want zij heeft met bezemstokken door de lucht gereden, wij hebben haar in de gedaante eener kat gezien, zij heeft onweders en ziekten verwekt, en de kinderen betooverd, zóó zóó, verbrand haar, verbrand haar! Weldra waren de laatste levensvonken van de ongelukkige echtgenoot en moeder uitgebluscht, en…. het bijgeloof had een offer meer geëischt en genomen!! Zulke treurige executien, hadden in de tijden waarvan wij schrijven menigmaal plaats, op honderde manieren gevarieerd, zonder onderscheid van kunne of ouderdom. Geen wonder ook, wij hebben het reeds aangetoond, de proeven aangewend tot bevrijding eener aangeklaagde »heks,” zij gelukten bijna nooit in het voordeel der laatsten. Maar eindelijk daagde er toch lichte aan den horizont: er werd eene proef ontdekt, die a l t i j d de vrijspraak voor de beschuldigden van tooverij moest ten gevolge hebben, eene proef, die ook geen pijn veroorzaakte, eene proef even onschuldig als zeker, de heksen moesten zich namelijk l a t e n w e g e n op de stadswaag te Oudewater. Waarom vraagt ons welligt iemand moesten de heksen gewogen worden, waarom moesten zij te Oudewater gewogen worden en wie is de uitvinder, de bedenker van deze proef, die zooveel invloed op het bestrijden van het bijgeloof ten gevolge moet hebben gehad? Wij zullen een en ander zoo beknopt en duidelijk mogelijk ter neder schrijven. De heksen, die in het volksbijgeloof door de lucht konden rijden, hadden volgens gevoelen van hare beschuldigers en vervolgers geene
  • 66. ligchaamszwaarte, somtijds meende men zelfs, »dat zij nog minder dan niets wogen.” Werden zij dus ter schale geleid, en bevond men, dat zij zoo zwaar wogen, dat het met de natuurlijke proportie haars ligchaams overeen kwam, en dat kon nimmer missen, dan werd aan dezulken te Oudewater een certificaat gegeven, dat haar bij de minste beschuldiging van tooverij vrijwaarde, tegen alle mogelijke vervolging. Waarom zij nu te Oudewater moesten gewogen worden en wie de bedenker dezer weegproef was, hiervan kunnen wij het volgende berigten: Van oudsher had de waag te Oudewater een bijzonder goeden naam om hare juistheid in het wegen; maar bovenal ook om het juiste en eerlijke gewigt in deze waag aanwezig zijnde en gebruikt wordende. Immers, ten bewijze strekke hiervoor, de ordonnantie van keizer Karel de V, waarbij hij ten jare 1547 aan die van Gouda gelastte, hun gewigt met dat van Oudewater te laten »ijken” zouden wij in onze dagen zeggen.152 Hieruit blijkt dus, dat die vorst voor deze waag reeds eenige voorliefde had, en men houdt dan ook algemeen den keizer, voor den bedenker van deze weegkuur, ofschoon het echter niet met zekerheid te bepalen is, ten minste onder de oude geschriften ter gemeente secretarie berustende, vinde ik dienaangaande geen licht verspreid. Het is echter bijna zeker, dat Karel de V wel de bedoelde persoon zal zijn, die dat gebruik ingevoerd heeft, en het ontbreekt dan ook niet aan schrijvers, die dat zonder eenige bedenking aannemen. Laat ons nu overgaan, meerdere bijzonderheden omtrent de aloude weegkuur te Oudewater zooveel mogelijk uit oude stukken aan te voeren. Wij hebben hiervoren reeds gemeld, dat er in het tijdvak dezer heksenbeschuldigingen, door den pater jesuit Spee, een werkje ter bestrijding van het bijgeloof geschreven was, ten titel voerende: Wa e r b o r g o m g e e n q u a a t h a l s r e c h t t e d o e n , en dat dit boekje in onze taal werd overgebragt door N. B. A., zijnde N. Borremans, eertijds Remonstrantsch predikant te Oudewater.
  • 67. In de voorrede van deze vertaling, vermeldt de heer Borremans eenige gissingen, omtrent den oorsprong van dit weegregt alhier, en deelt daarin tevens de volgende bijzonderheden mede, door een der burgemeesteren van Oudewater dier eeuw, aan Borremans zelf geschreven, die zijn verzoek aan dezen magistraats-persoon omtrent eenige bijzonderheden van de waag en de gewogen wordende, in zekere vragen had doen geworden. Na vermeld te hebben, dat er vele zoogenaamde heksen van de stiften Keulen, Munster en Padeborn sedert keizer Karels tijd, reeds gewogen waren en nog werden, vinden wij daarop t. a. p. aangeteekend: »Dat daar noit ymand uit een van die plaatsen gekomen was, of zy hebben alle eenstemmig verklaart, dat zy in hun land t’ onregten van Tovery beschuldigt wierden: en zoo zy geen bewys bekomen konden, van dat ze in de Stads Waege t’ Oudewater gewogen waren, en hun gewigte met de gelegentheid hunnes Lichaems overeen quam, dat zy gevaer liepen van in hun Land om lyf en goed te raaken: ’T zeggen van die luyden was doorgaans, dat die in hun Land voor Tovenaers gehouden wierden, welken minder woegen. De overleden Secretaris de Hoy hadde hem verhaalt, dat in zynen tyd zeker persoon, uit de bovendeelen in ’t Land daar hy woonde, door eenen, daar hy mede in geschil geraakt was, in ’t geruchte was gebragt, van een Tovenaar te zyn, en dat hy geraden wiert, om zich van de gezeyde laster te suyveren, naer Oudewater in Holland te reysen, en hem aldaar in de Stads Schale te laeten wegen, en dat hy daar gekomen, het zy door bottigheyd, het zy door vreeze, of door quade onderrigtinge, wederom gekeert was na zyn Landt, zonder gewoogen te zyn, maar dat hy in zyn Vaderland komende, en niet konnende toonen, dat hy gewogen was (zulx vermoedelyk voor bewys van schuldigheid genomen zynde, als of hy te licht bevonden waare) zoo is ’t gerugt voort geslagen tot den Regter van de plaats, die gezogt had deze Persoon in hegtenis te nemen, maar hy gewaerschouwt was ’t ontvlugt. Daer na in ’t Land, daar hy gevlucht was, geraakt zynde by een persoon, die te vooren hier ook met eenen anderen in zodanige gelegentheid geweest was, heeft den selven bevoolen met hem herwaarts aan te reysen, gelyk hy ook t’ Oudewater gekomen, en in de Stads wage, op die reyze en wyze als verhaelt is, gewogen zynde, weder was na huys gekeert, en in zyn Vaderland, daar hy van daan gevlugt was,
  • 68. het bescheyt van aldaer gewogen te zyn vertoont hebbende, was hy weder in zyn geheel en in de volle bezittinge zyner goederen, die by den Regter al waren aengeslagen, hersteld geworden. »Op de 2de Vrage seit de Burgemeester, dat geen seker gewichte gestelt is, wat iemand wegen moet, maar dat het daarop aan kwam, dat het gewicht met de natuurlyke geschapentheid des lichaams overeenkomt. »Op de 3de Vrage, van waar dit zyn oorsprong heeft, seyt hy, dat hem zulks onbekent zy, maer dat egter blykt, dat hunne Stads wage in die buiten landen zulken aanzien hadde, also ’t verscheide malen gebeurt was, dat die geenen, welken verzochten gewogen te worden, met bysondere Voorschryvens hunner Stad of plaats gekomen zyn. »Echter word daarby gezegt, dat Keyzer Karel zulk Voorregt aan de Stad Oudewater, uit oorzaak van hunne beproefde Oprechtigheid in desen, en van seker bedrog, in een nabuurig dorp ontdekt, geschonken heeft, immers dat zulks het algemeen zeggen is.” Teregt merkt Ds. Kits van Heyningen, dan ook dien ten gevolge op:153 »Men ziet uit bovenstaand berigt, dat de waag te Oudewater niet alleen veel bekendheid had, en voor officieel getuigenis diende, maar, dat ook de proef zeer onschuldig was. Had men een bepaald gewigt gesteld, dat iemand op zekeren leeftijd wegen moest, terwijl een ligter zijn, dan zoodanig gesteld gewigt voor bewijs van schuld gold, de proef ware wel niet pijnlijk, maar toch gevaarlijk geweest. Nu daarentegen, was ’t genoeg, wanneer het gewigt, met de gewone gesteldheid des ligchaams in overeenstemming was. Men grondde die bepaling zeker op het volksgeloof, dat onder andere meeningen ook deze koesterde, dat een heks of toovenaar geen gewigt had.” »Intusschen was het voorregt aan de waag gegeven, den waagmeester zelven niet geheel onverschillig. Wie gewogen werd, betaalde natuurlijk het waaggeld en schoon de som zoo groot niet was, bij de meerdere waarde, die het geld in dien tijd had, was zij toch een emolument geweest, dat bij zijn post gerekend werd, indien zij niet, omdat een ieder er iets van hebben