Modern Systems Analysis and Design 6th Edition Hoffer Test Bank
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26. sguardo della gente, dalla curiosità dei viandanti. E glielo disse con
tanta emozione rispettosa, con un sentimento così alto di riverenza,
con una semplicità così onesta, che ella disse subito no, brevemente,
ma non potette offendersene. No, ripeteva ella a tutte le umili
considerazioni che egli le veniva facendo, un no lento ma deciso,
senza collera, ma senza debolezza. A un certo momento, ella, come
infastidita, gli disse:
«Tacete.»
Tacque: si separarono, senz'altre parole. Ma da quel minuto fatale in
cui ella aveva incontrato Giustini, essi sentirono sempre più la pena
di quell'amore in pubblico e intanto non prendevano nessuna
precauzione, la pena di quell'amore randagio che non aveva tetto:
amore vagabondo che faceva sorridere d'ironia i camerieri della
trattoria Morteo a Ponte Molle, oziosi sulla porta e sul terrazzo della
palazzina: amore malinconico che faceva ridere, coi suoi saluti
teneri, i doganieri grossolani di Porta Angelica.
Due altri convegni furono molto penosi: la paura, oramai, si era
messa in fondo al cuore di donn'Angelica e la faceva fremere al
passaggio di un carrettiere, di un cacciatore: persino i canotti sul
Tevere la spaventavano, le sembrava sempre che i canottieri la
conoscessero e che alzassero il remo in segno di saluto. Non più
parlavano d'amore: cioè non più egli poteva parlarle d'amore, ella lo
interrompeva, ogni momento, sogguardandosi intorno, chinando il
capo a qualche rara carrozza di forestieri che passava, arrossendo,
impallidendo, respirando appena.
Un giorno di convegno, piovve dirottamente, da un'ora prima
dell'appuntamento: egli si ricoverò sotto il portone di Morteo, ma
non potendo reggere alla impazienza, si avanzava continuamente
verso Ponte Milvio, bagnandosi tutto, cercando di distinguere
qualche cosa attraverso quel velo di pioggia. Non vedeva nulla, ella
non sarebbe venuta, era impossibile con quella pioggia, ma intanto
egli continuava ad aspettare, sorretto da una uniforme speranza; la
pioggia seguitava, ella non venne, naturalmente, ed egli ritornò in
Roma, soltanto alle sette, bagnato, con l'umido nelle ossa, nel tram
27. aperto, coi piedi sul legno intriso dell'ultimo carrozzone che faceva il
viaggio da Ponte Molle a Roma, preso da una grande desolazione,
abbattuto, con un principio di febbre. Non potette dirle nulla alla
sera, ella era circondata di gente e non seppe le ore dolorose che
egli aveva vissuto, là, tra la pioggia del cielo e la nebbia del fiume.
Ma l'altra volta, egli insistette. Ella disse ancora no, ma vagamente,
come se rispondesse più a sè stessa che a lui. Era tarda l'ora e la
temperatura fredda. Era una di quelle pessime giornate di gennaio
trasportate in aprile, vento noioso e glaciale, cielo nuvoloso e basso,
terreno bagnato e fangoso. Ella aveva soltanto una piccola
mantellina di velluto che le copriva le spalle e il petto, e sentiva un
gran freddo salirle dai piedini irrigiditi sino al cervello, abbassava la
testa, portava il fazzoletto alla bocca. Anche Sangiorgio aveva molto
freddo, col soprabito leggiero primaverile, ma non le diceva nulla,
ambedue mortificati e oppressi dall'ora e dal tempo. Ogni tanto le
chiedeva:
«Avete molto freddo, è vero?»
«Oh sì!» diceva lei, piano.
«Oh Dio!» ripeteva lui, guardandosi intorno, non sapendo che cosa
fare per riscaldarla.
E affrettavano il passo, ma il fango inzaccherava gli stivalini di
donn'Angelica e l'orlo della gonna, essi non potevano correre. Come
per istinto, egli le disse di una stanza calda, come la sua, come quel
salotto dell'Apollinare dove sempre divampava il fuoco nel caminetto,
una stanza dove sarebbero stati soli: ella non rispose.
«Dove?» domandò ella, dopo una pausa.
Egli stette per dire, poi si fermò:
«Laggiù...» soggiunse vagamente, poi, indicando Roma.
Più altro. L'ora avanzava, cupa e fredda nella campagna deserta. Ella
era così triste e spaventata, che per la prima volta passò il suo
braccio sotto quello di lui: e quella intimità egli la ricevette
umilmente.
28. Poi, per tre giorni non la vide, non potette vederla, non ne ebbe
notizie, era un po' ammalata: glielo aveva detto don Silvio. Un
minuto, dopo quattro sere, la trovò sola nel suo palco, all'Apollo: ella
era pallida, come se avesse la febbre. E nascondendosi dietro il
ventaglio di piume, gli disse subito che per giunta, in quell'ultimo
giorno di convegno, aveva incontrato l'onorevole Oldofredi in Piazza
di San Pietro e che l'aveva squadrata con un certo ghigno beffardo.
Oldofredi era vendicativo. Per ultimo, arrossendo per la vergogna, la
soave donna dovette confessargli che temeva, temeva, finanche del
cocchiere e del cameriere: temeva che l'avessero spiata. E vedendolo
sbalordito, gli soggiunse, presto presto, mentre bussavano alla porta
del palco:
«Verrò, verrò, dove voi volete.»
29. V.
Quando rientrò, di notte, nel suo quartierino dell'Angelo Custode,
Francesco Sangiorgio aveva un po' di febbre. La promessa fattagli da
donna Angelica gli sconvolgeva il sangue: nella testa sentiva un
grande ronzio, una confusione. E subito, entrando nel salottino, una
impressione di freddo, il cattivo odore che vi regnava, sempre, gli
aveva dato un fremito e una nausea: per non vedere quel brutto
posto, così nudo, così miserabile, non accese nè il lume, nè il
fiammifero. Si buttò, vestito, sul letto, sognando la casa dove
avrebbe ricevuto donn'Angelica.
La sua fantasia accesa, rovente di febbre e di amore, fluttuava nelle
visioni. Non sognava nulla di preciso, di determinato, egli vedeva
innanzi ai suoi occhi aperti una fuga di stanze calde e profumate,
dalle triplici tendine profonde, dal tappeto morbido che attutisce
qualunque rumore di passi; ma non sapeva dove fossero, queste
stanze, non si raccapezzava in che posto di Roma si trovassero, ora
supponeva che fossero al Gianicolo, ora a Piazza Navona, ora a Via
Sistina, ora a Piazza di Spagna. E questa indecisione, questo non
sapere, lo crucciava molto, era il tormento di quelli che fanno un
sogno cattivo e incompleto, e volendo camminare, non possono
muoversi, volendo gridare, non trovano voce. Dove era la porta per
entrare in quelle stanze, dove era situata la scala, dove sporgevano
le finestre?
Egli vedeva, sì, ogni tanto, come un lampo di colori, il roseo di una
tenda serica, sul muro; il riflesso fulvo di una poltrona di felpa; la
scintilla metallica che partiva da un coltello damaschino colpito dalla
luce; il disegno minuto di una trina antica giallastra, ma tutto questo
confusamente, senza saper dove, nè come, nè quando, nulla. Dove
si sarebbe seduta donn'Angelica, entrando in quella casa, dove
30. avrebbe posato i bei piedini stanchi, dove avrebbe appoggiato il bel
braccio, per sorreggersi, nella sua posa abituale, dolcissima?
Gli pareva che in quella casa non vi fossero nè sedie, nè divani, nè
sgabelli, nè tavolini; gli pareva che fosse un gran posto vacuo,
profondo, incommensurabile, in cui lui e donn'Angelica si fossero
perduti.
Il suo sogno lo faceva spasimare d'angoscia, l'incubo gli premeva sul
petto, la febbre gli mordeva il sangue, la testa gli girava.
Disteso sul letto, in un dormiveglia, soffrendo e pur godendo del suo
sogno, egli non si moveva per paura che tutto s'involasse, anche la
promessa di donn'Angelica: e ogni quarto d'ora che passava, nel
parossismo, il sogno cambiava d'aspetto, si tramutava, si
arrovesciava stranamente, diventava pauroso o comico. Talvolta gli
pareva che stesse da tempo immemorabile aspettando
donn'Angelica, la quale non veniva mai, mai: le tende bianche erano
diventate prima gialle, poi bige; le stoffe si erano scolorite, il tarlo le
aveva rosicchiate, cadevano in pezzi, cadevano in polvere; i mobili
erano tutti sporchi, cadenti per vecchiaia; in fondo alle giardiniere vi
era un po' di cenere puzzolente che era stata fiore; le mura stesse
stillavano umidità e vecchiaia, sembravano danneggiate. Ed egli
stesso, Sangiorgio, nell'attesa lunghissima, sembrava diventato un
vecchione più che centenario, lento, infermo, con una lunga barba
bianca e la vista indebolita. Donn'Angelica non veniva mai, mai; e
Sangiorgio continuava ad aspettarla, paziente, innamorato. Poi, una
gran voce aveva tonato in quella casa tre volte: donn'Angelica è
morta, donn'Angelica è morta, donn'Angelica è morta.
Alla prima volta erano caduti in un ammasso di frantumi i mobili, alla
seconda il vecchione era caduto morto, col viso in terra e le braccia
aperte, alla terza le mura della casa erano crollate, seppellendo
tutto, facendo una tomba di quella casa che donn'Angelica non
aveva voluto visitare.
Si tramutava il sogno, continuamente. Gli pareva che nel giorno del
primo convegno, in quella casa, egli, per un caso stranissimo, avesse
31. dimenticata l'ora dell'appuntamento e si torturava per
rammentarsela, le due o le tre, non sapeva bene, non giungeva a
ricordare.
Poi si avviava da Montecitorio a mezzogiorno, per essere in tempo:
ma incontrava in un corridoio il vecchio presidente del consiglio, che
lo fermava, e, carezzandosi la barba bianca fluente, gli parlava della
Basilicata, del sale, dei contadini, di cose che egli non capiva troppo
bene, tanto il suo spirito era altrove.
Arrivava a sbrigarsi di costui, ma sulla soglia del portone incontrava
l'onorevole Giustini, la cui gobba era diventata immensa e il cui
sorriso velenoso gli faceva male al petto, come se un succhiello gli
cavasse il sangue. Giustini gli sbarrava la via, inarcando le gambe
storte, parlandogli di Roma, di Roma che fingeva di dormire nella
indifferenza e che era invece bene sveglia: e gli scoteva il braccio,
facendogli male. Passava il tempo, passava. Sangiorgio si scioglieva
bruscamente da Giustini, correva per Piazza Colonna, quando una
voce femminile lo chiamava, da una carrozza ferma. Non avrebbe
voluto arrestarsi, ma si sentiva trascinato, suo malgrado, verso
quella carrozza: era un paio di occhi neri e scintillanti che lo
guardavano con amore e con desiderio, erano certe labbra
sanguigne e provocanti che lo avevano baciato e lo volevano baciare
ancora, era la mano molle e carezzevole, era il profumo forte e dolce
di violetta, era donna Elena Fiammanti che gli aveva voluto bene e
gliene voleva, e, quasi senza muovere le labbra, gli diceva:
«Vieni, vieni, rammentati tutto, rammentati quando ci siamo visti, il
giorno di Natale, al Gianicolo; rammentati la notte del veglione e la
luna a Piazza di Spagna; rammentati le rose che ho lasciate a casa
tua, quel giorno; rammenta il bacio che ti ho dato, nel teatro, dopo il
duello; rammenta tutti i baci, tutto l'amore; vieni con me, con me è
la gioia, con me è il piacere, con me non piangerai, con me non
dovrai spasimare. Vieni dunque, mi dirai tutto quello che soffri, ti
consolerò: non ti dirò quello che soffro, non dovrai consolarmi.»
Ma egli chinava il capo, si turava le orecchie, chiudeva gli occhi, per
non udire quella voce ammaliatrice, per non vedere quel volto farsi
32. triste triste, diceva fra sè un nome, Angelica, il suo talismano, e
pareva che donna Elena ne ricevesse il contraccolpo nel cuore, che si
buttasse indietro, nella carrozza, come disperata e dicesse al
cocchiere di fuggir via. Sangiorgio correva, correva, per la strada,
tutte le carrozze che incontrava, erano piene; tutti gli amici che
incontrava, volevano fermarlo; la folla che gli si assiepava dintorno
gl'impediva di camminare; i cani gli attraversavano la via. Egli
correva, correva, affannava, affannava, oramai non era più in tempo,
era troppo tardi, donn'Angelica era già arrivata, sarebbe già partita,
non avrebbe atteso. Quanto lungo il cammino, quanti ostacoli,
quante difficoltà! Infine, giunto al posto, rosso, ansimante, perso, si
doveva fermare: innanzi al portone, l'onorevole Oldofredi
passeggiava, ironico, minaccioso, ridente. Gli rideva finanche sul
volto, sanguigna, la ferita che Sangiorgio gli aveva fatta. E faceva la
guardia, andava e veniva, bruttissimo, odioso, odiante, implacabile.
. . . . . . . . . .
La casa era al numero 62, in Piazza di Spagna, al primo piano. Sulla
soglia del portoncino, un fioraio ambulante aveva posato il suo largo
cesto pieno di fiori primaverili, le violette pallide e profumate di
Parma, le rose doppie, vivissime, le giunchiglie volgari dal forte
odore; e tutto lo scalino era bagnato di acqua, vi era appena posto
per entrare. Mancava il portinaio, come in quasi tutti i portoncini di
Piazza di Spagna; e le scalette erano oscure: il pianerottolo, dove tre
porte si aprivano, era appena illuminato da un piccolo finestrino.
Sulla porta di mezzo, un biglietto da visita era conficcato con due
spilli, il biglietto dell'onorevole Francesco Sangiorgio. Nella piccola
anticamera un po' scura, Noci aveva messo un grande cofano da
nozze, nero, antico, delicatamente scolpito, su cui era disteso un
lungo e sottile cuscino di seta rossa e gialla; tre o quattro sedie di
legno bruno, cupo, scolpito, e un tavolino uguale; dal soffitto una
lampada di bronzo pendeva, sempre accesa, dando una falsa
apparenza di notte a quell'anticamera un po' tetra, di cui una grande
33. tela dipinta copriva il triviale soffitto e le pareti, nascondendo le
grottesche pitture e il parato di carta di Francia.
Dopo veniva il salotto che aveva un grande balcone sulla piazza, un
salotto largo e luminoso, sempre pieno di sole: ma certe tende
antiche, di un lampasso roseo e verdigno molto chiaro e un grande
pezzo di merletto antico giallastro, innanzi al balcone, mitigavano la
luce. Le pareti erano tese di un raso molto lucido color nocciuola, ma
scomparivano sotto le stoffe orientali, sotto i tappeti persiani, sotto i
brani di broccato vecchio, tesi, aggruppati fantasticamente, tenuti
fermi qui da un grande piatto lucidissimo di ottone a sbalzo, altrove
da una scimitarra artisticamente cesellata, altrove da un grande
fascio di piume di pavone disposte a ventaglio. Un rosario di legno di
sandalo, una di quelle lunghe collane a grani profumati, che le donne
turche girano e rigirano continuamente fra le dita, per profumarsi le
mani e per ingannare, con un esercizio monotono, il tempo che non
vuole passare, il rosario turco che non è preghiera, ma è un piacere
del tatto e dello spirito, il comboloi, pendeva da una gran parete; un
grande velo biancastro a stelline d'argento, il mantello delle donne
orientali, il feredjè, pendeva da un'altra. Ma la nota dominante,
stranissima, era, sopra una parete, un pezzo di broccato giallo
antico, qualche cosa come un oriflamma, tagliato nella larghezza e
nella lunghezza da una croce che acciecava, che risaltava su tutte le
mezze tinte di nocciuola, di mattone smorto, di rosa pallidissima che
regnavano in quel salotto. Vi era una morbidezza profonda, mancava
sapientemente qualunque mobile di legno, non un tavolino dagli
angoli duri, non uno sgabello: il velluto, la seta, il raso nascondevano
qualunque traccia di durezza. In certi leggierissimi vaselli opalini dei
giacinti rosei, carnicini, violetti, bianchi, lilla pallidissimi; sopra un
divano, da un vaso giapponese, una rosa si era sfogliata, come di
languore. Dei cuscini di piume, larghi, di seta rossa, rosea, scarlatta,
porporina, rosa secca, in tutte le gradazioni del rosso, dal seno della
rosa bianca sino al tetro color vinoso, erano ammucchiati in un
angolo: se ne poteva formare un sedile, un letto, un trono.
La stanza da letto dava pure su Piazza di Spagna, ma con due
balconi: per smorzare la soverchia luminosità, oltre le tende e le
34. cortine, tutta la stanza era parata di velluto azzurro cupo, ricamato a
larghe striscie di seta bianca e di argento. Ma non vi era letto,
sembrava piuttosto un altro salotto, più cupo, più severo, senza tanti
ornamenti: vi era un basso e largo divano, senza spalliera, su cui era
stata buttata una grande coltre di velluto azzurro, ricamata
d'argento, con una cifra in mezzo, un'audacia del tappezziere, un'A
lunga e sottile. Sopra vi proiettava la sua ombra una tenda azzurro
cupo, tutta stellata, come il firmamento: una tenda che formava un
triangolo strano, rialzato da cordoni e da fiocchi d'argento.
Rallegravano quella tetraggine uno scrigno di legno di rosa, due o tre
di quei mobili piccolini e civettuoli che la Pompadour amava.
In un vaso alto del Giappone, un vaso dove un uomo si poteva
nascondere, una musa paradisiaca allargava le sue foglie doviziose,
dalla grossa vena sanguigna: nessun'altra pianta, nessun altro fiore.
E il piccolo stanzino da toilette, accanto, era parato di casimiro
bianco e di rosso, con un nécessaire d'argento brunito, segnato colle
cifre di Francesco Sangiorgio: due enormi azalee bianche vi
fiorivano.
In quattro giorni, cedendo alla fretta del deputato, l'artista gli aveva
messo su quella casa: sulle prime Sangiorgio si era tenuto
guardingo, andando ogni tanto a sorvegliare: ma la impazienza lo
mordeva troppo, tutto gli sembrava troppo brutto per lei, troppo
lento per il suo amore. Se ne andò via, deciso a ritornare solo
quando la casa fosse finita, dormendo e sonnecchiando e sognando
nel suo freddo e puzzolente quartierino di Via Angelo Custode,
mentre a Piazza di Spagna preparava il nido dell'amore.
Egli vi ritornò, solo quando tutto era a posto, e ne ricevette una
impressione gioconda e dolorosa. Che avrebbe ella detto? Non era
troppo morbido quel salotto per la bella e composta persona, che
non si abbandonava mai sopra una poltrona? Non era troppo
sensuale tutto quell'Oriente per la casta fantasia della soavissima?
Non erano forse troppo voluttuosi quei giacinti, fiori senza foglie,
carnali in tutta la loro efflorescenza? E quell'ammasso di cuscini
sanguigni e delicatamente rosati, non erano forse un invito troppo
35. manifesto al riposo, al perfido riposo, che è l'abbandono dell'anima?
La stanza da letto gli pareva bella per la sua severità: ma giammai la
pura signora sarebbe entrata lì dentro. Egli era soddisfatto e turbato:
aveva chiesto all'artista un quartierino destinato all'amore, e costui
glielo aveva fatto. Ora quell'ambiente chiuso, sacro, quei profumi
floreali ed esotici gli sconvolgevano il suo ideale: o piuttosto
facevano sorgere in lui un nuovo ideale, più vivo, più umano.
. . . . . . . . . .
Qui, in questo quartierino che il lieto sole di primavera riscaldava,
conquistando Piazza di Spagna dal bigio palazzo di Propaganda Fide
sino al biondo palazzo dello Albergo di Londra, innanzi al caminetto
dove sempre scoppiettava e divampava un fuoco di legna secca,
Francesco Sangiorgio aspettava donn'Angelica. Quando
l'arredamento fu finito, egli ricominciò a insistere con lei, dovunque
la trovava per un minuto solo, in casa, al teatro, alla tribuna di un
diplomatico, fra due porte, in un corridoio, sulla soglia di casa sua,
dovunque le poteva dire una parola, dirigere uno sguardo di
preghiera senza esser visto, senza essere udito. Diventava la sua
idea fissa quel convegno nella casa a Piazza di Spagna, non sapeva
balbettare altro, non chiedeva altro. Ella, pentita della sua
concessione, ripresa dagli scrupoli, diceva ancora di no, scrollando il
capo, non persuasa, diffidente di lui, dell'amore, paurosa delle strade
e delle persone. Ella non parlava delle sue paure, dei suoi sospetti,
ma rifiutava sempre, ostinata, vinta di nuovo dalla indolenza della
donna virtuosa, guarita da quell'impeto di febbre, scampata da quel
desiderio di peccato spirituale. Egli s'inaspriva, sdegnato di quei
sospetti, amareggiato dalla resistenza, urtandosi colla violenza del
suo temperamento e del suo desiderio contro la mitezza di
donn'Angelica, spezzandosi contro quel rifiuto. Uno scontento
profondo di sè e dell'amore cominciava a nascergli nell'anima: e
aveva il senso di una grande ingiustizia che la donna amata gli
usava. Una sera, soccombendo all'amarezza per l'ingratitudine di
donn'Angelica, le disse, tremando di ira e di dolore:
36. «Infine.... che temete? Voi siete sicura, voi che avete l'anima
invincibile: non ho io sempre fatto quello che voi volevate? Non
sentite, nella vostra invincibilità, Angelica, che non correte nessun
pericolo, in casa mia? La vostra difesa è in voi: e voi siete senza
debolezza, senz'abbandono.»
Ella rizzò il capo, tutta rosea di coraggio e di orgoglio:
«Verrò,» disse, come una eroina sicura della vittoria.
«Quando?»
«Non so: non so bene, aspettatemi, conoscete le mie ore.»
E null'altro precisò. Non credeva di dovergli dire altro, credeva che
egli abitasse proprio lì, in Piazza di Spagna e non gli costasse nulla di
aspettarla, credeva alla sua divozione; come tutte le donne,
calcolava solo il proprio sacrificio, non sapeva misurare quello altrui.
E tutti i giorni, in quella fine gaia di aprile, Francesco Sangiorgio
andava ad aspettarla nel salottino, a Piazza di Spagna. Egli si alzava
un po' tardi, nell'ambiente scuriccio e sudicio di Via Angelo Custode,
andava attorno, macchinalmente, vestendosi, bevendo la cattiva
tazza di caffè che la servaccia gli portava, non toccava nè un libro,
nè una penna, uscendo subito da quella brutta casa, dove si sentiva
soffocare. Per istinto si recava a Montecitorio, ma non andava nei
corridoi, nè alla sala di lettura: si spingeva sino alla posta, preso da
una curiosità istintiva, sempre, cercando le sue lettere. Incontrava
qualche collega, che gli domandava:
«Che fai, che non ti si vede più? Perchè non vieni alle sedute?»
«Lavoro, lavoro,» rispondeva lui, pensoso, passandosi una mano
sulla fronte.
Oppure:
«Siete stato in Basilicata, Sangiorgio? E quelle relazioni, per
l'inchiesta agraria, saranno a buon termine?»
«Sì, sono stato in Basilicata,» rispondeva lui, arrossendo,
imbarazzato, per un minuto, dalla bugìa. «Le relazioni.... presto,
37. presto saranno finite,» soggiungeva vagamente, «....è un lavoro che
mi affoga...»
Ma cercava di evitare questi incontri, non sapendo mentire,
turbandosi innanzi a queste risorgenti voci della coscienza: e se ne
andava, leggendo le sue lettere, senza intenderne il senso, preso da
una grande indifferenza innanzi a quelle domande dei suoi elettori,
innanzi a quelle raccomandazioni dei sindaci, pressanti, insistenti,
noiose. Sino a un mese prima, era stato un deputato freddo, ma
compìto, rispondendo sempre, a tutti, talvolta il giorno stesso, non
curandosi delle persone poco influenti, saggiamente rendendo
servigi ai grandi elettori, a tutti coloro che potevano essergli utili,
appagando costui con una promessa, per qualcuno ottenendo quello
che desiderava, in realtà non disgustando nessuno. Ma tutti quegli
affari gli erano prima tornati indifferenti, ora lo seccavano, lo
irritavano: egli pensava solo a quel nido odoroso dove forse, in quel
giorno, la dolce signora sarebbe venuta, rimetteva in saccoccia, con
un moto nervoso, quelle lettere e andava a far colazione, presto, alle
Colonne, solo solo, assorbito dal suo pensiero, immerso in una
contemplazione buddistica dell'amore. Mangiava senza vedere: e se
a un tratto la coscienza gli rimproverava di non rispondere alle
lettere urgenti, si faceva portare della carta, il calamaio e la penna, e
scriveva frettolosamente, brevemente, sopra un angolo del tavolino,
lasciando raffreddare la bistecca.
Ma dopo un paio di lettere, la stanchezza, l'impazienza lo vincevano:
e pagava il conto, andava via subito. Talvolta le lettere scritte gli
restavano in tasca due o tre giorni, le dimenticava, non servivano
più.
All'una era sempre in Piazza di Spagna, comprando dei fiori da tutti i
fiorai, caricandosi di rose, di giacinti, di mammole, infilando subito il
portoncino, preso da un'ansietà, quasi che donna Angelica dovesse
essere là ad aspettarlo, lei, mentre egli aveva la chiave in tasca.
Subito, l'ambiente calmo, ricco, felice del quartierino gli procurava
una sensazione di benessere. Là, certo, sarebbe venuta
donn'Angelica: lo aveva promesso, sarebbe venuta. E si metteva ad
38. accendere il fuoco, accovacciato per terra, come uno sposo
premuroso e innamorato: non era contento, se non quando la
catasta divampava, donn'Angelica adorava il fuoco vivo, che rallegra
le fibre e riscalda il cuore.
Poi girava per la casa, metteva fiori nei vasi, cambiandovi l'acqua,
buttando via quelli appassiti, nella piccola cucinetta vuota: e certe
volte mutava posto a un fascio di giacinti, univa le mammole alle
rose, le disuniva, mai contento, occupandosi a quel lavoro d'amante
con un grande ardore. Girava per la casa: sempre la stanza da letto,
con quel grande divano basso e molle, gli dava un crollo ai nervi.
Ritornava in salotto, accanto al fuoco, al fuoco casto e familiare, al
fuoco che purifica e che è l'immagine dell'anima nobile. Ivi
aspettava.
Per fortuna, la contemplazione del fuoco è un grande diletto per gli
spiriti pensosi e raccolti; così Francesco Sangiorgio poteva dominare,
quasi cullare, la sua impazienza, poichè donn'Angelica non veniva.
Passando in quel salotto, accanto al caminetto, cinque o sei ore al
giorno, solo solo, senza osare di muoversi, egli aveva imparato a
seguire tutta la vita del fuoco, dalla lieve scintilla che si comunica, si
propaga, si dilata, si dilata, sino alla vampa larga e crepitante: dalla
incandescenza viva e forte, sino alla scintilla che si va restringendo,
si appanna, muore. L'occhio suo, macchinalmente, in quei lunghi
pomeriggi primaverili, soffocanti di dolcezza, seguiva la vita,
l'accensione, la morte di ogni tizzo: e mentre tutta l'anima sua
invocava e aspettava donn'Angelica, consumandosi come lui, con gli
stessi ardori, gli stessi avvampamenti, gli stessi languori smorenti a
poco a poco. Le maggiori ore di fiamma erano dalle quattro alle sei,
in cui donn'Angelica avrebbe potuto venire: allora nel cuore
dell'uomo e nel fondo del caminetto, era tutto un bruciare altissimo,
una temperatura dove tutto si strugge, il coraggio e il metallo.
Ella poteva capitare da un minuto all'altro, era forse per le scale, si
fermava sul pianerottolo, esitante, tremante: ed egli chiudeva gli
occhi, nel sussulto caldo e febbrile di quell'idea: ogni giorno, dalle
quattro alle sei, l'eccitamento dei nervi diventava acutissimo; e in
39. quelle due ore l'incendio di una catasta di legna lambiva le pareti del
caminetto. Poi veniva l'imbrunire: il desiderio e la speranza
s'illanguidivano nel cuore dell'amante, accasciati in un sopore,
s'illanguidiva il fuoco nel caminetto: cadeva la luce, cadevano le
vampate, la cenere bigia del crepuscolo discendeva sulla terra,
sull'uomo, sull'amore, sul fuoco. Egli usciva di là, ogni sera, alle sette
e mezzo, fra il freddo della strada e della sera che lo colpiva: fra il
freddo del disinganno che era in lui. Andava, smorto, tutto
raggricchiato, con le mani in tasca e il capo chinato sul petto, come
un miserabile febbricitante, che ha addosso il ribrezzo del male,
come un giuocatore che ha perduta l'ultima sua partita.
E così, come il giuocatore che ogni giorno si abbatte nella sua
delusione, ma ogni notte ritrova le forze per sperare e per giocare,
più ardimentoso, più audace, l'amatore avvilito nella sua speranza
ritrovava la sera al cospetto di Angelica la fede nell'Amore. Non la
vedeva che fra la gente, non poteva quasi mai parlarle, ma lo
sguardo di lei gli diceva sempre, esortandolo alla pazienza, alla
rassegnazione:
— Aspettami, aspettami ancora: verrò.
Il giorno seguente, malgrado una voce scettica che gli parlava
nell'anima, malgrado tutte le delusioni passate, egli andava a
chiudersi più presto nel quartierino di Piazza di Spagna. Era una follia
sperare che ella avesse potuto venire prima delle due: ma, nella sua
impazienza, egli arrivava ogni giorno più presto, penetrando nel
salotto a mezzodì col bel sole meridiano di aprile, ne usciva alla sera,
sempre più tardi, alle otto. Alle volte, accanto al fuoco semispento,
un assopimento lo prendeva, come quelli che colgono i febbricitanti:
sonnecchiava, sognava quasi, svegliandosi in sussulto, credendo di
aver udito squillare il campanello. Non era nulla: donn'Angelica non
veniva. E in quell'attesa, un grande cruccio lo teneva: quando non
doveva aspettare, immobile e solitario, donn'Angelica; quando non vi
era ancora l'idea del quartierino, egli, in quelle ore, aveva la libertà
di cercarla dovunque, al Parlamento, a una conferenza, a un
40. ricevimento, a una passeggiata; poteva trovare un pretesto per
andare, finanche, un minuto, in casa di lei: poteva, in mancanza di
meglio, parlare di lei, un minuto, con don Silvio. Ma ora no. Mentre
ella andava e veniva, forse a villa Borghese, forse a una visita di
amiche, forse a una seduta parlamentare, mentre ella beava di sua
presenza le donne, gli sciocchi, gli indifferenti, e il primo imbecille
capitato poteva vederla, salutarla, parlarle: egli, che l'amava, che la
desiderava, che viveva soltanto per lei, era ridotto all'inazione,
all'impotenza, solo solo, fra quattro pareti, martoriato da due
pensieri:
— Dove sarà? Verrà?
Prima, quando non vi era ancora l'idea del quartierino, egli faceva
ancora parte del consorzio umano. Andava, veniva fra le gente,
dominato da un sol pensiero, è vero, ma infine avendo tutte le
apparenze dell'esistenza. I colleghi lo incontravano, discutevano con
lui di politica, egli li ascoltava, macchinalmente, rispondeva loro,
come un musicista che suona a orecchio; fingeva d'interessarsi
ancora alla sua vecchia passione, — era ancora vivere, quello. Ma,
ora, fra lui e la politica, fra lui e la vita, una grande divisione era
accaduta: egli compariva un minuto solo a Montecitorio, di buon
mattino, per quell'abitudine di aprir la posta, poi il quartierino di
Piazza di Spagna ingoiava quel pensiero e quell'azione, sequestrava
l'attività e l'attenzione di Sangiorgio. Tanto che, alla sera, quando si
metteva in giro, per cercare donn'Angelica, egli ricascava nella vita,
come un trasognato, non sapeva nulla, non aveva inteso e visto
niente, non aveva parlato con nessuno, non aveva letto i giornali,
aveva l'aria rimbecillita: tanto che sul conto suo cominciavano a
correre di questi giudizi:
«Quel Sangiorgio! pareva una forza, ma che delusione....»
«Tutti così i meridionali: gran fuoco di paglia che non illumina, nè
riscalda...»
«Uomo finito, Sangiorgio...»
41. Sentiva egli questo ghiaccio che gli si formava intorno, questo
abbandono del pubblico, questo uscire dalla vita pubblica: aveva il
senso di questo dissidio fra il suo spirito e la politica: intendeva che
ogni giorno di assorbimento nel nuovo ideale consumatore lo
allontanava, per migliaia di miglia, dai vecchi ideali: tutto intendeva.
Non cieco, no: non acciecato, ma veggente e volente il sacrificio.
Non vittima mormorante parole di disperazione, non ribelle che
oltraggia il tiranno: ma martire soddisfatto, felice, che vede scorrere
con delizia tutto il miglior sangue delle sue vene. Anzi, più il suo
amore gli toglieva, più cresceva il suo ardore: maggiore il desiderio
del sacrificio. Così, una specie di lugubre, dolorosa voluttà lo colpiva,
quando al mattino soleggiato egli abbandonava le vie piene di gente
e il lavoro e il movimento e la vita, per andare a rinchiudersi in una
stanzetta, ed aspettare. Come il fanatico adoratore di Buddha, egli
saliva o discendeva tutti i cerchi dell'annichilimento, sino
all'astrazione completa e amarissima, sino al nirvano pieno di dolore.
. . . . . . . . . .
Era nel primo mattino odoroso di maggio, nel chiarore allegro, fra lo
scampanio festoso che veniva da Trinità dei Monti. Egli era entrato
nel suo tempio, carico di rose, ma col viso pallido ed emaciato: e
quella freschezza umida dei fiori, quel loro colorito di salute e di
bellezza, urtava con colui che li portava, triste e infermiccio come
una serata di ottobre carica di miasmi. Egli metteva al posto le rose,
con quell'aria quasi infantile di dolore che fa tanta pietà, per quanto
più è ingenua e silenziosa. Quando un lieve tocco del campanello gli
sconvolse i nervi, lo fece arrossire, gli mandò le lagrime agli occhi:
caddero le rose sul tappeto.
«Sono io, io,» disse, a voce bassa, donn'Angelica, entrando.
Ella non si guardò neppure intorno, entrò subito nel salotto, si buttò
sopra una poltrona, mormorando ancora:
«Sono io, sono io.»
42. Egli restava ritto innanzi a lei, contemplandola con gli occhi inumiditi
dalle lagrime, nulla osando dire, non avendo neanche il coraggio di
ringraziarla.
La dolce donna aveva tenuta la sua promessa, ella non poteva
mentire: col maggio odoroso, col mese delle rose, delle preghiere a
Maria Vergine, ella era venuta, la divina. Non lei era dunque la
Madonna a cui si offrono le rose? Senza dire niente, egli, preso da
un moto improvviso, andò raccogliendo per casa tutte le rose, sparse
per terra, già semiaperte nei vasi, e con un gesto gentile e delicato,
senz'altro soggiungere, gliele andava gettando in grembo, tanto che
la stoffa di un bigio chiaro del vestito ne rimase coperta.
«Ho tardato, ho tardato assai,» mormorò ella, chinando il capo a
quella pioggia di fiori, «ma non ho potuto...»
E fece un gesto vago, di donna oppressa. Egli la pregò di cessare,
con lo sguardo e col cenno della mano: non lei aveva bisogno di
giustificazione innanzi a lui. Ed era così profonda la consolazione
della sua presenza in quella casa, così completa la felicità del suo
cuore, che nulla voleva la turbasse, nulla di amaro, nulla che sonasse
rimprovero. La dolce donna, vestita di un tenerissimo color bigio, con
una lieve piuma bianca sul cappello, con una velettina bianca sugli
occhi che ne aumentava la giovanilità della fisonomia, posava
compostamente, con le ginocchia coperte di rose, con una mano
inguantata di grigio, abbandonata in grembo, perduta fra le rose;
l'altra manina inguantata pendeva fuori del bracciuolo con le dita
chiuse, come se avessero lasciate sfuggire qualche cosa. Egli sedette
là accanto, sollevò lievemente quella manina inerte, la portò alle
labbra, la baciò, con un soffio; parve che non se ne accorgesse.
«È bello, qui,» disse lei, placidamente, come se si trovasse in visita
da un'amica, «è molto bello.»
«Mi sembrò udirvi dire che amavate Piazza di Spagna,» disse lui.
«È la strada che più amo, avete fatto bene a venir qui. Io non ho
potuto, mai: non ho trovato. Quella vecchia Roma, dove io abito, è
43. così triste, così triste! Per questo esco sempre: ogni volta che io
esco, per quanta fretta abbia, passo sempre per Piazza di Spagna.»
«Venite a star qui, in questa stanza,» disse lui, sorridendo, come se
scherzasse.
«Vorrei, se potessi,» rispose ella, con molta semplicità. «Ma non
posso: debbo restare laggiù, nell'ombra. Che sole che ci è qui! Sulla
soglia delle porticine si vendono dei fiori: anche qui, entrando, ne ho
visti. Pare che trabocchino dalle case. Mi pare che in questa piazza
sieno tutte case di felici: tanto sole, tanta primavera, tanta bellezza!
Non siete felice voi, amico?»
«Sì,» disse lui, profondamente.
«Iddio vi assista,» diss'ella a voce bassa, congiungendo le mani,
come se pregasse.
Acuto l'odore delle rose di maggio. Ella ne odorò una a lungo.
«E in fondo alla piazza, per contrasto a tanta chiarezza, ai bei palazzi
bianchi, alle ricche botteghe d'oggetti d'arte, quanto è mai strano
quel grande palazzo bigio, severissimo, su cui stanno scritte le
parole: Propaganda Fide! — Propaganda Fide! non vi sembra che
queste due parole abbiano qualche cosa di vasto e di misterioso, che
si allarghino repentinamente per tutto il mondo? Io spero che voi
siate credente, amico.»
«Se voi credete, io credo, Angelica.»
«È così volgare essere atei! La religione è bella, è buona, vale molto
più di molte cose che il mondo apprezza. Siete mai stato in qualche
chiesa di Roma?»
«Ho visto le basiliche per curiosità di arte.»
«Sì, sì, sono grandi chiese vuote, non servono a nulla. Bisogna
vedere le piccole chiese di Roma, quelle che servono per pregare. Ve
n'è una quassù, la Trinità, dove cantano le monachelle, ogni
domenica, dietro la grata: che soavità di canto! Non le vedete, vi
44. sembrano anime esalanti il loro amore e il loro dolore. Ci andremo
una volta insieme, dite, nevvero?»
«Se voi volete, io ci verrò.»
«Io vorrei che pensaste quello che penso, amico mio: vorrei che
sentiste quello che sento. Non indovinate, forse?»
«Vi voglio tanto bene, indovinerò,» disse lui, con quella soffocazione
di voce che gli veniva quando le parlava del suo amore.
«Non dite questo,» ella mormorò arrossendo come una fanciulla,
«avevate promesso di non dirmelo.»
«È che, talvolta, ciò è più forte di me. Lasciatemelo dire, qualche
volta, Angelica: siate dolce, voi che siete la dolcezza. Io vi voglio
tanto bene, tanto bene, che me ne muoio. Sono solo, non amo altri,
non debbo amare altri, voglio bene a voi, Angelica.»
E vedendolo diventare rosso di passione, ella non gli disse più nulla,
ma leggermente, come l'ala di un uccello, come una foglia d'albero,
agitata dalla brezza, gli agitò la manina sul volto. Egli tacque, come
un fanciullo vergognoso, un po' sorridente, un po' imbronciato,
sentendosi rinfrescare il viso da quel soffio. Ella sorrise, con una
certa malizia ingenua, prima di fargli questa domanda:
«È vero che avete amato donna Elena Fiammanti?»
«No, mai.»
«Allora ella ha amato voi?»
«No, neppure.»
«Voi non mentite mai, mi pare?»
«Mai.»
«Eppure ella deve avervi amato, credo. Sembra una donna leggera,
volubile, ma deve avere il cuore molto buono, molto affettuoso. Io
non la vedo quasi mai, ella preferisce la compagnia degli uomini a
quella delle donne. Proprio mai le avete voluto bene?»
«Io non ho voluto bene a nessun'altra donna che a voi, Angelica.»
45. «Non parliamo d'amore, amico. Me lo avete promesso. Se io ne
parlo, non mi rispondete: lasciatemi dire, non m'interrompete. Io ho
bisogno di pensare ad alla voce, accanto a una persona che
m'intenda, che abbia per me dell'affetto, che mi compatisca. La
pietà, anzitutto: voi sarete pietoso per me, nevvero, amico?»
«Angelica, Angelica, non dite questo...»
«Perchè, vedete, io sono come una bimba, talvolta, io dimentico la
mia parte di donna grave, di persona seria. Io ridivento una creatura
timida e paurosa, superstiziosa, sognatrice, piena di stravaganze
puerili, di capricci inevitabili. Io sono serena, pel mondo, questo è il
mio dovere, questo è il mio obbligo: ma nell'ora bizzarra, nell'ora
della tristezza indefinibile, delle gioie impensate, che niuno sa
spiegare, io ho bisogno che qualcuno abbia pietà di me. Avrete voi
pietà di me, amico?»
E quasi a pregarlo, giunse le mani, gli rivolse gli occhi supplicanti:
egli si chinò, un minuto, sulla fronte dolce e bianca, la baciò così
lievemente, che parve un soffio, ma con tanta amorosa pietà, con
tanta innocenza di amore, che ella, commossa, si mise a piangere
silenziosamente.
«Non piangete, Angelica,» diss'egli, dopo un poco, con una voce
tramutata, «non piangete.»
«Lasciatemi piangere, lasciatemi: mi fa piacere, è uno sfogo: a casa
non posso piangere mai. Ora.... ora non piangerò più, vedrete, mi
passerà.»
Egli non insistette, parendogli di togliere un conforto alla povera
donna: ma le lagrime che le correvano per le guance gli procuravano
un grande spasimo, erano per lui un dolore acuto e un'acuta
seduzione, lo vincevano con la irresistibile voluttà dell'angoscia.
Mentre ella parlava, placida, sorridente, come se fosse nel proprio
salotto o in visita nel salotto di un'amica e non chiusa con un amante
in una casa recondita, dove nessuno sarebbe mai venuto a
disturbarli, egli poteva dominare il suo temperamento d'uomo, sino
al punto di non chiederle nulla, sino al punto di non parlarle di
46. amore: ma quando ella, dopo aver parlato del suo cuore ferito
insanabilmente, dei suoi sogni perduti, della sua giovinezza morta
per sempre, piangeva, piangeva su questa tomba, quando egli la
sentiva singhiozzare lievemente, immota, come una bambina che
soffra, allora egli non poteva resistere alla tentazione di prendersela
nelle sue braccia, di tenersela stretta a sè, per sempre, sino alla
ultima ora.
Sangiorgio chinava il capo per non veder più quel viso solcato di
pianto, quel petto che si gonfiava e alenava, come quello di un
uccellino: ma stanca, ella si acchetò, lentamente, conservando
ancora la malinconia di chi ha pianto, il profumo delle lagrime.
Guardava il merletto del suo fazzoletto molle di lagrime e taceva.
«Perdono, amico,» disse, dopo, come se allora soltanto si ricordasse
che egli era là.
«Non lo dite... non sono io il vostro amico?»
«Ohimè, sono una triste amica, io,» soggiunse ella con un sorriso
mesto: «non vi allieterò certamente la vita. Val meglio perdermi che
guadagnarmi, ve lo assicuro.»
«Io vi amo così, io vi amo come siete, io vi amo per questo,»
soggiunse lui, con una certa violenza. Ella tacque un momento,
guardando la striscia di sole meridiano che attraversava la tendina di
merletto di un giallo antico e si distendeva sul tappeto, sino al
mucchio di cuscini di seta rossa che aspettavano una bella donna
stanca. E un pensiero le venne, ella si alzò di scatto:
«Vado via,» disse.
«No, no,» egli mormorò, smarrito, come se non si attendesse mai a
quello schianto.
«Debbo andare,» rispose ella, seria.
«Perchè?» chiese egli, infantilmente.
«Per questo,» ed era ritornata al sorriso, per la ingenuità della
domanda.
47. «Restate ancora, siete giunta adesso.»
«È un'ora, è già tardi, debbo andare.»
«Un altro poco, un altro pochino,» insisteva lui, nella puerilità del
suo amore.
«Non posso, ve lo assicuro, sono restata già troppo.»
«Che vi fa un altro pochino?»
«Nulla mi fa, ma a che serve? Un minuto di più, cinque minuti di più,
che vi fanno?»
«Non mi tormentate, Angelica, siate buona, concedetemi altri cinque
minuti.»
«Rimarrò, ma esigete troppo,» diss'ella, crollando il capo, come una
mamma che concede, sforzata, una chicca al fanciulletto che
strepita.
E stettero fermi, presso la porta del salotto, una innanzi all'altro, ella
come annoiata e impaziente di andar via, egli come imbarazzato e
pentito di averla trattenuta. A un tratto un pensiero cattivo contrasse
il viso di Sangiorgio:
«È vero che non volete tornar più?»
«Tornerò, tornerò,» mormorò ella, facendo per uscire, parendole che
già fossero passati quegli eterni cinque minuti.
«Oh, non lo dite, voi non tornerete, non volete tornar più,» riprese
lui, tutto agitato, incapace di resistere a questa idea; «perchè
ingannarmi? Ora ve ne andate, ma non ritornerete più, lo so,
qualcuno me lo ha detto, dentro di me.»
«Ritornerò, ritornerò,» continuava a dire ella, con la sua voce dolce
e ferma che aveva il potere di calmarlo. E per dargli la tranquillità, lo
tenne per un momento sotto la freschezza del suo sorriso, sotto la
serenità del suo sguardo.
Egli si placava, mansuefatto.
«Promettetelo, allora, che ritornerete: potete promettermelo?»
48. «Ve lo prometto.»
«Per la cosa o per la persona che più vi interessano nel mondo?»
«Per la cosa o per la persona che più mi interessano nel mondo, ve
lo prometto.»
«Quando tornerete?»
«Questo non posso dirvelo: non posso venir sempre: quando potrò,
verrò.»
«Sta a voi, Angelica, di tornar presto. Ma non potreste dirmi, così, un
giorno, un'ora?»
«A che serve? Vi duole l'aspettarmi? Non siete qui in casa vostra?»
«Sì, sì: ma ditemi almeno un giorno...»
«Non vi piace l'aspettarmi forse? Avvi alcuna cosa che vi piace di
più?»
«Nessuna, Angelica, nessuna.»
«Ebbene?»
«Ebbene, se sapeste, per chi ha la dolcezza di aspettarvi, Angelica,
quale amarezza è il non conoscere nè il giorno, nè l'ora in cui
arriverete! Questo ignoto è un tormento, è un incubo, è una
sofferenza così grave, nel cuore, nel cervello, Angelica, che se la
sapeste, vi farebbe una grande pietà. Doveste anche ingannarmi o
non potere, ditemi un giorno!»
«Oggi è domenica,» ella disse, pensando, «nè domani, nè dopo
domani, nè mercoledì, il mio tempo è preso crudelmente. Verrò
giovedì, sì, giovedì, credo di poter venire giovedì.»
«Non prima?»
«Chissà! forse potrei, un minuto, in uno di questi tre giorni... ma
giovedì, sicuramente. A rivederci, amico.»
«Oh restate!...» egli gridò, trattenendola per la mano.
È
49. «È una fanciullaggine: a rivederci,» e fuggì per le scale, come
liberata.
Immediatamente egli sentì come mancarsi la vita: pareva che tutto il
sangue gli fosse andato via, per una ferita. Non dette neppure
un'occhiata al salotto dove erano stati, al posto dove si erano seduti
accanto: prese il cappello e scappò via, nella necessità di
raggiungere Angelica, nella folle speranza di raggiungerla. La piazza,
piena di sole, nel mezzogiorno, lo abbagliò: e istintivamente si buttò
per via dei Condotti. Ma non vedeva in niuna parte il bel vestito bigio
e la veletta bianca: a mezza strada tornò indietro, si mise a correre
verso Propaganda Fide, quel nome gli era rimasto, si perdette per S.
Andrea delle Fratte, la Mercede, San Silvestro, come istupidito, come
colui che ricerca con cura un oggetto, che sa sicuramente di avere
smarrito.
Ma la cara figura parea si fosse dileguata nel sole, poichè dopo aver
battuto tutte le vie che circondano Piazza di Spagna, correndo,
spronato da una necessità invincibile, Sangiorgio non arrivò a
ritrovarla. Camminò ancora per un'ora, pel Babuino, per Due Macelli,
Via Sistina, villa Medici, il Pincio, in preda a una febbrilità che non gli
faceva sentire la stanchezza, lasciandosi vincere dall'idea folle che a
quell'ora donn'Angelica avesse avuto voglia di passeggiare, dopo di
essere stata un'ora con lui: si trovò in Piazza del Popolo, solo solo, a
un tratto calmato, con le gambe stanche, con la testa piena di
confusione. Doveva esser tardi, molto tardi; gli parea che fosse
passata una lunga giornata piena di avvenimenti, sentiva la
stanchezza morale e fisica delle grandi giornate della vita umana:
cavò l'orologio. Era appena l'una e mezzo: l'altra metà del giorno
rimaneva innanzi a lui vuota. Macchinalmente, pian piano,
obbedendo a un antico istinto, si avviò pel Corso, alla Camera, con
un'aria annoiata, non guardando neppure le belle romane borghesi
che ritornavano dall'ultima messa, non riconoscendo neppure
qualcuno che lo salutava, in quel lieto polverio luminoso della
domenica di maggio. Andava al Parlamento, ma non sapeva neppure
se vi fosse seduta, era domenica: a ogni modo, andava lì per rifugio,
non sapendo dove buttare il suo corpo e il suo spirito. Gli sembrava
50. tutta nuova, tutta estranea la gente che incontrava, e come egli la
guardava, sorpreso di tante facce esotiche, pareva che anche
costoro lo guardassero sorpresi, non conoscendolo. In quell'ora, il
viavai dei deputati, intorno Montecitorio, era continuo, era un salire e
discendere di coppie d'amici, di gruppetti di uomini politici che
avevano fatto colazione insieme alle Colonne, al Parlamento, al
Fagiano, alle Sorelle Venete: Sangiorgio scambiava qua e là dei
saluti, come trasognato. Li vedeva discorrere, li udiva discutere:
passando accanto a loro, afferrava dei brani di discussione, ma non
intendeva nulla. Per fortuna, ci era seduta, quel giorno.
Sedette al suo posto abituale, ordinando per consuetudine fisica le
carte che aveva innanzi, udendo la voce del segretario Sangarzìa,
piccola ma sonora, leggere il processo verbale. Di che si trattava?
Questa voce gli sonava confusa nella mente, quelle parole gli
sembrava di averle udite altra volta, ma quando? Gli costava uno
sforzo enorme il raccapezzarsi: era come colui che, vissuto per un
certo tempo in un crescente esaltamento dei nervi, si abbandona poi
a una stanchezza profonda, nell'esaurimento di tutte le sue forze.
Assisteva a quella seduta, con la testa fra le mani, cercando di
afferrare il suono e il senso di tutto quello che vi si diceva, ma era
troppo sfinito, un torpore l'aveva invaso, aveva paura di
addormentarsi. Uscì nei corridoi, a fumare un sigaro. L'onorevole di
Carimate, il simpatico signore lombardo, presidente di una
commissione agraria, gli corse incontro:
«Ebbene, Sangiorgio, e la relazione?»
«La relazione... già... quando si sarebbe dovuta presentarla?»
«Ma, una settimana fa: siamo in grave ritardo. Io vi ho cercato
dovunque, non avete avuto due miei biglietti?»
«No, nulla,» rispose egli, mentendo.
«E ieri, ci hanno attaccati! Ho dovuto rispondere io, come
presidente. Siete stato ammalato?»
«Molto ammalato.»
51. «Si vede. Curatevi, Sangiorgio. Non avreste per caso le febbri?»
«Credo.»
«Curatevi. E quando potremo essere pronti?»
«Non saprei... fra otto giorni, forse... Ve lo dirò.»
Egli rientrò nell'aula, avendo già scossa da sè la penosa impressione
della menzogna. Si parlava ancora, l'onorevole Bonora, un
deputatino nuovo e noioso che parlava di tutto, seccava la Camera.
Il presidente, dal suo seggio, fece un piccolo cenno amichevole a
Sangiorgio: costui scese e andò a stringergli la mano.
«Ammalato?» domandò il romagnolo, dai leali occhi bruni.
«Un poco.»
«Perchè non chiedere un congedo?»
«Lo chiederò: ne ho bisogno.»
E ritornò al suo posto, esausto. Una irritazione sorda cominciava a
nascere in lui. Erano le cinque, gli pareva di stare da un secolo in
quella Camera. Sandemetrio, il deputato abruzzese e Scalìa, il
siciliano, parlavano accanto di un duello fra un giornalista e un
deputato; chiesero il suo parere: egli fece vedere la sua indifferenza.
Tutte quelle voci alte o basse finirono per dargli un gran fastidio.
Aveva caldo, ora: si sentiva male, in quell'ambiente: vi soffriva, non
poteva più respirare. Uscì precipitosamente, prese una carrozza,
difilato si recò al suo quartierino di Piazza di Spagna. Ivi si buttò a
braccia aperte sulla poltrona dove Angelica si era seduta,
appoggiata, e vi pianse su tutte le sue lagrime.
52. VI.
Angelica mancava, quasi sempre, agli appuntamenti. Talvolta, alla
sera, offrendogli una tazza di thè, gli diceva, in fretta, sottovoce:
«Domani, alle due.»
«Certo?» domandava lui, già deluso varie volte.
«Certo: non ne dubitate.»
E avendo fede in quella parola, la notte, la mattina seguente, di
quella parola viveva.
Venivano le due: ella non veniva; egli cominciava per credere a un
ritardo, pazientava, non si levava dal suo posto, per andare sino al
balcone. Poi lo vinceva la incertezza: e infine, come calava la sera, in
quel soave mese di maggio, egli perdeva ogni speranza, si abbatteva
in un accasciamento.
Quando la rivedeva, bella, serena, rosea, senza una preoccupazione
al mondo, amabile con tutti, prodiga di amabilità, un grande rancore
misto di tenerezza, di rimpianto, gli si affondava nell'animo.
Giammai, giammai ella avrebbe saputo la misura del suo amore e
delle sue sofferenze. Ella non si scusava o lo faceva con una parolina
vaga, detta fuggendo, con una intonazione di voce, con un discorso
fatto a un'altra persona, dove raccontava le infinite noie della sua
giornata — ed era sempre un concerto, una conferenza, una visita
agli asili, una funzione pubblica, noiosa o inutile, che glielo avevano
impedito.
Così, l'amarezza di Sangiorgio cresceva, vedendo quanto poco gli
appartenesse quell'anima, ma ella gli versava, in tutta la serata, la
dolcezza di certe occhiate velate, ella lo teneva sotto la lucentezza
blanda del suo sorriso, gli domandava un libro, o il suo ventaglio, o il
53. suo fazzoletto con tanta mitezza di voce, insomma ella era per lui
così femminilmente beatificante, che alla fine della serata egli era
vinto: nella sua debolezza, mentalmente, le chiedeva perdono di
averle serbato rancore.
Ma, ogni tanto, ella si rammentava del povero solitario che
l'aspettava, chiuso in una casa, in quella primavera crescente, che
era così dolce godere per le vie di Roma e per le sue ville e pei suoi
colli fioriti. Ella capitava a Piazza di Spagna, improvvisamente, in
un'ora imprevista, la mattina alle dieci, alle sette della sera, quando
egli era per uscire, non aspettandola più: una volta, con una di
quelle lunghissime piogge di maggio fra i primi lampi della elettricità
estiva, elle venne. Così, per il suo arrivo imprevisto, donn'Angelica
dava sempre una scossa profonda all'anima di Sangiorgio: egli non si
poteva abituare a quelle visite, fatte quando non aveva più speranza
di riceverle, quando era immerso nell'abbattimento della delusione o
in quell'ebetismo che hanno gli esseri assorbiti da un sol pensiero; la
sazietà non arrivava per lui, poichè ogni nuova apparizione di
donn'Angelica gli sembrava una grazia singolare, una gemma del suo
tesoro spirituale. E quando ella veniva, in quel primo minuto di
consolazione, la fastidiosa, crucciante piaga dell'aspettazione inutile
si guariva miracolosamente, l'uomo contristato, sofferente,
ammalato, risorgeva, come Lazzaro evocato dalla tomba dalla forte
voce di Gesù.
Tutto preso dalla sua amorosa realtà, egli si scordava di quello che
aveva sofferto per la sua amorosa visione: e nel cospetto dell'amata,
egli non sapeva che adorarla, che inginocchiarsi innanzi a lei,
baciarle le mani, umilmente, ringraziandola d'essersi ricordata di lui,
come il cristiano che dopo un periodo di travagli, sopportati senza
mormorare, batte la fronte sulle pietre della chiesa per una piccola
grazia ottenuta. E donn'Angelica rimaneva al posto dove l'amore di
Sangiorgio l'aveva elevata, dove ella sapeva restare con la sua forza
di temperamento e di carattere, una nicchia alta e solinga,
inarrivabile, inattaccabile, tabernacolo di virtù e di purità, donde ella
poteva degnarsi di abbassare gli occhi su colui che l'amava, poteva
sorridergli, tendergli le mani, lasciarsi baciare l'orlo dell'abito, divinità
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