Le false credenze nella rilevazione della menzogna
Essendomi appassionato allo studio degli indici comportamentali di menzogna mi è capitato spesso di imbattermi in alcune teorie ingenue volte alla rilevazione dell’inganno, basate su stereotipi e credenze superficiali prive di solide evidenze scientifiche.
Una delle teorie più diffuse, per esempio, prevede che chi mente mostri comportamenti di ansia e nervosismo, e di conseguenza manifesti agitazione, abbia uno sguardo sfuggente oppure faccia un elevato numero di gesti ed espressioni facciali (come mordersi o leccarsi le labbra, sfregarsi le mani, manipolare oggetti, ecc.) volte a compensare la sensazione di disagio del momento. Lo studioso Albert Vrij, però, afferma che chi mente, avendo l’obiettivo di controllare la situazione, è portato a reprimere questi comportamenti, ritenuti tipici di chi sta mentendo, e fornire un’impressione il più credibile possibile (Anolli, 2003). Paradossalmente, quindi, i comportamenti manifestati da chi mente potrebbero risultare quasi opposti a ciò che comunemente si crede; il ricercatore ritiene, infatti, che una persona che mente tenda sia a guardare l’interlocutore negli occhi che a muoversi relativamente poco (Vrij, Semin e Bull, 1996; Vrij, Edward e Bull, 2001a). Inoltre, sempre secondo Vrij (2001) nella menzogna si riscontrerebbe un incremento nel tono della voce ed una diminuzione dei movimenti delle mani e delle dita, nel tentativo (non sempre riuscito) di controllare il proprio comportamento.
In linea con questi studi, Burgoon e collaboratori (2005) hanno analizzando i movimenti della testa e delle mani in relazione alla menzogna individuando 3 tipologie di comportamento:
- tanto più una persona cerca di controllarsi tanto meno muove le mani, senza quasi mai portarle al volto (comportamento spesso osservato in chi mente);
- una persona rilassata muove le mani in modo fluido, con ampi spostamenti e spesso portandole alla testa (comportamento spesso osservato in chi è sincero);
- una persona in ansia tende a muovere le mani in modo brusco, toccando il volto in modo rapito e frequente.
Lo sbattere le palpebre è un altro segnale tipicamente associato all’ansia, ma se alcuni studi hanno evidenziato come questo comportamento sia più frequente in chi sta mentendo rispetto a chi è sincero, altri esperimenti hanno mostrato una tendenza opposta (Leal e Vrij, 2008); molto, infatti, dipende dal contesto, dalla personalità e dalla preparazione di chi sta mentendo.
Ma perché queste ed altre credenze, non validate scientificamente, continuano ad essere molto diffuse?
Il motivi di questa loro persistenza possono essere diversi, a cominciare dalla presenza di correlazioni illusorie (Vrij, 2008). Una volta stabilite delle correlazioni errate tra la menzogna e determinati comportamenti, infatti, tendiamo a percepire più facilmente esempi a supporto di tale relazione, in realtà inesistente (Chapman, 1967). Per esempio, una volta avuta l’impressione che qualcuno ci stia mentendo, siamo portati a sopravvalutare l’avversione del suo sguardo anche quando in realtà è sincero e non vi è un reale scostamento del comportamento rispetto alla sua baseline (Levine, Asada e Park, 2006). Questa tendenza deriva dal fatto che, per mantenere un certo livello di prevedibilità, siamo motivati a cercare continuamente spiegazioni sul mondo che ci circonda, anche in situazioni di ambiguità (Gilovich, 1991).
Inoltre, come accennato in precedenza, anche se il contatto visivo è una componente facilmente monitorabile e molto importante nella comunicazione, secondo le cui norme si dovrebbe guardare negli occhi la persona a cui si sta rivolgendo la parola, non è sempre chiaro se chi mente mostri effettivamente un minore contatto visivo (Vrij, 2008).
Un altro elemento che può trarci in inganno è il fatto che tendiamo a cercare informazioni a supporto delle nostre ipotesi, piuttosto che contrarie (Darley e Gross, 1983). Questa tendenza ad usare una strategia di test positivo, unita ad un maggiore desiderio e facilità di interpretazione dei dati osservati in modo coerente con l’ipotesi controllata, può facilmente portare ad una tendenza alla conferma. Ciò comporta che qualunque elemento a supporto delle proprie credenze incrementa la fiducia nelle proprie capacità di giudicare l’attendibilità di una persona, rendendo difficile la messa in discussione della propria strategia di analisi.
Se prendiamo, come esempio, degli agenti addetti alla sicurezza che credono che i contrabbandieri tendano a distogliere lo sguardo e muoversi frequentemente, questi tenderanno a svolgere controlli più approfonditi nei confronti dei passeggeri che manifestano maggiormente tali comportamenti. Dal momento che per forza di cose alcuni contrabbandieri, ma come del resto anche quelli che non lo sono, possono mostrare tali segnali, è probabile che gli agenti poi effettivamente trovino delle irregolarità in almeno alcune delle persone sospette. Questo fa aumentare la fiducia nell’uso della loro strategia, anche se di fatto non può costituire una prova a favore della bontà del metodo. Infatti, dal momento che chi non manifesta tali comportamenti tende ad essere meno controllato, non può essere calcolata la probabilità che queste persone possano avere delle irregolarità. Idealmente andrebbero quindi controllate sia le persone che manifestano i comportamenti considerati sospetti che quelle che non li manifestano, per poi confrontare il numero di irregolarità associate ai due gruppi.
Un ulteriore motivo per cui alcune false credenze continuano a persistere è che quando incontriamo eventi che disconfermano le nostre convinzioni tendiamo facilmente ad ignorarli piuttosto che interpretarli come un motivo per metterci in discussione (Anderson, Lepper e Ross, 1980). L’evento disconfermante potremmo percepirlo come un caso eccezionale, non rappresentativo, o che in realtà vi possa essere una spiegazione alternativa.
A volte anche il solo pensare alle proprie credenze rafforza la fiducia in esse (Tesser, 1978), una volta che ci siamo formati un’idea siamo portati a trovare dei motivi per sostenerla. Se chiedessimo, per esempio, alle persone perché pensano che chi mente tenda a distogliere lo sguardo, queste potrebbero pensare a dei motivi per corroborare questa ipotesi, cercando di recuperare in memoria esempi in cui dei bugiardi hanno cercato di evitare lo sguardo (Granhag, Andersson, Strömwall e Hartwig, 2004).
Infine, un altro fattore responsabile di queste distorsioni è il fatto di non ricevere adeguati feedback sulla bontà della nostra analisi. Affinché i feedback siano efficaci questi devono essere frequenti e immediati rispetto alla valutazione fatta, cosa non facile nel caso in cui si stia analizzando il comportamento non verbale legato alla menzogna. La maggior parte delle volte non potremmo sapere mai se quanto riferito da una persona corrisponde a verità o a menzogna o, nel caso in cui ciò sia possibile, lo potremmo sapere anche dopo molto tempo, momento in cui il ricordo del comportamento adottato dalla persona analizzata è stato magari dimenticato o ha subito delle distorsioni cognitive (Park, Levine, McCornack, Morrisson e Ferrara, 2002).
Alla luce di queste dinamiche, per evitare di cadere in errate interpretazioni nel valutare l’attendibilità di un’informazione, è importante sforzarsi di adottare sempre un approccio scientifico e sistematico, che possibilmente prenda in considerazione sia i contenuti verbali che non verbali, al fine di evidenziare al meglio le differenze tra il ricordo di un’esperienza reale piuttosto che immaginaria, sia in termini di contenuto che di qualità (Undeutsch, 1989).
Riferimenti
Anderson,C. A., Lepper, M. R.,&Ross, L. (1980). Perseverance of social theories: The role of explanation in the persistence of discredited information. Journal of Personality and Social Psychology, 39, 1037–1049.
Anolli, L., (2003). Mentire. Tutti lo fanno, anche gli animali. Il Mulino.
Burgoon, J., Adkins, M., Kruse, J., Jensen, M. L., Meservy, T., Twitchell, D. P., ... & Metaxas, D. N. (2005, January). An approach for intent identification by building on deception detection. In Proceedings of the 38th Annual Hawaii International Conference on System Sciences (pp. 21a-21a). IEEE.
Chapman, L. J. (1967). Illusory correlation in observational report. Journal of Verbal Learning and Verbal Behavior, 6(1), 151-155.
Darley, J. M., & Gross, P. H. (1983). A hypothesis-confirming bias in labeling effects. Journal of Personality and Social Psychology, 44(1), 20.
Gilovich, T. (1991). How we know what isn’t so: The fallibility of human reason in everyday life. New York: Free Press.
Granhag, P. A., Andersson, L. O., Strömwall, L. A., & Hartwig, M. (2004). Imprisoned knowledge: Criminals’ beliefs about deception. Legal and Criminological Psychology, 9(1), 103-119.
Leal, S., & Vrij, A. (2008). Blinking during and after lying. Journal of Nonverbal Behavior, 32(4), 187-194.
Levine, T. R., Asada, K. J. K., & Park, H. S. (2006). The lying chicken and the gaze avoidant egg: Eye contact, deception, and causal order. Southern Communication Journal, 71(4), 401-411.
Park, H. S., Levine, T., McCornack, S., Morrison, K., & Ferrara, M. (2002). How people really detect lies. Communication Monographs, 69(2), 144-157.
Tesser, A. (1978). Self-generated attitude change. In Advances in experimental social psychology (Vol. 11, pp. 289-338). Academic Press.
Undeutsch, U. (1989). The development of statement reality analysis. In Credibility assessment (pp. 101-119). Springer Netherlands.
Vrij, A. (2001). Implicit lie detection. The Psychologist, 14, 58–60.
Vrij, A. (2008). Detecting lies and deceit: Pitfalls and opportunities. John Wiley & Sons.
Vrij, A., Edward, K., & Bull, R. (2001a). Stereotypical verbal and nonverbal responses while deceiving others. Personality and social psychology bulletin, 27(7), 899-909.
Vrij, A., Semin, G. R., & Bull, R. (1996). Insight into behavior displayed during deception. Human Communication Research, 22(4), 544-562.
Agente di vendita presso Gruppo Aboca
6 anniMolto interessante!!!
Managing Director presso Borgogna The House of Mind
6 anniMolto interessante, grazie per la condivisione.