Chi cammina sul filo?
«Uomo dell'aria, tu colora col sangue le ore sontuose del tuo passaggio fra noi. I limiti esistono soltanto nell'anima di chi è a corto di sogni»
Philippe Petit “Trattato di funambolismo”
Quando ho visto per la prima volta (perché poi l’ho rivisto un sacco di volte) il film ‘The walk’ ho avuto le vertigini. Anche attraverso la TV.
The walk è la storia dell’impresa incredibile di Philippe Petit, funambolo dalla nascita, che ad Agosto del 1974, a 25 anni, dopo essere fuggito di casa giovanissimo per diventare giocoliere e aver vissuto per anni come artista di strada a Parigi, ha attraversato lo spazio fra quelle che erano le due torri gemelle, camminando su un filo di acciaio del diametro di pochi centimetri. Aveva già compiuto imprese folli, come la traversata dei due campanili di Notre-Dame e in seguito avrebbe attraversato, sempre su un filo, altre altezze vertiginose, fra cui le cascate del Niagara.
Ma le Torri gemelle furono l’impresa più assurda, folle e incredibile che avrebbe mai fatto.
417 metri dal suolo, con il rischio che una folata di vento, a quell’altezza, lo potesse aspirare come un tiro a una sigaretta. La traversata avvenne alle 7.15 del 7 Agosto 1974 all’insaputa di tutti, tranne quelli che avrebbe chiamato i suoi ‘complici’(lo aiutavano nell’istallazione dell’attrezzatura). Venne poi arrestato come altre, circa, cinquecento volte e condannato, in quel caso, ad esibirsi per i bambini a Central Park, vista l’entità dell’impresa pure le accuse e la successiva ‘condanna’ furono mutate in ‘spettacolo’.
Attraversò quello spazio nelle due direzioni del filo per ben otto volte (e con un piede sanguinante), trovò il tempo di inchinarsi alle torri e al pubblico (che da lì a poco si sarebbe formato in strada, incredulo) e per distendersi sul filo, come se volesse addormentarsi, avendo ormai raggiunto il sogno, il proprio personale paradiso.
Su questo riflettevo. I sogni e la vita.
O meglio, come sognare anche nella vita, da svegli, nel mondo personale e nel mondo del lavoro che poi spesso i due mondi coincidono.
La maggior parte di noi vive lavorando il maggior numero di ore di veglia, per il maggior numero di giorni dell’anno.
In pochi nasciamo funamboli, artisti, calciatori di successo, scienziati, geni matematici o ricchi miliardari che possono permettersi di vivere i sogni, comprandoseli. La maggior parte degli esseri umani conduce una vita discreta, lavorando, se tutto va bene, confrontandosi ogni giorno con le difficoltà della vita moderna, come i nostri antenati si confrontavano con la natura ostile.
Eppure, ognuno merita il proprio paradiso in terra.
Ognuno merita di attraversare il filo fra le due torri gemelle, sentire di compiere un’impresa eroica, di toccare il cielo con un dito (e nel caso di Philippe fu proprio così) insomma, vivere un’esperienza o tante piccole esperienze che ti facciano sentire felice di esserci a questo mondo.
Esiste la ricetta della felicità?
Come si può ancora sperare di essere felici in questi giorni drammatici di pandemia?
E ancora, come si può essere felici nella vita quotidiana?
Mi sono fatto l’idea che la felicità non esiste, cioè, non esiste uno stato di ‘felicità’ se non in alcuni brevi momenti di grazia, come appunto quando attraversi il filo fra le torri gemelle, o quando fai qualcosa dove ti senti espresso in pieno.
In un’intervista, Gérard Depardieu disse che nella vita di un attore i momenti di grazia sono pochi, ma per quanto rari quei momenti danno il senso alla tua vita.
Non proveresti mai un momento di grazia se non l’hai cercato.
Se non ti sei esercitato. Se non hai provato a dare il meglio di te.
Ecco, mi sono detto, rispondendo alla mia stessa domanda, la felicità, se mai è possibile viverla, anche per pochi momenti, la ottieni solo se dai il meglio di te in qualcosa.
Quindi ‘dare’.
Non chiedere ma ‘dare’.
Non aspettare ma ‘dare’.
E se la vita di ognuno di noi è fatta di affetti familiari e di lavoro, dove possiamo cercarla la felicità se non ‘dandoci’ al meglio che possiamo nella nostra famiglia e nella nostra seconda famiglia che è il mondo del lavoro?
E, nel caso del tuo lavoro, come puoi ‘darti’ al meglio se non ‘fare’ al meglio quella che è la tua professione, qualsiasi essa sia?
In questi giorni ci sono medici e infermieri che stanno ‘dando’ la loro vita, spesso in senso letterale purtroppo, per curare le persone. Perché lo fanno?
(Ora non scriverò di chi sta male, di chi non riesce a farcela, ho fatto qualche accenno in un altro articolo, non adesso, e comunque il mio pensiero costante è anche lì).
Cosa spinge una persona, magari anche per pochi soldi, a rischiare la vita per altre persone?
Me lo sono chiesto un sacco di volte.
Ogni infermiere, ogni medico, ogni farmacista o sanitario o persona che lavora nei nostri ospedali oggi è un funambolo che attraversa il filo fra le torri gemelle.
Anzi, di più. Perché non lo fanno per se stessi, per propria soddisfazione personale, o almeno non solo, ma per gli ‘altri’...
E per far bene il loro lavoro.
Ripeto, per fare bene il loro lavoro.
Se c’è una cosa che resterà, dopo tutta questa tragedia pandemica, è il loro esempio.
La cura per far bene ciò che si fa. Non chiedere ma dare. Saper dare.
Ci penso.
Fare al meglio il proprio lavoro, studiare per prepararsi e poi impegnarsi a ‘dare’ quello che puoi dare, al meglio.
Questa pandemia finirà e torneremo a lavorare come prima, con i nostri clienti, i capi, i colleghi, i collaboratori.
Con i problemi quotidiani.
Credo che un modo attraverso cui potremmo onorare il lavoro di tanti funamboli che in questi giorni stanno camminando a 417 metri di altezza con poche o nessuna protezione, sarà fare bene quello che sappiamo fare, per la felicità e il bene nostro, delle nostre famiglie e della società.
E credo che se ci riusciremo saremo più felici, ci sentiremo meglio.
Avremo anche noi provato un momento di grazia.
Ognuno di noi avrà percorso quel filo, e sarà felice di averlo fatto.
Così credo che funzioni.
Buon lavoro.
impiegata presso Polifarma SpA
5 anniGrazie Marco per questo grande spunto di riflessione !