Il folle autunno
...e come ne siamo usciti sorridenti.
Lo ricorderemo come il folle autunno, e in effetti lo è stato.
A partire da Settembre tutte le persone nella mia azienda non si sono mai fermate. Una grande quantità di eventi e progetti culminata nelle ultime due settimane di Novembre con 3 grandi conferenze in 3 Paesi praticamente in parallelo (circa 5.000 partecipanti in totale), hackathon, attività con le community, un grande progetto e corsi di training, l’avvio di un importante progetto edutech e altri eventi con Codemotion Kids.
Ogni singola persona in azienda è stata incredibile. Ognuno ha mostrato professionalità, una forte dedizione, motivazione, volontà e il risultato è stato eccezionale.
Nell'ultimo anno l'azienda è cresciuta molto e insieme alle dimensioni aumenta l'entropia. Tutto quello che si è costruito per lavorare meglio cambia sotto agli occhi: o lo cambi tu, perché ti rendi conto che non è più adatto, o cambia per necessità interne/esterne. Aumenta la velocità e l’instabilità, si alza l’asticella delle sfide, si materializza una complessità che prima non c’era. E tutto questo non succede ad un livello astratto, accade alle persone.
Si parla molto di crescita delle organizzazioni e di cultura organizzativa (temi per me carissimi e su cui potrei scrivere giorni). Oggi per fortuna si parla di come stimolare cambiamenti a partire dalle persone che compongono un'organizzazione, ma anche di come accogliere il cambiamento che arriva dal management o dal mercato e trasformarlo in cultura organizzativa.
Il tema è che da qualsiasi parte arrivi, il cambiamento va curato, ancor prima che gestito.
Desidero quindi condividere una parte dell’esperienza fatta insieme al mio team nell’ultimo anno in particolare, per curare il cambiamento, e non subirlo.
Condivido questa esperienza perché è piccola ma reale e ultimamente trovo conforto nel confronto sulla realtà, con i suoi limiti, le sue resistenze, i suoi tempi anziché disquisire su principi e buona pratiche raccontati ogni giorno da "esperti" di ogni tipo che spesso non parlano di cose sperimentate veramente sulla loro pelle.
Tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018 (grazie anche a ciò che scrive il mio amico Silvio Gulizia), ho iniziato a prendere coscienza di quella che definirei la “trappola delle opportunità”, che agisce a diversi livelli.
Non stiamo più vivendo un'epoca di vite tracciate, e diciamo di esserne felici perché potenzialmente ci sembra di poter fare tutto. Tuttavia, in quest'epoca di opportunità, l'erba del vicino non solo sembra più verde, ma il vicino è più verde! e come ne “La Donna Perfetta" tutto è costruito (noi lo costruiamo ahimè) per darci l'idea che esistano ovunque dei cyborg-vicini bravissimi in tutto sempre, mentre noi avanziamo con lentezza, non rivoluzioniamo la nostra vita alcune volte l’anno, e il lavoro di ieri ci sembra quello di oggi.
Per restare al passo, essere professionalmente competitivi, ci troviamo a rincorrere le opportunità e ad avere la sensazione più che di poter fare, di dover fare e saper fare tutto.
Sottrarsi all'eterno confronto e concentrarsi sul proprio percorso è la grande sfida, della vita, del lavoro.
La trappola delle opportunità può arricchirsi di un altro strato se vivi la realtà di un’azienda in crescita.
Quando un’azienda cresce ognuno di noi vende a se stesso l'opportunità che c'è in fondo al tunnel della complessità e talvolta, incapaci di capire come gestire la complessità e guidati da un cervello che ci porta alla semplificazione, credo si sia tentati di fare un respirone e affrontare il tumulto in apnea. Senza troppe parole, senza tanti se e ma… non c'è tempo per non essere “produttivi”. Le sfide richiedono concentrazione, dedizione e se sei sulla barca devi remare. Punto.
Le opportunità, un cambiamento di ruolo, più soldi, più benefit ecc., arriveranno alla fine del tunnel. Bisogna tenere duro.
Non è così. O almeno non è quel che credo io.
Affrontare la crescita non è trovarsi davanti ad un -solo- tunnel da superare prendendo un bel respiro e pensando di riemergere integro alla fine.
Anche supponendo che arrivi un momento di quiete dopo la tempesta, se la nave non l'hai gestita, ma l'hai solo fatta andare, quando tutto è calmo rischi di guardarti intorno e non vedere niente. Nessuno è davvero lì con te. La nave sei tu stesso, il tuo team, la tua azienda.
Un anno fa in questi giorni ho fatto il punto fra me e me sul 2018 che avevo davanti: da un lato un'azienda che cresce, ossia un organismo complesso che si trasforma, ricco di opportunità ma anche di rischi; dall'altro le singole persone che costituiscono questo organismo, che in questo processo di cambiamento rischiano di non riuscire a fermarsi e alzare la testa focalizzati come sono a rincorrere opportunità o, troppo spaventate dalla complessità, rischiano di perdere il senso, ma anche capacità, efficacia e… il sorriso.
Il sorriso, signori e signore, una metrica spesso troppo sottovalutata.
Ho quindi pensato di affrontare le sfide di produttività del 2018 diminuendo il focus sulla produttività. Sembra una contraddizione ma non lo è. Ho un team di persone brave nel loro lavoro e che lo stanno diventando sempre di più, quindi ho valutato più importante lavorare su ciò che "c'è intorno" all'efficacia e che la rende possibile. Volevo quindi recuperare la concentrazione, allentare la presa sul "come fare" le cose aumentando la fiducia e creando uno spazio di libertà espressiva, una zona di decompressione in cui poter ammettere di aver semplicemente sbagliato o di non sapere come gestire qualcosa.
Pit stop frequenti lungo la corsa per ridare senso alla corsa.
Questa era la mia idea ma poi l’abbiamo attuata insieme.
Abbiamo attuato una pratica sovversiva e pericolosa, soprattutto perché praticata in libertà, senza mastri facilitatori. L’abbiamo fatto all’antica. Ci siamo ascoltati, ci siamo parlati.
A più riprese, in coppie, gruppetti, al bar o in ufficio abbiamo cercato di andare un po’ al cuore delle difficoltà di ognuno, di comprendere le cose per quello che erano, di ridare a tutto un peso ponderato. Abbiamo osservato da vicino la creazione di castelli oscuri e complicati che si sono rivelati solo delle capanne che erano perfettamente conosciute e gestibili.
Ascoltare, accogliere, mantenendo un distacco che facilmente sembra saggezza e invece è solo paura di agire è facile, nessuno si fa male (forse tu se ascolti cose che non ti piacciono, ma puoi tenerlo nascosto), ma quando parli è un casino.
Quando all’ascolto aggiungi la parola è un attimo dire la cosa sbagliata, far parlare il momento e non il frutto di un pensiero ponderato, trovarsi in mezzo ad un conflitto e non sapere come uscirne, accelerare prese di coscienza altrui o non saper gestire le proprie, alimentare aspettative, o al contrario, spegnerle. Insomma, comunicare onestamente è un terreno minato. È emotivamente faticoso, richiede e comporta una certa disponibilità ad incassare colpi e a non fermarsi lì, ma andare in profondità e guardarsi allo specchio.
Noi non abbiamo evitato questo terreno minato.
Siamo stati anche abbastanza capaci di capire quando smettere. Come nelle storie d'amore; ad un certo punto hai detto tutto, devi solo trovare il coraggio di fare. Ecco noi quest'anno abbiamo surfato la trasformazione confrontandoci molto spesso su quanto fosse instabile la tavola, e ogni tanto siamo anche riusciti ad avvertirci prima di essere travolti. Ogni tanto no. Ci siamo guardati in faccia e abbiamo capito quando aveva più senso vivere una situazione, testarla, anziché parlarne.
Abbiamo sottratto del tempo alla produttività, e il risultato è stato che abbiamo ottenuto eccellenti risultati attraversando anche il folle autunno. Tutti i progetti hanno ottenuto feedback molto buoni e lo stress, che c'è stato, non è mai stato così ben riconosciuto e gestito. Settimana scorsa ci siamo riuniti tutti insieme, e ho visto dei sorrisi non privi di soddisfazione, serenità, direi gioia, sicuramente anche liberatori perché l'anno è finito e ci attende un po' di riposo!
La principale difficoltà? Accogliere un feedback senza entrare immediatamente in posizione difensiva e costruire prima un dialogo, poi mettere in campo delle azioni a partire da quello. È ancora molto complesso, per tutti.
Tirando le fila, mi è chiaro qual è stato il mio regalo del 2018.
Ho partecipato ad un laboratorio teatrale quest'anno e sono rimasta colpita dal fatto che questa compagnia ripeta alcuni degli stessi “semplici” esercizi tutti i giorni da almeno dieci anni e continuino a farlo perché “ogni volta è diverso”. Al gruppo si uniscono nuovi allievi ma spesso ci sono sempre e solo le persone della compagnia, che sono le stesse. Alla domanda, ma non vi annoiate? La risposta è no! Ogni giorno è diverso perché le persone producono energie e stimoli differenti che impariamo a sentire ogni giorno scoprendo cosa producono in noi.
Così è anche nella vita. Anche la strada che sembra più familiare non lo è davvero, perché cambiano le condizioni e le persone. Percorrendo quella strada di fatto ignota, puoi davvero farti male in molti modi diversi, nel mio caso anche fantasiosi (sono nota per la mia goffaggine). Peggio, puoi fare male.
La responsabilità provoca spesso paura, la paura ti porta a sbilanciarti il meno possibile, quindi a non comunicare in modo aperto, attivo e trasparente, e questo ti indebolisce, preclude l'opportunità che altri ti possano aiutare. Ed è lì che ti fai male davvero.
Comunicare ti espone, ti puoi sentire un bersaglio facile perché stai dicendo apertamente che non sai come affrontare qualcosa, e non nego che in certi sistemi, specialmente se sei un manager, questo rappresenti ancora il passo più falso che tu possa fare.
Allarme Debolezza! Game over.
Ma nel mio sistema è il contrario. Nel mondo del lavoro che desidero contribuire a costruire l'analisi è individuale, il passo è fatto dai singoli, la responsabilità profonda di ciò che si dice e si fa è di ognuno ma l'intelligenza, le idee, le risorse, vengono create dall'insieme, e questo restituisce forza ai singoli.
C’è chi sostiene, il meno apertamente possibile perché non è figo di questi tempi, che una comunicazione troppo franca e libera rischi di creare confusione fra i ruoli (minare la gerarchia?), il che rende difficile mantenere le distanze (comandare?) ed essere poi ascoltati o riconosciuti come leader. Ma nella pratica quanti (leader) sono disposti davvero ad accettare di non avere strati di protezione?
Non aprirò il capitolo leadership perché già è tanto se siete arrivati fin qui. Non nego che accorciare/ annullare le distanze possa essere fonte di fraintendimenti o del superamento di alcuni limiti. Ma di nuovo, i limiti siamo noi a tracciarli e possiamo ristabilirli, parlando.
Quello che di certo diventa più complesso è agire senza motivare, ma dipende che tipo di organizzazione vuoi costruire.
Se è vero che le imprese hanno certamente necessità di ottimi professionisti, credo sia ancora più vero che abbiano necessità di persone intelligenti emotivamente.
Il bello è che tutti, in qualsiasi ruolo, possiamo evolvere emotivamente e farlo rappresenta anche una spinta a crescere professionalmente.
Tutti i framework, le metodologie, che fanno perno sull’ascolto e la comunicazione non possono nulla se il terreno dell’apertura reciproca non è dissodato.
La forza che questo percorso restituisce è la vera opportunità dietro alla crescita per i singoli ed è ciò che consentirà alle imprese di cogliere e creare opportunità di valore e di non sbandare fra le onde.
Noi siamo per strada, ma muoverci in questa direzione è il regalo che sento di avere fra le mani alla fine di questo 2018 e devo davvero ringraziare il mio team per esserci arrivati insieme. Senza retorica, lo sapete, grazie.