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TTIP e TPP: Mettiamo un po’ d’ordine
Il Transatlantic Trade and Investment Partnership e il Trans Pacific Partnership hanno in comune
solo una cosa: il fatto che sono entrambi due accordi di collaborazione (partnership) concernenti
gli scambi commerciali internazionali… o forse c’è dell’altro?
Di recente, i media di tutto il mondo hanno dato notizia della decisione di Trump relativa al ritiro
degli Stati Uniti dal TPP. Francamente, nulla di così eclatante. L’accordo, sottoscritto fin dal 2015,
non era stato mai ratificato, né dagli altri governi firmatari e né dal Congresso USA, il quale,
evidentemente, non aveva alcuna intenzione di farlo, nonostante si dovesse trattare di un
passaggio quasi di carattere puramente formale, più volte caldeggiato dal suo promotore: l’ex
presidente Obama.
Ragion per cui, Trump, con tale decisione, ha semplicemente: dato atto della reale volontà del
Congresso, inferto un’altra picconata al lavoro del suo odiato predecessore, acquisito generale
consenso politico (e si sa, quanto ciò sia importante in America).
Senonché, complice forse la cattiva conoscenza dell’inglese (ma, più in generale, la cattiva
conoscenza… e basta) della nostra classe politica e anche di alcuni presunti giornalisti, il messaggio
che è passato all’opinione pubblica è stato quello di rinuncia di Trump al partenariato
transatlantico USA – UE, afferente il ben differente TTIP.
Facciamo, innanzitutto, un minimo d’ordine.
TTIP - Transatlantic Trade and Investment Partnership
Con la sigla TTIP, si intende riferirsi al Trattato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti
tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea. Si tratta di un accordo commerciale di libero scambio in corso
di negoziazione che, nelle lodevoli intenzioni indicate nel portale Web dell’UE, avrebbe i seguenti
obiettivi:
Un migliore accesso al mercato statunitense
L’UE mira a ridurre o eliminare i dazi doganali agli Stati Uniti, il che comporta grandi risparmi per i
consumatori e le imprese in Europa. Il TTIP, inoltre, agevolerà le imprese europee, in particolare
quelle più piccole, che si ritrovano di fronte a norme complicate quando intendono esportare.
Lavorare insieme per ridurre la burocrazia e i costi
L’UE e gli USA condividono spesso livelli di sicurezza e di qualità, a esempio per quanto riguarda le
automobili, l'ingegneria, i dispositivi medici, etc., mentre procedure tecniche diverse possono
rivelarsi costose, soprattutto per le imprese più piccole. Una più stretta collaborazione tra le
autorità di regolamentazione agevolerebbe il commercio, mantenendo al contempo i rigorosi livelli
di tutela dell’UE per i cittadini e per l’ambiente. Incoraggiare le autorità di regolamentazione a
condividere le loro competenze aiuterebbe inoltre ad affrontare le nuove sfide sul piano della
regolamentazione in settori quali le automobili elettriche o le nanotecnologie (con cui, peraltro,
non pare che le PMI abbiano molto a che fare – N.d.R.).
Rendere le esportazioni, le importazioni e gli investimenti equi e semplici
Questo accordo sarà il più avanzato di sempre per quanto riguarda le norme per la protezione
dell’ambiente e quelle sul lavoro. L’UE intende cooperare con gli Stati Uniti su queste importanti
questioni globali, mettere in comune la nostra influenza sulla scena internazionale, e indurre altri
ad agire responsabilmente lungo le intere catene internazionali di produzione.
A parte il fatto che non si riesce a comprendere bene – nella pratica – come tanti auspicati
vantaggi potrebbero riferirsi alle PMI piuttosto che alle grandi imprese (specie internazionali), si
tratterebbe di traguardi davvero pregevoli, se non apparissero ai più quanto meno un tantino
presuntuosi, posto che in proposito non si riesce a trovare la “quadra” nemmeno fra i 28 dell’UE.
Oltre tutto, come noto, a livello fiscale, gli USA dimostrano nei fatti di non volere ratificare il
modello Convenzionale OCSE: pretendono il FATCA dalle giurisdizioni europee, ma non aderiscono
al CRS, indispensabile a livello mondiale.
E non basta!
I Paesi membri dell’UE hanno adottato le normative dell’ONU che si occupano di lavoro (ILO –
International Labour Organization); gli Stati Uniti hanno ratificato solo due delle otto norme
fondamentali. Quindi si rischierebbe di minacciare i diritti fondamentali dei lavoratori.
L’eliminazione delle barriere che frenano i flussi di merci renderà più facile per le imprese scegliere
dove localizzare la produzione in funzione dei costi. Alla faccia di qualsivoglia Nexus Approach
raccomandato dall’OCSE nel noto Piano BEPS.
L’agricoltura europea, frammentata in milioni di piccole aziende, finirebbe per entrare in crisi se
non fosse più protetta dai dazi doganali, soprattutto se venisse dato il via libera alle colture OGM.
Altro che “quote latte”…
Il trattato avrebbe conseguenze negative devastanti per tutte le micro, piccole e medie imprese
(ma oseremo dire, in generale, per tutte le imprese che non fossero di caratura sovranazionale), le
quali non riescono già ora a reggere la concorrenza con le multinazionali. Figurarsi in un mercato
ancora più in balia delle strategie del più forte.
Ci sarebbero, inoltre, enormi rischi per i consumatori, posto che i principi su cui sono basate le
leggi europee sono diversi da quelli degli Stati Uniti, sia in tema di sicurezza alimentare che di
policy farmacologica.
I negoziati sono, poi, orientati alla privatizzazione di tutti i servizi pubblici, in base al pedissequo
rispetto del credo capitalista USA, inteso nella sua estrema accezione. Ma la storia – anche
recentissima – ci ha insegnato che la privatizzazione incondizionata è deleteria per qualunque
economia e, a conti fatti, non arreca neppure alcun miglioramento concreto alla qualità dei beni e
dei servizi offerti ai cittadini e alle imprese.
E tralasciamo ogni eventuale considerazione sul discorso Internet: provate a immaginarvi il Web
disciplinato dall’Obama thinking, il più grande spione che la storia abbia mai smascherato…
Ora, presumere la riuscita di un accordo per così dire “transatlantico” su queste basi, ci sembra
fortemente utopistico e irrealizzabile.
In ogni caso, le prima citate lodevoli intenzioni UE, come purtroppo accade spesso, sono state ben
presto contraddette dagli atti, con la previsione di una policy tutta protesa a favorire le grossi
lobby internazionali, a creare evidenti problematiche di dumping sociale, a eludere le principali
regole interne in materia di sicurezza, di salute pubblica, di lavoro e di protezione ambientale.
D’altronde, le premesse rappresentate dal fatto che l’artefice e maggiore sponsor del trattato
fosse stato appunto Obama, che i benefici del TTIP fossero stati illustrati da un’azienda di ricerca
finanziata dalle principali banche mondiali e che tutte le riunioni per concordarne il contenuto
fossero sempre state tenute rigorosamente segrete, sono fin da subito apparse quali elementi
fortemente negativi, che ci hanno sempre lasciati estremamente scettici sui veri motivi posti alla
base del TTIP e sui suoi reali obiettivi.
Quando, poi, hanno incominciato a circolare i primi documenti, si sono evidenziate delle
inconcepibili anomalie, tra cui, di certo la più macroscopica resta la progettata istituzione dell’ISDS
(Investor State Dispute Settlement). Il documento consentirebbe alle imprese UE o USA di citare
gli opposti governi, qualora questi introducessero democraticamente normative importanti per i
propri cittadini, le quali andassero a ledere i loro interessi passati, presenti e futuri. E, quel che è
peggio, dette controversie non sarebbero giudicate da un qualche Tribunale sovranazionale, ma
verrebbero affidate a una triade di Arbitri privati, i quali deciderebbero senza formalità di rito, in
forma inappellabile e – naturalmente – in segreto. Il trionfo dell’anti-democrazia e della legge del
più forte.
Ebbene, riassunto in breve il TTIP; resta ora da capire che cos’è invece il TPP.
TPP - Trans Pacific Partnership
Il TPP è uno dei più grandi accordi commerciali mai sottoscritti, firmato da dodici Paesi: Australia,
Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Vietnam e Stati
Uniti.
La firma del trattato era stata considerata il fulcro della nuova strategia di Barack Obama in Asia,
orientata a rafforzare i rapporti commerciali con il Giappone, per contrastare l’espansione
economica della Cina; la quale, infatti, risulta essere stata la grande assente tra i firmatari.
L’oggetto del TPP (questo, sì) non si discosta da quello del predetto TTIP. I Paesi che hanno
sottoscritto l’accordo (costituenti circa il 40 per cento dell’economia mondiale) volevano dare vita
a un nuovo blocco economico nel Pacifico, attraverso la riduzione delle tariffe doganali. L’accordo
prevedeva che cambiassero le regole sullo scambio di beni e servizi, i prezzi dei generi alimentari, il
costo delle cure ospedaliere e gli standard per lo scambio dei dati. Il TPP avrebbe dovuto inoltre
introdurre nuove regole sugli investimenti, sull’ambiente e sul lavoro. Nel complesso sarebbero
state interessate più di diciottomila tariffe doganali.
Perché, allora, nonostante cotante pregevoli intenzioni, il TPP non ha avuto effettiva attuazione?
Il comune denominatore dei due trattati (TTIP e TPP), è indubbiamente Barack Obama.
Andando a leggere le notizie concernenti il TPP, possiamo tutti immediatamente verificare che – a
esempio – le trattative sul libero scambio sono state contestate perché condotte in segreto (ovvio:
Obama tiene molto alla segretezza – chiaramente, solo alla sua).
Inoltre, parrebbe che in sostanza l’accordo sia un po’ troppo di manica larga nei confronti dei
grossi gruppi multinazionali a cui consegna ancor maggior potere rispetto a quello attuale. In
particolare, sembra che il risultato delle intese ipotizzate si risolva in pratica in una
regolamentazione fortemente “gratificante” per le lobby finanziarie (wolf Obama perde il pelo, ma
non il vizio).
Infine, anche il TPP permetterebbe alle aziende straniere di mettere in discussione le decisioni dei
governi locali, chiedendo il giudizio di commissioni di arbitrato internazionale composte da
professionisti privati, e la cui trattazione non sarebbe mai aperta al pubblico (come a voler
stendere un bel tappeto rosso a condotte di corruzione e di concussione).
Insomma, si ripete la storia del TTIP anche nel TPP; certo, a parte il fatto che restano due accordi
differenti (anzi, fortunatamente, solo bozze di accordi) e che concernono nazioni diverse.
Tornando proprio alla confusione dettata dalla somiglianza delle due sigle, a seguito della
menzionata “storica” decisione di Trump, i commenti dei nostri intrepidi e acculturati politici (e
giornalisti), non si sono fatti attendere.
Fra i primissimi a voler condividere la notizia tra i propri followers, l’esperto economista del PD,
Stefano Fassina:
“Trump cancella TTP Mossa giusta!”
Il TTP? E che cos’è?
Siccome, però, vogliamo mantenere la nostra posizione bipartisan, citiamo pure una fonte non
certo in linea di massima vicina al PD. Questo, il titolo de “Il Giornale”:
“Trump inizia a picconare Stop al trattato TTP”.
Come a dire: se un singolo errore poteva essere solo dovuto al classico refuso, due cominciano a
costituire quasi una prova.
Sempre il 23 gennaio 2017, Roberto Fico, presidente della vigilanza RAI e vicecapogruppo del M5S
alla Camera, così esterna la sua felicità:
“Contento che Trump abbia firmato il decreto per uscire dal TTIP!”
Uscire? E quando c’erano entrati? Ci è sfuggito qualcosa?
Gli fa eco, il suo valente collega di partito, Carlo Sibilia, che (fedele agli orientamenti internettiani
dei Grillini e – ovviamente – di King Donald), si esprime by Twitter:
“Donald Trump firma decreto per uscita dal TTIP. E’ una bella notizia per PMI italiane qualsiasi sia
vostro (pre)giudizio su Trump”.
Dopo questo tuo Twitt, qualche (pre)giudizio, in noi, si è formato… ma, tranquillo, non riguarda
Trump.
Insomma, l’ignoranza è certamente trasversale e non ha colore politico.
Chiusa, però, questa breve parentesi comica, almeno con espresso riferimento all’accordo di
nostro precipuo interesse, ci piace rilevare per dovere di cronaca che – contrariamente a
qualsivoglia generalizzata propaganda disinformativa – nonostante il TTIP continui a fare bella
mostra di sé nel sito istituzionale della Commissione UE, la minaccia appare al momento
scongiurata: Stati Uniti e UE non si sono accordati neanche su un singolo punto dei ventisette che
sono in fase di discussione (mai avuto dubbi…).
Il Ministro dell’Economia e vicecancelliere della Germania, Sigmar Gabriel, già l’anno scorso, aveva
detto che i negoziati tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti sul TTIP, “sono di fatto falliti, anche se
nessuno lo ammette”. E, a maggior ragione oggi, dopo la decisione di Trump relativa al TPP, è
difficile ipotizzare differenti scenari; pur volendo nicchiare di fronte a mancate strette di mano e
ad altri chiari ed eclatanti dissapori tra lo stesso Trump e la Germania (che certo non gradisce
vedere intaccate le quote di esportazioni delle proprie imprese).
Ciò con buona pace di quei presunti esponenti “liberali”, rivendicanti un qualche non meglio
individuato diritto alla “liberalizzazione” commerciale internazionale, che tale potrà esistere solo
fino a quando permarranno precisi regolamenti, proprio a garanzia di tutti i cittadini e di ogni
impresa (anche quelle micro, piccole e medie).
Il termine “liberalizzazione” ci piace tanto. Ci riempie la bocca. Ci inorgoglisce soltanto
pronunciarlo. Salvo, poi, cercare di capire di cosa effettivamente stiamo parlando.
A ben vedere, qui non si tratta di libertà, ma di illibertà. Le regole sono indispensabili proprio per
assicurare la Libertà (che è vera Libertà, solamente se è usufruibile da chiunque, nessuno escluso).
Imporre delle normative corrette, è indubbiamente l’unico modo per far sì che ciascuno possa
godere di quella libera iniziativa economica privata, tutelata dall’art. 41 della nostra bistrattata
Costituzione.
Viceversa, eliminare a priori vincoli e barriere (in una parola, regole), nel nome di un falso diritto al
libero scambio, comporterebbe solo dare ulteriori aiuti (come se non ne avessero già abbastanza)
ai più forti, onde consentire loro di prevaricare e annientare i più deboli.

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Ttip e tpp

  • 1. TTIP e TPP: Mettiamo un po’ d’ordine Il Transatlantic Trade and Investment Partnership e il Trans Pacific Partnership hanno in comune solo una cosa: il fatto che sono entrambi due accordi di collaborazione (partnership) concernenti gli scambi commerciali internazionali… o forse c’è dell’altro? Di recente, i media di tutto il mondo hanno dato notizia della decisione di Trump relativa al ritiro degli Stati Uniti dal TPP. Francamente, nulla di così eclatante. L’accordo, sottoscritto fin dal 2015, non era stato mai ratificato, né dagli altri governi firmatari e né dal Congresso USA, il quale, evidentemente, non aveva alcuna intenzione di farlo, nonostante si dovesse trattare di un passaggio quasi di carattere puramente formale, più volte caldeggiato dal suo promotore: l’ex presidente Obama. Ragion per cui, Trump, con tale decisione, ha semplicemente: dato atto della reale volontà del Congresso, inferto un’altra picconata al lavoro del suo odiato predecessore, acquisito generale consenso politico (e si sa, quanto ciò sia importante in America). Senonché, complice forse la cattiva conoscenza dell’inglese (ma, più in generale, la cattiva conoscenza… e basta) della nostra classe politica e anche di alcuni presunti giornalisti, il messaggio che è passato all’opinione pubblica è stato quello di rinuncia di Trump al partenariato transatlantico USA – UE, afferente il ben differente TTIP. Facciamo, innanzitutto, un minimo d’ordine. TTIP - Transatlantic Trade and Investment Partnership Con la sigla TTIP, si intende riferirsi al Trattato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea. Si tratta di un accordo commerciale di libero scambio in corso di negoziazione che, nelle lodevoli intenzioni indicate nel portale Web dell’UE, avrebbe i seguenti obiettivi: Un migliore accesso al mercato statunitense L’UE mira a ridurre o eliminare i dazi doganali agli Stati Uniti, il che comporta grandi risparmi per i consumatori e le imprese in Europa. Il TTIP, inoltre, agevolerà le imprese europee, in particolare quelle più piccole, che si ritrovano di fronte a norme complicate quando intendono esportare. Lavorare insieme per ridurre la burocrazia e i costi L’UE e gli USA condividono spesso livelli di sicurezza e di qualità, a esempio per quanto riguarda le automobili, l'ingegneria, i dispositivi medici, etc., mentre procedure tecniche diverse possono rivelarsi costose, soprattutto per le imprese più piccole. Una più stretta collaborazione tra le autorità di regolamentazione agevolerebbe il commercio, mantenendo al contempo i rigorosi livelli di tutela dell’UE per i cittadini e per l’ambiente. Incoraggiare le autorità di regolamentazione a condividere le loro competenze aiuterebbe inoltre ad affrontare le nuove sfide sul piano della regolamentazione in settori quali le automobili elettriche o le nanotecnologie (con cui, peraltro, non pare che le PMI abbiano molto a che fare – N.d.R.).
  • 2. Rendere le esportazioni, le importazioni e gli investimenti equi e semplici Questo accordo sarà il più avanzato di sempre per quanto riguarda le norme per la protezione dell’ambiente e quelle sul lavoro. L’UE intende cooperare con gli Stati Uniti su queste importanti questioni globali, mettere in comune la nostra influenza sulla scena internazionale, e indurre altri ad agire responsabilmente lungo le intere catene internazionali di produzione. A parte il fatto che non si riesce a comprendere bene – nella pratica – come tanti auspicati vantaggi potrebbero riferirsi alle PMI piuttosto che alle grandi imprese (specie internazionali), si tratterebbe di traguardi davvero pregevoli, se non apparissero ai più quanto meno un tantino presuntuosi, posto che in proposito non si riesce a trovare la “quadra” nemmeno fra i 28 dell’UE. Oltre tutto, come noto, a livello fiscale, gli USA dimostrano nei fatti di non volere ratificare il modello Convenzionale OCSE: pretendono il FATCA dalle giurisdizioni europee, ma non aderiscono al CRS, indispensabile a livello mondiale. E non basta! I Paesi membri dell’UE hanno adottato le normative dell’ONU che si occupano di lavoro (ILO – International Labour Organization); gli Stati Uniti hanno ratificato solo due delle otto norme fondamentali. Quindi si rischierebbe di minacciare i diritti fondamentali dei lavoratori. L’eliminazione delle barriere che frenano i flussi di merci renderà più facile per le imprese scegliere dove localizzare la produzione in funzione dei costi. Alla faccia di qualsivoglia Nexus Approach raccomandato dall’OCSE nel noto Piano BEPS. L’agricoltura europea, frammentata in milioni di piccole aziende, finirebbe per entrare in crisi se non fosse più protetta dai dazi doganali, soprattutto se venisse dato il via libera alle colture OGM. Altro che “quote latte”… Il trattato avrebbe conseguenze negative devastanti per tutte le micro, piccole e medie imprese (ma oseremo dire, in generale, per tutte le imprese che non fossero di caratura sovranazionale), le quali non riescono già ora a reggere la concorrenza con le multinazionali. Figurarsi in un mercato ancora più in balia delle strategie del più forte. Ci sarebbero, inoltre, enormi rischi per i consumatori, posto che i principi su cui sono basate le leggi europee sono diversi da quelli degli Stati Uniti, sia in tema di sicurezza alimentare che di policy farmacologica. I negoziati sono, poi, orientati alla privatizzazione di tutti i servizi pubblici, in base al pedissequo rispetto del credo capitalista USA, inteso nella sua estrema accezione. Ma la storia – anche recentissima – ci ha insegnato che la privatizzazione incondizionata è deleteria per qualunque economia e, a conti fatti, non arreca neppure alcun miglioramento concreto alla qualità dei beni e dei servizi offerti ai cittadini e alle imprese. E tralasciamo ogni eventuale considerazione sul discorso Internet: provate a immaginarvi il Web disciplinato dall’Obama thinking, il più grande spione che la storia abbia mai smascherato…
  • 3. Ora, presumere la riuscita di un accordo per così dire “transatlantico” su queste basi, ci sembra fortemente utopistico e irrealizzabile. In ogni caso, le prima citate lodevoli intenzioni UE, come purtroppo accade spesso, sono state ben presto contraddette dagli atti, con la previsione di una policy tutta protesa a favorire le grossi lobby internazionali, a creare evidenti problematiche di dumping sociale, a eludere le principali regole interne in materia di sicurezza, di salute pubblica, di lavoro e di protezione ambientale. D’altronde, le premesse rappresentate dal fatto che l’artefice e maggiore sponsor del trattato fosse stato appunto Obama, che i benefici del TTIP fossero stati illustrati da un’azienda di ricerca finanziata dalle principali banche mondiali e che tutte le riunioni per concordarne il contenuto fossero sempre state tenute rigorosamente segrete, sono fin da subito apparse quali elementi fortemente negativi, che ci hanno sempre lasciati estremamente scettici sui veri motivi posti alla base del TTIP e sui suoi reali obiettivi. Quando, poi, hanno incominciato a circolare i primi documenti, si sono evidenziate delle inconcepibili anomalie, tra cui, di certo la più macroscopica resta la progettata istituzione dell’ISDS (Investor State Dispute Settlement). Il documento consentirebbe alle imprese UE o USA di citare gli opposti governi, qualora questi introducessero democraticamente normative importanti per i propri cittadini, le quali andassero a ledere i loro interessi passati, presenti e futuri. E, quel che è peggio, dette controversie non sarebbero giudicate da un qualche Tribunale sovranazionale, ma verrebbero affidate a una triade di Arbitri privati, i quali deciderebbero senza formalità di rito, in forma inappellabile e – naturalmente – in segreto. Il trionfo dell’anti-democrazia e della legge del più forte. Ebbene, riassunto in breve il TTIP; resta ora da capire che cos’è invece il TPP. TPP - Trans Pacific Partnership Il TPP è uno dei più grandi accordi commerciali mai sottoscritti, firmato da dodici Paesi: Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Vietnam e Stati Uniti. La firma del trattato era stata considerata il fulcro della nuova strategia di Barack Obama in Asia, orientata a rafforzare i rapporti commerciali con il Giappone, per contrastare l’espansione economica della Cina; la quale, infatti, risulta essere stata la grande assente tra i firmatari. L’oggetto del TPP (questo, sì) non si discosta da quello del predetto TTIP. I Paesi che hanno sottoscritto l’accordo (costituenti circa il 40 per cento dell’economia mondiale) volevano dare vita a un nuovo blocco economico nel Pacifico, attraverso la riduzione delle tariffe doganali. L’accordo prevedeva che cambiassero le regole sullo scambio di beni e servizi, i prezzi dei generi alimentari, il costo delle cure ospedaliere e gli standard per lo scambio dei dati. Il TPP avrebbe dovuto inoltre introdurre nuove regole sugli investimenti, sull’ambiente e sul lavoro. Nel complesso sarebbero state interessate più di diciottomila tariffe doganali. Perché, allora, nonostante cotante pregevoli intenzioni, il TPP non ha avuto effettiva attuazione?
  • 4. Il comune denominatore dei due trattati (TTIP e TPP), è indubbiamente Barack Obama. Andando a leggere le notizie concernenti il TPP, possiamo tutti immediatamente verificare che – a esempio – le trattative sul libero scambio sono state contestate perché condotte in segreto (ovvio: Obama tiene molto alla segretezza – chiaramente, solo alla sua). Inoltre, parrebbe che in sostanza l’accordo sia un po’ troppo di manica larga nei confronti dei grossi gruppi multinazionali a cui consegna ancor maggior potere rispetto a quello attuale. In particolare, sembra che il risultato delle intese ipotizzate si risolva in pratica in una regolamentazione fortemente “gratificante” per le lobby finanziarie (wolf Obama perde il pelo, ma non il vizio). Infine, anche il TPP permetterebbe alle aziende straniere di mettere in discussione le decisioni dei governi locali, chiedendo il giudizio di commissioni di arbitrato internazionale composte da professionisti privati, e la cui trattazione non sarebbe mai aperta al pubblico (come a voler stendere un bel tappeto rosso a condotte di corruzione e di concussione). Insomma, si ripete la storia del TTIP anche nel TPP; certo, a parte il fatto che restano due accordi differenti (anzi, fortunatamente, solo bozze di accordi) e che concernono nazioni diverse. Tornando proprio alla confusione dettata dalla somiglianza delle due sigle, a seguito della menzionata “storica” decisione di Trump, i commenti dei nostri intrepidi e acculturati politici (e giornalisti), non si sono fatti attendere. Fra i primissimi a voler condividere la notizia tra i propri followers, l’esperto economista del PD, Stefano Fassina: “Trump cancella TTP Mossa giusta!” Il TTP? E che cos’è? Siccome, però, vogliamo mantenere la nostra posizione bipartisan, citiamo pure una fonte non certo in linea di massima vicina al PD. Questo, il titolo de “Il Giornale”: “Trump inizia a picconare Stop al trattato TTP”. Come a dire: se un singolo errore poteva essere solo dovuto al classico refuso, due cominciano a costituire quasi una prova. Sempre il 23 gennaio 2017, Roberto Fico, presidente della vigilanza RAI e vicecapogruppo del M5S alla Camera, così esterna la sua felicità: “Contento che Trump abbia firmato il decreto per uscire dal TTIP!” Uscire? E quando c’erano entrati? Ci è sfuggito qualcosa? Gli fa eco, il suo valente collega di partito, Carlo Sibilia, che (fedele agli orientamenti internettiani dei Grillini e – ovviamente – di King Donald), si esprime by Twitter:
  • 5. “Donald Trump firma decreto per uscita dal TTIP. E’ una bella notizia per PMI italiane qualsiasi sia vostro (pre)giudizio su Trump”. Dopo questo tuo Twitt, qualche (pre)giudizio, in noi, si è formato… ma, tranquillo, non riguarda Trump. Insomma, l’ignoranza è certamente trasversale e non ha colore politico. Chiusa, però, questa breve parentesi comica, almeno con espresso riferimento all’accordo di nostro precipuo interesse, ci piace rilevare per dovere di cronaca che – contrariamente a qualsivoglia generalizzata propaganda disinformativa – nonostante il TTIP continui a fare bella mostra di sé nel sito istituzionale della Commissione UE, la minaccia appare al momento scongiurata: Stati Uniti e UE non si sono accordati neanche su un singolo punto dei ventisette che sono in fase di discussione (mai avuto dubbi…). Il Ministro dell’Economia e vicecancelliere della Germania, Sigmar Gabriel, già l’anno scorso, aveva detto che i negoziati tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti sul TTIP, “sono di fatto falliti, anche se nessuno lo ammette”. E, a maggior ragione oggi, dopo la decisione di Trump relativa al TPP, è difficile ipotizzare differenti scenari; pur volendo nicchiare di fronte a mancate strette di mano e ad altri chiari ed eclatanti dissapori tra lo stesso Trump e la Germania (che certo non gradisce vedere intaccate le quote di esportazioni delle proprie imprese). Ciò con buona pace di quei presunti esponenti “liberali”, rivendicanti un qualche non meglio individuato diritto alla “liberalizzazione” commerciale internazionale, che tale potrà esistere solo fino a quando permarranno precisi regolamenti, proprio a garanzia di tutti i cittadini e di ogni impresa (anche quelle micro, piccole e medie). Il termine “liberalizzazione” ci piace tanto. Ci riempie la bocca. Ci inorgoglisce soltanto pronunciarlo. Salvo, poi, cercare di capire di cosa effettivamente stiamo parlando. A ben vedere, qui non si tratta di libertà, ma di illibertà. Le regole sono indispensabili proprio per assicurare la Libertà (che è vera Libertà, solamente se è usufruibile da chiunque, nessuno escluso). Imporre delle normative corrette, è indubbiamente l’unico modo per far sì che ciascuno possa godere di quella libera iniziativa economica privata, tutelata dall’art. 41 della nostra bistrattata Costituzione. Viceversa, eliminare a priori vincoli e barriere (in una parola, regole), nel nome di un falso diritto al libero scambio, comporterebbe solo dare ulteriori aiuti (come se non ne avessero già abbastanza) ai più forti, onde consentire loro di prevaricare e annientare i più deboli.