IN UN ABBRACCIO

Ce li facciamo oggi, con l'anno nuovo gli auguri. In bianco e nero, ma con un sorriso.

Che la fine di qualcosa un po' di malinconia te la regala sempre, anche quando sei soddisfatto e di più quando magari ti senti di non aver realizzato o ottenuto tutto quanto ti eri prefisso il primo di gennaio nella interminabile lista dei buoni propositi e degli obiettivi, che certe volte non si capisce dove finiscono gli uni e dove iniziano gli altri, ma comunque il bilancio di prammatica è positivo. Eppure quel velo di tristezza, quel baluginìo di insoddisfazione sono fisiologici. Ci cresciamo in questa paura di essere felici, che ci sembra presuntuoso, perché chi sono io per essere felice o anche solo per pensarlo. E ci sembra anche di attirarci le ire dell'universo, che per carità, non si accorga mai che stiamo bene così. Con i problemi, i limiti, i difetti, le imperfezioni,  le incompiutezze, gli sbagli, le scivolate, le paure, le scelte irrazionali, gli errori di valutazione, i sensi di colpa, i rimorsi e i rimpianti, che proprio di questi ogni tanto qualcuno ci chiede cosa preferiamo e dentro di noi pensiamo che in realtà la risposta giusta è quella che l'altro vuole sentire, perché ognuno sa di sé. Perché siamo tutti unici e non è una frase fatta,  è quello che più di tutto ho imparato quest'anno, quando sono entrata (come criminologa 😊) in un carcere e mi sono trovata immersa nell'umanità, che per me è parola dell'anno. E scusate se non dico "gentilezza".

Ho capito subito che incontravo persone, non reati. E non dovevo giudicare, c'è già chi lo fa. Io arrivo nella fase peggiore. Quella dove prima si raccolgono cocci. Quella dove arriva la consapevolezza,  quando arriva, ma soprattutto quella delle mancanze.

La mancanza della famiglia e dei figli prima di tutto. Questi, che sono i veri motori del cambiamento e la prima fonte di disperazione.

Come V. arrivato in ufficio con una corda, che non era un tentato suicidio, ma un grido di aiuto. E adesso, da quando può parlare con la moglie e i bambini, ha sempre gli  occhi che ridono e manco ti accorgi che avrà sì e no dieci denti.

La mancanza di fiducia.

Come I. che quando sono arrivata staccava i termosifoni dal muro a mani nude, e si tagliava con qualsiasi cosa. E adesso lavora, e insegna lui agli altri.

La mancanza di prospettiva. "Non c'è futuro per me dottoressa" dicono, a volte piangendo a volte senza più lacrime. Tanti non hanno casa, non hanno lavoro e hanno paura.

Come R. che era uscito e dopo un mese era di nuovo lì; aveva dormito nei vani motore dei camion in un parcheggio, come i gatti randagi, perché quest'inverno sarà anche mite ma è freddo se non lo guardi dalla finestra di una casa. Non stava in piedi e ora è contento di essere tornato dentro. "È un'occasione per me" dice pieno di vergogna e speranza.

La mancanza di progettualità.

Come M. Ventisette anni e una "carriera" iniziata a quattordici anni in un carcere minorile. Poi la comunità,  il carcere, la comunità di nuovo e adesso ancora il carcere, con altri tre anni da scontare. "Non ne posso più, te lo giuro. Basta. Voglio cambiare, Simonetta, voglio cambiare." Ha licenza di chiamarmi per nome, ha l'età di mio figlio e quando lo guardo dentro di me grido. Piangeva ieri, perché nel frattempo ha avuto una bambina e adesso sta mettendo in fila tutte le cose che vorrebbe fare e nessuno ha mai fatto con lui, perché le famiglie non sono tutte uguali e certe sono meno uguali delle altre. Mi ha chiesto "Ti posso abbracciare?" e piangeva ma io no perché se sono salda lui diventa più forte.

Ho pianto dopo, mentre guidavo per tornare a casa. Pensavo a lui, a loro e anche agli altri, quelli che fanno gli spavaldi, che sfidano, quelli che sanno o pensano di non averlo mai avuto, un futuro. Sono i Franti delle sezioni e non piacciono a nessuno, nemmeno a se stessi.

Dedico a loro il 2025, perché forse ne hanno più bisogno.