HTTP The Definitive Guide 1st Edition David Gourley
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HTTP The Definitive Guide 1st Edition David
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Author(s): David Gourley, Brian Totty
ISBN(s): 9781565925090, 1565925092
Edition: 1
File Details: PDF, 9.52 MB
Year: 2002
Language: english
10. HTTP
The Definitive Guide
David Gourley and Brian Totty
with Marjorie Sayer, Sailu Reddy, and Anshu Aggarwal
Beijing • Cambridge • Farnham • Köln • Paris • Sebastopol • Taipei • Tokyo
52. Neppure in quest'anno andò esente il regno di Napoli dalle dure
pensioni della discordia, a cagion della guerra continuata fra i due re,
cioè fra Alfonso re d'Aragona e Renato d'Angiò. Povero era Renato,
e, mancandogli gente e pecunia [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.], cioè
i due maggiori requisiti a fare e sostenere la guerra, altra speranza
non avea se non in Antonio Caldora duca di Bari. Ma questi a quanti
messi gli mandava il re, affinchè cavalcasse in suo aiuto, adduceva
per iscusa la mancanza del danaro, e il timore che in sua lontananza
si ribellassero i popoli dell'Abbruzzo. Prese Renato allora l'ardita
risoluzione di portarsi incognito in persona in quelle contrade, e
l'eseguì con maraviglia d'ognuno. Raccolse in esso viaggio donativi,
danaro e gente, e massimamente dagli Aquilani. Trovavasi egli nel dì
29 di giugno in faccia all'esercito aragonese, e mandò ad Alfonso la
disfida della battaglia. La risposta dell'Aragonese fu, che, trovandosi
egli padrone della maggior parte del regno, non si sentiva voglia di
mettere a repentaglio tutta la sua fortuna in una giornata. Avrebbe
nondimeno Renato assalito il campo nemico, e probabilmente con
isperanza di vincerlo, perchè già si ritirava; ma l'infedele Caldora co'
suoi ricusò di muoversi. Per questo esacerbato Renato il fece
ritenere, e prese al suo soldo buona parte delle di lui milizie,
lasciandolo poscia tornare in Abbruzzo con titolo di vicerè. Ma in
vece di tornar colà il Caldora, cominciò a trattare accordo col re
Alfonso. Dio punì la sua infedeltà, perchè in questo mentre Gian-
Antonio Orsino principe di Taranto, già tornato alla divozione del re
Alfonso, tenne trattato con Marino da Norcia governatore di Bari pel
Caldora, ed entrò in possesso non solo di quella città, ma anche di
Conversano e di tutte le altre terre dei Caldoreschi. Tornò poscia il re
Alfonso colle sue genti all'assedio di Napoli, e però il re Renato,
quantunque avesse ricuperato castello Sant'Ermo, tornò ad essere in
disagio come prima, e ricorse a papa Eugenio per aiuto. Fin qui
erano state rispettate le città e terre degli Sforzeschi in regno di
Napoli, cioè quelle del conte Francesco e de' suoi fratelli. Il re
Alfonso, secondo i Giornali di Napoli, le prese nell'anno presente,
ancorchè fosse pace tra lui e il conte; e trovolle ricchissime per aver
esse goduto finora e profittato della loro neutralità. Erano queste
Benevento, Manfredonia, Bitonto ed altre non poche [Istor. Napolit.,
53. tom. 23 Rer. Ital.]: danno grave provenuto al conte Francesco per la
sua lontananza, avendo egli perduto il proprio per sostenere l'altrui.
Verisimilmente fu questo un sottomano del Visconte, che, per
vendicarsi d'esso Sforza, segretamente attizzò contra di lui il re
Alfonso. Il Simonetta [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 5, tom. 21 Rer.
Ital.] differisce sino all'anno 1442 lo spoglio di tali città fatto al conte.
In mano d'esso re venne anche la città d'Aversa col sua castello.
Sigismondo Malatesta signore di Rimini [Cronica di Ferrara, tom. 24 Rer.
Ital.], per interposizione di Niccolò marchese di Ferrara, si ritirò
dall'amicizia del duca di Milano, e tornò a quella de' Veneziani: il che
fu cagione [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.] che anche Ravenna e i
Polentani facessero lo stesso nel dì 14 d'agosto.
54. Anno di
Cristo mccccxli. Indiz. iv.
Eugenio IV papa 11.
Federigo III re de' Romani 2.
Non mancarono affari neppure in quest'anno a papa Eugenio
[Raynaldus, Annal. Eccles. Spondanus, in Annal. Eccles. Æneas Sylvius, in Epist.],
perciocchè tuttavia lo scismatico concilio di Basilea, benchè
composto di poche teste, continuava le sue sessioni, e l'antipapa
Felice V, cioè Amedeo di Savoia, nel dì 24 di giugno, festa di san
Giovanni Batista, con gran solennità si fece coronare colla pontificia
tiara nella città di Basilea, dove fu gran concorso di gente, e creò
anche quattro cardinali. E benchè il re Alfonso non lasciasse
riconoscere per papa nei suoi regni il suddetto Amedeo, pure andava
trattando col concilio di Basilea, siccome sdegnato con papa
Eugenio, perchè questi ricusava di dargli l'investitura del regno di
Napoli. Anzi nel mese di ottobre, per far paura ad esso pontefice,
procurò che i prelati basiliensi inviassero a sè una ambasciata,
mostrando ancora di voler ottenere dall'antipapa ciò che il papa gli
andava negando. Ora Eugenio, non meno per queste ostilità
d'Alfonso, che per le preghiere del re Renato, si volse a raccogliere
quanti armati potè, e li spedì in regno di Napoli contra di Alfonso.
Prima non di meno che giugnessero tali soccorsi, erano succedute
alcune azioni vantaggiose al medesimo re d'Aragona [Giornal. Napol.,
tom. 21 Rer. Ital.]: cioè, accordatisi con lui i Caldoreschi, aveano
inalberate le di lui bandiere. Cassano, Biccari, Caiazza, la Padula ed
55. altre terre erano venute a sua divozione [Istoria di Napoli, tom. 23 Rer.
Ital.]. Ora da che il conte Francesco Sforza ebbe ragguaglio della
guerra mossa da esso Alfonso alle sue terre del regno di Napoli,
inviò colà Cesare Martinengo con Vittore Rangone, e con un grosso
corpo di cavalleria, il quale, unitosi con altre soldatesche della Marca,
col conte di Celano, con Francesco da San Severino ed altri
Napoletani [Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 6, tom. 21 Rer. Ital.], andò
ad opporsi ai progressi del re Alfonso. Si trovava allora esso re
all'assedio della città di Troia. Vennero le genti del conte Francesco
alle mani con lui nel dì 10 di giugno, e, dopo un crudel fatto d'armi,
n'ebbero la peggio con loro vergogna, ma senza gran danno, perchè
la maggior parte d'essi fuggendo si salvò nella suddetta città di
Troia, di maniera che fu forzato Alfonso dipoi a levarsi col campo di
sotto a quella città. Nel seguente luglio Alessandro Sforza,
governatore della Marca pel conte Francesco suo fratello, entrò
anch'egli nel regno con mille e cinquecento cavalli. Per trattato ebbe
il castello di Pescara; poscia all'improvviso arrivò addosso a
Raimondo Caldora, che assediava Ortona, e il fece prigione insieme
con cinquecento cavalli. Poco mancò che non pigliasse anche Riccio
e Giosia di casa Acqua viva. Ebbero questi la fortuna di salvarsi a
città di Chieti. Comparve poscia nel regno l'esercito pontifizio sotto il
comando del cardinale di Taranto legato, e del conte di Tagliacozzo,
consistente in circa dieci mila persone; ma non fece prodezza alcuna
degna di menzione. Anzi il cardinale da lì a qualche tempo fece
tregua col re Alfonso, e se ne tornò in Campagna di Roma. Questa fu
la rovina del re Renato [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.], perchè
Alfonso mandò tosto don Ferdinando suo figliuolo con grosso corpo
di combattenti a strignere d'assedio di bel nuovo Napoli, città che
scarseggiava allora e maggiormente seguitò a scarseggiare di viveri.
Avea certamente il papa a forza di danari fatto anche un armamento
di alcuni legni in Genova, per inviarli contra d'Alfonso; ma spese
malamente la pecunia, avendo mostrato i Genovesi voglia di far
molto, con poi far nulla.
Per conto della Lombardia, veggendosi Filippo Maria duca di
Milano in cattiva positura, per avere non solo perduti gli acquisti
56. fatti, ma parte ancora del suo nella guerra co' Veneziani, avea fin
dall'anno antecedente pregato Niccolò Estense marchese di Ferrara
ad interporsi per la pace, siccome principe neutrale, e che avea sì
buona mano in somiglianti affari [Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital.].
Andò il marchese per tal effetto a Venezia, passò anche a Mantova
per trattarne con quel marchese; nè solamente tenne filo di lettere
col conte Francesco Sforza, ma, con licenza de' Veneziani, andò
anche a trovarlo a Marmirolo. Una gran remora a questo affare era lo
stesso conte; laonde per guadagnarlo tornò il duca di Milano ad
esibirgli in moglie Bianca, unica naturale sua figlia, che seco portava
le speranze di tutta la sua eredità. E perchè non poteva il conte
prestar fede a chi più di una volta l'avea dianzi burlato, si trovò il
ripiego di mandar Bianca a Ferrara in deposito presso il marchese
Niccolò. Fu essa dunque condotta a Ferrara, dove come gran
principessa fece la sua entrata nel dì 26 di settembre [Cronica di
Ferrara, tom. 24 Rer. Ital.] sotto baldacchino di panno d'oro, e stelle poi
ad aspettare l'esito di sua ventura. Non so ben dire se per difetto del
duca, principe incostante nelle sue risoluzioni, e che per la venuta di
Niccolò Piccinino tornò ad alzare il capo, oppure per le pretensioni
de' Veneziani, vogliosi di qualche buon boccone, anche in questa
occasione andasse a terra la pratica della pace. Certo è che nel
verno di quest'anno si ricominciò la guerra, e del dì 5 d'aprile il
marchese Niccolò ricondusse Bianca a Milano, dopo aver perduta
ogni speranza di comporre le cose. Era già tornato nell'anno
precedente a Milano il suddetto Piccinino, ma quasi in farsetto; i suoi
soldati veterani il seguitarono quasi tutti a piedi, perchè ogni lor
sostanza avean perduto nella rotta d'Anghiari, essendo, come si è
detto altrove, secondo la disciplina militare degl'Italiani d'allora, in
uso di spogliar d'armi i soldati presi, e di lasciarli andare, con ritener
solamente le persone da taglia [Cristoforo da Soldo, Ist. Bresciana, tom. 21
Rer. Ital.]. Ancorchè la borsa del duca fosse estenuata affatto, pure si
trovarono gravezze e maniere di spremere quelle dei particolari,
tanto che il Piccinino si rimise in arnese, ed incoraggì il duca a nuove
militari imprese. Eccolo dunque in campagna nel dì 13 di febbraio
dell'anno presente passare il fiume Oglio con circa otto mila cavalli, e
tre mila fanti. Questo passaggio mise il terrore nelle milizie venete,
57. che svernavano nel Bresciano, e tutte si ritirarono alle fortezze
[Simonetta, Vit. Francis. Sfortiae, tom. eod.]. Mille cavalli del conte
Francesco si ridussero a Chiari. Fu loro addosso il Piccinino, e li prese
insieme colla terra; e ritenuti i capi di squadra, lasciò andare il resto
in bel giuppone. Non passò gran tempo che ricuperò tutta la
Geradadda, prese Palazzuolo, tutta la valle d'Iseo, il piano del
Bergamasco e gran parte del Bresciano: tanta era la sua velocità in
simili azioni. Minutamente si veggono narrati questi fatti da
Cristoforo da Soldo, storico bresciano. Solamente nel mese di giugno
uscì in campagna Francesco Sforza, e passò sul Bresciano in cerca
del Piccinino. Nel dì 25 d'esso mese seguì fra le sue genti e quelle
d'esso Piccinino un incontro assai caldo, colla peggio degli
Sforzeschi; e da lì innanzi andarono poi girando e come giocando le
armate, senza volontà di provar la loro fortuna. Il motivo era, perchè
si trattava forte di pace in segreto, e il conte Francesco, che
onoratamente comunicava tutte le proposizioni ai commessarii
veneziani, era il principale in questo dibattimento.
Ciò che diede impulso a ripigliarne il trattato, fu l'insolenza de'
capitani del duca di Milano, i quali, mirando esso duca già avanzato
in età, e senza figliuoli maschi, tutti d'accordo pensavano ad
assicurar la loro fortuna con chiedergli qualche porzione dello Stato
di lui. Faceva istanza il Piccinino par avere Piacenza in sua parte;
Lodovico da San Severino per Novara; Lodovico dal Verme per
Tortona; Taliano Furlano dimandava il Bosco e Fragaruolo nel
distretto d'Alessandria. Dispiacque talmente questa sinfonia al duca,
che, chiamato a sè Antonio Guidobuono da Tortona suo uomo fidato,
ed amico ancora del conte Francesco Sforza, segretamente il mandò
a far proposizioni d'accordo ad esso conte, offerendogli la figliuola
Bianca, e la città di Cremona con Pontremoli in dote, e con altre
esibizioni per appagar anche i Veneziani e Fiorentini. Andò tanto
innanzi questa pratica, che, essendo conchiusi i principali articoli
[Sanuto, Istor. di Venezia, tom. 22 Rer. Ital. Cristoforo da Soldo, Istor. Bresc., tom.
21 Rer. Ital.], nel dì primo d'agosto, mentre il conte Francesco
assediava e batteva colle bombarde Martinengo, dove s'erano chiusi
circa mille dei migliori cavalli del Piccinino, all'improvviso saltò fuori
58. la tregua fra le parti guerreggianti, e cessò quell'assedio. Nel 3
d'esso mese Niccolò Piccinino, che coll'esercito suo era accampato in
que' contorni, con tutti i suoi uffiziali andò a visitare il conte
Francesco. Allora si abbracciarono e baciarono questi due gran
capitani, e il conte, oltre all'onore e alle carezze che fece a tutti quei
condottieri d'armi, perdonò anche a Taliano Furlano, che piagnendo
gli dimandò perdono. Eletto dalle parti arbitro per conchiudere la
suddetta pace, esso conte portossi alla Cauriana sul Mantovano,
dove si raunarono ancora gli ambasciatori del papa, de' Veneziani e
Fiorentini, del duca di Milano, e de' marchesi di Ferrara e di Mantova.
Fra le condizioni accordate dal duca vi fu il matrimonio di Bianca sua
figliuola, in età allora di sedici anni, col conte Francesco; e però
prima di pubblicar la pace andò egli nel dì 25 d'ottobre [Chron. Placent.,
tom. 20 Rer. Ital. Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.] (il Simonetta [Simonetta,
Vit. Francisci Sfortiae, tom. 21 Rer. Ital.] dice il dì 24) con due mila cavalli
presso a Cremona; e giunta colà anche Bianca con gran compagnia,
la sposò in San Sigismondo, e prese il possesso di Cremona; per le
quali nozze si fece mirabil festa in quella città con bagordi, giostre ed
altre allegrie [Annales Forolivienses, tom. 22 Rer. Ital. Platina, Istor. di Mantova,
lib. 5.]. Fu poi nel dì 20 di novembre pubblicata la pace, in cui Gian-
Francesco marchese di Mantova, secondo la disgrazia de' più debili
nelle leghe, lasciò il pelo, avendo dovuto restituire a' Veneziani Porto,
Legnago, Nogarola, ed altri luoghi da lui presi, e rimettervi del
proprio Valeggio, Asola, Lunato e Peschiera, a lui tolti da' Veneziani.
Grande allegrezza fu quella di tutta Lombardia per questa pace.
Mutazione accadde nell'anno presente in Ravenna [Rubeus, Hist.
Ravenn., lib. 7. Cronica di Ferrara, tom. 24 Rer. Ital.]. Vi era signore Ostasio
da Polenta, che col suo governo parea andare a caccia delle maniere
di farsi odiare da' sudditi suoi. Se l'intesero questi col senato veneto,
il quale chiamò a Venezia esso Ostasio colla moglie e col figliuolo,
mostrando di voler far loro grande onore. Venne egli a Ferrara, e
quantunque il marchese Niccolò il consigliasse di non andare, volle
proseguire il suo viaggio. Giunto ch'egli fu colà, il popolo di Ravenna,
dato di piglio all'armi nel dì 24 di febbraio, si suggettò a' Veneziani,
che presero il dominio e possesso di quella città. Ostasio fu inviato in
59. Candia, dove trovò non men egli che il figliuolo la morte col tempo:
con che in esso mancò la nobil famiglia, o almen la signoria de'
Polentani, che da lungo tempo dominarono in Ravenna. A papa
Eugenio dispiacque non poco di veder passare quella sua città in
mani sì potenti. Talmente s'era in questi tempi affezionato il duca di
Milano a Niccolò Estense marchese di Ferrara, principe di sommo
credito, che, chiamatolo a Milano, non solo si cominciò a reggere col
suo consiglio, ma in certa guisa depositò in lui il governo de' suoi
Stati. Corse anche voce che meditasse di farlo suo successore dopo
la sua morte. Tanta parzialità del duca gli tirò tosto addosso l'invidia
di chi era solito a comandare in quella corte, e di chi già pensava a
veder succedere in quel ducato il conte Francesco Sforza. Cadde egli
infermo nel dì 26 di dicembre, e in poche ore, con fama di veleno a
lui dato, si sbrigò da questo mondo, con essere poi portato a Ferrara
il cadavere suo, e datagli sepoltura nel dì primo dei seguente
gennaio. Lionello suo figliuolo bastardo, ancorchè vi fossero Ercole e
Sigismondo suoi figliuoli legittimi, a lui nati da Ricciarda figlia del
marchese di Saluzzo, ma allora piccioli di età, per disposizione del
padre e del papa, succedette nei dominio di Ferrara, Modena,
Reggio, Rovigo e Comacchio. Fu anche guerra in quest'anno [Cronica
di Rimini, tom. 20 Rer. Ital.] fra Sigismondo Pandolfo de' Malatesti signore
di Rimini e il conte d'Urbino; ma per opera di Alessandro Sforza,
fratello del conte Francesco, seguì pace fra loro. E nel mese di
agosto i Sanesi [Chronic. Senense, tom. eod.] ebbero gravi molestie da
Simonetta capitano di papa Eugenio; ma in fine lo sconfissero, e il
fecero fuggire ferito alla di lui patria. I Veneziani dopo la pace
cassarono gran copia delle lor soldatesche; e il bello fu, che quante
ne potè tirar dalla sua il Piccinino, tutte le prese al suo soldo, ossia a
quello del duca di Milano.
60. Anno di
Cristo mccccxlii. Indizione v.
Eugenio IV papa 12.
Federigo III re de' Romani 3.
Già si godeva buona quiete in Lombardia, e la guerra tutta s'era
ridotta nel regno di Napoli, dove la capitale, stretta d'assedio da
Alfonso re d'Aragona, era valorosamente, ma con gran disagio,
difesa dal re Renato d'Angiò e dai Napoletani, che molto lo amavano
[Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 6, tom. 21 Rer. Ital.]. Essendo
nulladimeno in grave tracollo gli affari di esso Renato, questi nel
verno non lasciò addietro preghiere e promesse al conte Francesco
Sforza per condurlo nel regno alla propria difesa. E non trovò in
questo molte difficoltà, perchè il conte era amareggiato forte a
cagion dell'occupazione delle sue città già fatta dal re Alfonso nel
regno. Misesi dunque in punto colle maggiori forze ch'egli potò
raunare ed assoldare nei mesi del freddo, ed ebbe fra gli altri unito
a' suoi disegni Sigismondo Pandolfo Malatesta signor di Rimini, e
genero suo per cagione di Polissena sua figliuola con lui maritala in
quest'anno. Mandato innanzi Giovanni suo fratello con parte
dell'esercito, gli diede ordine d'unirsi nel regno di Napoli con Antonio
Caldora, il quale già s'era partito dalla divozione del re Alfonso.
Poscia il conte nel principio di maggio [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer.
Ital.] imprese il viaggio anche egli a quella volta col rimanente
dell'esercito. Ma mentre egli rivolgea i suoi passi e disegni contra
d'un lontano nemico, con bene strana scena trovò di averne un altro
61. assai vicino, a cui non avrebbe mai pensato. Per quanto attesta il
Simonetta, dacchè il re Alfonso conobbe i preparamenti dello Sforza
contra di lui, si diede a tempestar con calde lettere Filippo Maria
duca di Milano, acciocchè ritenesse il conte da quella spedizione. Da
questo ancora si può scorgere che irregolar testa fosse quella del
duca. Non erano, per così dire, quattro giorni che egli nel valoroso
conte si era fatto un genero, e come un figliuolo; eppure non tardò
ad operar contra di lui alla peggio, sia perchè gli dispiacesse di
vederlo tuttavia protetto da' Veneziani e Fiorentini, ed unito con loro,
ovvero che si fosse pentito di un accasamento fatto quasi per forza e
suo malgrado. Però questo sì instabile principe suscitò contra del
conte papa Eugenio, con rappresentargli d'essere venuto il tempo di
ricuperar la Marca, e con offerirgli anche le sue forze sotto il
comando del Piccinino. Infatti, fingendo egli di aver licenziato dal suo
servigio Niccolò Piccinino, questi nel dì 3 di marzo arrivò con molta
gente d'armi a Bologna [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.], città a lui
sottoposta, facendo vista d'andarsene a Perugia patria sua. Fu egli
poi dichiarato gonfaloniere della Chiesa romana da papa Eugenio
[Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Italic.]; e giunto a Todi, posseduta allora
dal conte Francesco, con un trattato se ne impadronì. Questa novità
fece fermare il conte nella Marca, per accudire ai proprii interessi, e
prese con Bianca sua moglie per sua residenza Jesi.
Mentre queste cose succedeano, Alfonso re d'Aragona, principe di
gran mente e sagacità, e di non minore fortuna, continuava l'assedio
della città di Napoli, con averla ridotta a gran penuria di vettovaglie
[Giornal. Napol., tom. 22 Rer. Ital. Istor. Napoletana, tom. 23 Rer. Ital. Sanuto,
Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.]. Da due mastri muratori napoletani, che
furono presi, gli fu insegnata la maniera d'entrare in Napoli, cioè per
quello stesso acquedotto per cui tanti secoli prima Belisario s'era
nella città medesima introdotto. Era esso strettissimo; il re Renato vi
avea fatto mettere dei cancelli di ferro ed altri ripari, e fattavi fare la
guardia; ma non fu continuata quest'ultima cautela. Perciò nel
venerdì notte, vegnendo il sabbato, dì 2 di giugno, per quel condotto
sotterraneo il re Alfonso spinse, chi dice quaranta, e chi più
verisimilmente trecento o quattrocento de' suoi soldati entro la città;
62. e questi fino all'apparir del giorno si tennero nascosi in una casa.
Fatto giorno, ordinò il re che si desse un fiero assalto alle mura di
Napoli alla parte opposta: nel qual tempo i soldati entrati,
impossessatisi d'una porta, v'inalberarono la bandiera aragonese.
Nello stesso tempo que' di fuori cominciarono colle scale a salir su
per le mura; e quantunque il re Renato come un lione accorresse e
facesse molte prodezze per trattenere questo torrente, pure fu in
fine forzato a ritirarsi, per timore d'essere preso, in Castello Nuovo.
Entrati dunque gli Aragonesi, per quattro ore diedero il sacco alla
città, finchè arrivato anche Alfonso, mandò bando, pena la vita, che
desistessero dalle offese. Grandi carezze fece ai Napoletani, e la città
s'empiè in breve di vettovaglia. Giunsero in quel tempo due navi
genovesi [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.], che misero provvisioni
in Castello Nuovo; e sopra d'esse imbarcatosi il re Renato, se n'andò
a Firenze a raccontar le sue disavventure al papa, e a lamentarsi di
lui, perchè avesse impedito al conte Francesco il recargli aiuto. Fu
consolato con una bella investitura del regno di Napoli, che
veramente venne a tempo al suo bisogno; e però se ne tornò da lì a
qualche tempo in Provenza, assai chiarito della volubilità delle cose
umane. Seppe ben prevalersi della sua fortuna il re Alfonso. Da lì a
pochi giorni si rendè il castello di Capuana, e il Nuovo fu assediato.
Nel dì 21 di giugno marciò coll'esercito suo contro ad Antonio
Caldora, il quale nel dì 28, unito con Giovanni Sforza fratello del
conte, animosamente andò ad attaccar battaglia col re. Se non era
esso Caldora tradito da' suoi, forse gli dava una mala giornata; ma
restò sbaragliato e preso. Secondo il Simonetta [Simonetta, Vit. Francisci
Sfortiae, lib. 6, tom. 21 Rer. Ital.], grave sospetto di tradimento diede il
medesimo Antonio. Poscia perchè egli rivelò al re le intelligenze di
molti signori del regno col conte Francesco, ebbe salva la vita, e con
quattro bicocche a lui concedute in Abbruzzo fu rimesso in libertà,
essendo passate le sue genti al servigio di Alfonso. Giovanni Sforza,
venuto colà con due mila cavalli, se ne tornò con soli quindici a
trovare il conte suo fratello nella Marca. Non finì l'anno che, a riserva
di Tropea e di Reggio di Calabria, tutto il regno venne alla divozione
del re Alfonso, principe liberale verso gli amici, clemente verso i
nemici, e che facea buona giustizia ad ognuno. Ebbe anche le due
63. fortezze di Castello Nuovo e castello Sant'Ermo, de' quali il re Renato
volle piuttosto fare mercato con Alfonso, che difenderli senza frutto
alcuno.
Il papa, stato in addietro sì saldo contra del re Alfonso, dacchè il
vide cotanto esaltato, cominciò ad addolcirsi con lui, e forse fin
d'allora si diede ad intavolar seco un segreto trattato per abbattere il
conte Francesco Sforza, e spogliarlo della marca d'Ancona [Raynaldus,
Annal. Eccles.]. Non si ricordava egli più dei servigi a lui prestati da
questo insigne capitano di guerra, nè delle investiture a lui date, e
confermate nell'anno presente, non credendosi tenuto ad osservar
patti stabiliti in danno della Chiesa romana, dovendo valer solamente
ciò che le è di utile. Trovò che il conte avea prese alcune terre della
stessa Chiesa non comprese nella sua investitura. Era anche mal
soddisfatto di lui, e con ragione, se è vero ciò che porta Neri Capponi
[Neri Capponi, Comment., tom. 18 Rer. Ital.]; perchè nella pace non gli avea
fatto immediatamente restituir Bologna, detenuta dal Piccinino,
benchè ciò si dovesse effettuar solamente due anni appresso. Ed
intanto il Piccinino non era tenuto reo, anzi era a' servigi del
medesimo papa. Per attestato del Poggio [Poggius, Hist., lib. 6.], avea
fatto lo Sforza il suo dovere per fargli restituire Bologna, ma il duca
non volle. Pubblicò dunque il papa sul principio di agosto una bolla
contra di Francesco Sforza, dichiarandolo privato del grado di
gonfalonier della Chiesa, ribello e nemico. Dispiacque ciò forte ai
Fiorentini e Veneziani, che proteggevano il conte, e i primi diedero
anche ordine a Bernardo de Medici di metter pace fra esso conte e il
Piccinino [Ammirati, Istor. Fiorent., lib. 22.]: il che si effettuò, con essersi
veduti insieme ed abbracciati di nuovo questi due valorosi guerrieri.
Ma che? non passò molto che il Piccinino occupò al conte la terra
ossia città di Tolentino, e tornò alle ostilità. Il Medici di nuovo
s'interpose, e racconciò gli affari; ma per poco tempo, perchè
appena lo Sforza si fu mosso per passare nel regno contra del re
Alfonso, con dare un fiero sacco a Ripa Transona, che il Piccinino alle
istanze dei legati del papa gli tolse Gualdo, ed imprese dipoi l'assedio
della città d'Assisi. Alla difesa vi fu inviato dal conte con della fanteria
Alessandro Sforza suo fratello, ma indarno [Blondus, Dec. IV, lib. 1.].
64. L'avventura o disavventura stessa che dianzi provò Napoli, tornò a
vedersi sotto Assisi. Cioè per un acquedotto, insegnatogli da un
frate, il Piccinino una notte introdusse entro quella città un migliaio
di fanti, colle spalle de' quali anche il resto delle sue genti v'entrò nel
dì 30 di novembre [Annal. Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.]. Fu posta a sacco
tutta l'infelice città, nè si lasciò indietro iniquità che non fosse
commessa, senza neppure portare rispetto alcuno al venerabil
tempio di San Francesco. Gran discredito venne a Niccolò Piccinino
per questa barbarie, aggiunta all'aver due volte rotti i patti e
giuramenti della pace fatta col conte. Ne' medesimi tempi il re
Alfonso finì di prendere tutte le terre spettanti nel regno ad esso
conte, e furono, secondo l'asserzione del Simonetta [Simonetta, Vit.
Francisci Sfortiae, tom. 21 Rer. Ital.], Ariano, Manfredonia, Troia e Monte
Sant'Angelo. Mandò bensì il conte Francesco uno de' suoi primi
uffiziali, cioè Troilo, al re, per trattar d'accordo; ma Alfonso l'andò
menando a spasso con belle parole, senza mai voler conchiudere
cosa alcuna; anzi indusse con vantaggiose promesse Troilo stesso ad
abbandonare il servigio del conte: il che, siccome vedremo, fu
eseguito a suo tempo. Intanto, se crediamo al Sanuto [Sanuto, Istor.
Venet., tom. 22 Rer. Ital.], nel dì 16 d'ottobre fu conchiusa una lega fra
esso re Alfonso, il duca di Milano e Niccolò Piccinino contro la lega
de' Veneziani, Fiorentini e conte Francesco. Fin qui avea Tommaso
da Campofregoso doge di Genova lodevolmente governata quella
città [Giustiniani, Istoria di Genova, lib. 5.]; ma essendo mancato di vita in
quest'anno Batista suo fratello, ch'era il suo principale appoggio, ed
avendo i Genovesi per loro nemici il re Alfonso e il duca di Milano, si
manipolò una congiura contra di questo doge. Gian Antonio del
Fiesco, che n'era il capo, entrò nella città con una frotta d'armati
nella notte precedente al dì 18 di dicembre, e mosse a rumore il
popolo. Fatto giorno, perchè Tommaso non si sentiva voglia di
cedere, fu dato l'assalto al palazzo ducale, in maniera ch'esso doge
si rifugiò nella torre dello Orologio, e si diede poscia a Raffaello
Adorno. Furono creati gli anziani e capitani del popolo pel governo
della città, la quale tornò ben tosto alla quiete primiera.
65. Anno di
Cristo mccccxliii. Indiz. vi.
Eugenio IV papa 13.
Federigo III re de' Romani 4.
Perchè papa Eugenio avea trasferito a Roma il concilio, ed inoltre
perchè colla fervente voglia di riacquistare la marca d'Ancona,
conoscea che non potea andare d'accordo co' Fiorentini, impegnati
in favore del conte Francesco Sforza, determinò di lasciar Firenze per
passare a Roma [Hist. Senensis, tom. 20 Rer. Ital.]. Misesi dunque in
viaggio nel dì 7 di marzo, e giunse nel dì seguente a Siena, dove
immensi onori ricevette da quel popolo. Fermossi in quella città sino
al dì 5 di settembre, nel qual tempo venne a tributargli il suo
ossequio Niccolò Piccinino gonfaloniere della Chiesa, a cui fu fatto un
magnifico incontro. Stando quivi Eugenio, cominciò (seppure non
avea cominciato molto prima) a tener pratica di pace e di lega col re
Alfonso, per valersi del braccio di lui a cacciar dalla Marca Francesco
Sforza. Era Alfonso esperto trafficante ne' suoi politici affari. Nel
medesimo tempo avea tenuto trattato col conte Francesco e col
Piccinino suo avversario, e finalmente conchiuse con chi più
vantaggio gli promettea, cioè col Piccinino. Similmente, nel mentre
che maneggiava concordia con papa Eugenio, facea di grandi
esibizioni all'antipapa Felice, ossia ad Amedeo, e al concilio di
Costanza, affin di ottenere l'investitura del regno di Napoli per sè e
per don Ferdinando suo figliuol bastardo, già dichiarato duca di
Calabria. Molto ancora a lui prometteva sì di privilegii come di danaro
66. il suddetto Amedeo. Così facea finezze e paura nello stesso tempo
non meno al papa che all'antipapa. Finalmente il pontefice Eugenio,
dopo aver fatto il ritroso un pezzo, si acconciò con Alfonso, e gli
accordò tutto quanto egli seppe dimandare, purchè egli impiegasse
le forze sue per liberar la Marca dalle mani del conte Francesco. Nel
dì 14 di giugno da Lodovico patriarca d'Aquileia e cardinale furono
sottoscritti a nome del papa gli articoli di quella concordia, rapportati
con altri atti dal Rinaldi [Raynaldus, Annal. Eccles.]. Partito poi da Siena il
papa, arrivò felicemente a Roma nel dì 28 di settembre [Petroni, Hist.,
tom. 24 Rer. Ital.], e nel dì 13 di ottobre diede principio nel Laterano al
concilio. Guidantonio conte di Montefeltro e d'Urbino venne a morte
nell'anno presente nel dì 21 di febbraio, e gli succedette, secondo la
Cronica di Ferrara [Cronica di Ferrara, tom. eod.], nel dominio il conte
Antonio suo figliuolo, oppure, secondo gli Annali di Forlì [Annales
Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.], Taddeo parimente chiamato suo figlio.
Oddo Antonio egli è appellato, e credo con più fondamento,
dall'Ammirati [Ammirati, Istor. di Firenze, lib. 22.] e da altri. Grande novità
succedette quest'anno in Bologna [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.].
Nel precedente era venuto in quella città Francesco Piccinino per
governarla a nome di Niccolò suo padre. Essendo infermo, si fece
portare a castello San Giovanni, ed accompagnare da Annibale
Bentivoglio e da Gasparo ed Achille dei Malvezzi. Giunto là, fece
prendere questi tre nobili bolognesi, e mandò Annibale nella rocca di
Varano su quel di Parma, Achille nella rocca di Mompiano sul
Genovesato, e Gasparo nella rocca di Pellegrino nel Piacentino. Per
quante premure facessero i Bolognesi presso il duca di Milano e
presso Niccolò Piccinino per la liberazione di questi loro concittadini,
altro non ne riportarono che belle parole e promesse. Si mossero
perciò segretamente da Bologna due valorosi giovani, cioè Galeazzo
e Taddeo de' Marescotti con tre altri amici d'Annibale Bentivoglio per
cercare le vie di liberarlo. Giunti alla rocca di Varano, ebbero tal
industria e fortuna, che una notte scalarono il muro, e misero le
mani addosso al castellano e al suo famiglio; sicchè, entrati nella
prigione, e limati i ceppi di Annibale, poterono poi nella notte
seguente fuggirsene, menando seco il castellano, finchè furono in
salvo. Vennero a Spilamberto sul Modenese, dove dal conte
67. Gherardo Rangone ebbero consiglio ed aiuto; e, mandato innanzi
l'avviso della lor venuta nel dì 5 di giugno [Sanuto, Ist. Ven., tom. 22 Rer.
Ital.], nella seguente notte furono dai loro amici tirati su per le mura
con delle corde. Poscia senza perdere tempo, raunati i lor partigiani,
e facendo sonare campana a martello a San Giacomo, col popolo in
armi corsero furiosamente al palazzo del pubblico, dove abitava
Francesco Piccinino, che indarno fece resistenza colle sue genti
d'armi. Entrarono nel palazzo, vi fu preso il medesimo Piccinino colla
sua brigata; e diedesi subito principio all'assedio del castello di
Galiera, che teneva in freno la città.
Accadde che in quel tempo passava il conte Lodovico del Verme
pel Bolognese, incamminato alla volta della Marca con molta gente a
cavallo e a piedi, per unirsi a Niccolò Piccinino. Per questa novità egli
si fermò, ed unito con Guidantonio de' Manfredi signor di Faenza,
tenne saldo, e presidiò molte castella del Bolognese, e cominciò
guerra colla città. Non tardarono i Bolognesi a spedir messi a
Venezia e Firenze per soccorso, e nel dì 6 di luglio fecero lega con
quelle due repubbliche. In loro aiuto furono spediti da Venezia il
conte Tiberto Brandolino da Forlì e il conte Guido Rangone da
Modena, valenti capitani di questi tempi, con mille cavalli e ducento
fanti. Anche i Fiorentini v'inviarono Simonetto da Castello di Piero
con ottocento cavalli e ducento pedoni. Nel dì 14 d'agosto venuto a
Bologna l'avviso che il conte Lodovico del Verme s'era levato dalla
Riccardina per passare alla Pieve e a San Giovanni con tre mila
cavalli; Annibale de' Bentivogli, messi in armi i Bolognesi, andò a
trovarlo a Ponte Polledrano, e con tal furia l'assalì, che, dopo breve
combattimento, il mise in rotta. Vi rimasero presi da due mila cavalli,
undici capi di squadra e tutto il carriaggio. La miglior arma che
adoperarono il Verme e gli altri capitani furono gli speroni. Per
questa importante vittoria tornarono alla divozion di Bologna tutte le
terre e castella di quel distretto; e nel dì 21 si rendè la cittadella di
Galiera, a spianar la quale immediatamente si accinse il popolo. Fu
cambiato Francesco Piccinino con Gasparo ed Achille Malvezzi
condotti dalle rocche dove erano prigioni. Così tornò in sua libertà la
città di Bologna. Grandi poi furono in questo anno le applicazioni del
68. papa e del re Alfonso per togliere la marca d'Ancona al conte
Francesco [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.]. Era già entrato esso re in
Napoli su carro trionfale nel dì 26 di febbraio, precedendo tutta la
fiorita nobiltà di quel regno. Andato da lì a qualche tempo Niccolò
Piccinino a Terracina, oppure a Gaeta, a trovarlo, fu ricevuto con
gran distinzione, ed onorato col cognome della casa d'Aragona (avea
già quello della casa de' Visconti), e con lui concertò l'impresa della
Marca. Aveva il conte Francesco presa e saccheggiata Santa Natolia
nel territorio di Camerino, e ricuperato Tolentino; ed allorchè s'avvide
del nembo che gli soprastava dalla parte del re d'Aragona e di
Napoli, cominciò a sollecitare gli aiuti de' Veneziani e Fiorentini, che
tardarono di troppo. Intanto il re, fatta da tutte le parti gran massa
di gente d'armi, venne nel mese d'agosto in persona verso Norcia,
ed andò ad unirsi con Niccolò Piccinino, il quale, assediando la terra
di Visso nell'Umbria, la costrinse alla resa. Se vogliamo prestar fede
agli Annali di Forlì [Annal. Foroliv., tom. 22 Rer. Ital.], ascendeva l'armata
del re e del Piccinino a trenta mila tra cavalli e fanti. Forze da
resistere a sì grosso torrente non avea il conte Francesco [Simonetta,
Vit. Francisci Sfortiae, lib. 6, tom. 21 Rer. Ital.]; però, poste buone
guarnigioni nelle piazze più importanti (cioè Alessandro suo fratello
in Fermo, Giovanni altro suo fratello in Ascoli, Rinaldo Fogliano suo
fratello uterino in Cività, Pietro Brunoro in Fabriano, Fioravante da
Perugia in Cingoli, Giovanni da Tolentino suo genero in Osimo, Troilo
da Rossano in Jesi, e Roberto da San Severino in Rocca Contrada), si
ritirò egli con parte del suo esercito a Fano, città ben forte di
Sigismondo Malatesta suo genero, per quivi aspettare i sospirati
soccorsi de' collegati, coi quali potesse far fronte, occorrendo ai
nemici.
Ma volle la sua disavventura che, oltre a Manno Barile, il quale
sul principio di quest'anno l'avea abbandonato, anche altri suoi
principali condottieri di armi in sì grave congiuntura il tradissero.
Entrato dunque Alfonso col Piccinino nella Marca, ed inalberate le
bandiere della Chiesa, tosto si volsero alla di lui ubbidienza San
Severino, Matelica, Tolentino e Macerata. Pietro Brunoro gli diede
Fabriano, ed acconciossi con lui [Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital.].
69. Altrettanto fece Troilo, benchè cognato del conte Francesco, dandogli
Jesi, e passando al suo servigio colle sue truppe. Con ciò vennero
meno al conte Francesco più di due mila dei suoi cavalli, e molte
schiere di fanteria, che andarono ad ingrossar maggiormente
l'esercito nemico. Poscia anche Cingoli si rendè ad Alfonso, e il
popolo d'Osimo, levato a rumore, ebbe forza di spogliare Giovanni da
Tolentino ed Antonio Trivulzio col presidio [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer.
Ital.]. Toscanella ed Acquapendente alzarono anch'esse le insegne
della Chiesa. In somma non passò gran tempo che tutta la Marca, a
riserva di Fermo, d'Ascoli e di Rocca Contrada, venne in potere del re
e del Piccinino, che ne prese il possesso a nome del papa. Sbrigato
dalla Marca il re Alfonso, nel dì 12 di settembre venne a mettere il
campo alla città di Fano, dove si trovava il conte Francesco con gran
gente; ma, conosciuto che poco onore potea guadagnare sotto sì
forte città, nel dì 18 se ne tornò indietro, e portò le sue armi contro
quella di Fermo, alla cui difesa si trovava Alessandro Sforza con buon
presidio. Fu in questa occasione che rimasero puniti dei lor
tradimenti Pietro Brunoro e Troilo cognato del conte Francesco
[Giornal. Napolet., tom. 22 Rer. Ital.]. Furono intercette, cioè fatte cadere
in mano del re, lettere scritte loro da esso Alessandro con ordine
d'eseguire quanto era stato ordinato. Confessa il Simonetta
[Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 6, tom. 21 Rer. Ital.], essere stato
questo uno stratagemma del medesimo conte Francesco, che scrisse
al fratello di così operare, per mettere in diffidenza presso il re que'
due condottieri, dai quali egli era stato tradito. E ne seguì l'effetto.
Fu dunque costantemente creduto che costoro con intelligenza del
conte fossero passati nella regale armata, per poi assassinare il re. E
perciò il re, messe in armi le sue truppe, li fece prendere amendue, e
legati gl'inviò a Napoli, e di là li mandò in una fortezza del regno di
Valenza, dove stettero per dieci anni. Secondo il Simonetta, furono
anche spogliate tutte le genti d'armi dei suddetti due; ma l'autore de'
Giornali Napoletani vuole che il re le prendesse tutte al suo soldo. Nè
è da tacere una curiosa particolarità, di cui non io, ma Cristoforo da
Costa negli Elogii delle donne illustri sarà mallevadore. Cioè che
Pietro Brunoro da Parma, trovata una fanciulla, per nome Bona,
nativa della Valtellina, di spirito non ordinario, seco la conduceva
70. vestita da uomo, con avvezzarla al mestier della guerra. Dappoichè
Brunoro fu messo prigione, ella andò a tutti i principi d'Italia e di
Francia, e ne portò lettere di raccomandazione al re Alfonso per la
liberazione di questo suo padrone, di maniera che egli uscì dalle
carceri. Gli procurò essa in oltre una condotta di milizie dai Veneziani
coll'assegno annuo di venti mila ducati; per li quali benefizii egli poi
la sposò. Militò ella finalmente col marito, fece di molte prodezze, e
con esso fu inviata contro i Turchi alla difesa di Negroponte. Quivi
terminò i suoi giorni Brunoro, ed ella, tornando in Italia nel 1466, per
viaggio ammalatasi, diede fine alla sua vita. Dopo avere il re Alfonso
tentato invano Ascoli, e preso Teramo e Civitella con altri luoghi,
ch'erano del conte Francesco, menò a quartiere le sue soldatesche
nel regno di Napoli.
Era intanto restato tra Pesaro e Rimini Niccolò Piccinino insieme
con Federigo conte d'Urbino, e con Malatesta signor di Cesena, e
facea guerra or qua or là alle terre di Rimini, con ridursi in fine a
Monteloro. Intanto in soccorso del conte Francesco arrivarono il
conte Guido Rangone, Simonetto, Taddeo marchese di Este ed altri
capitani con cavalleria e fanteria, spediti da' Veneziani e Fiorentini.
Con sì fatti rinforzi il valoroso conte, menando seco Sigismondo
Malatesta signore di Rimini e genero suo (della cui fede si dubitò non
poco, allorchè il re Alfonso fu sotto a Fano), andò nel dì 8 di
novembre insieme con Alessandro suo fratello e con gli altri capitani
a trovare il Piccinino, e fu con lui alle mani, ancorchè il vedesse
postato in un sito assai difficile e vantaggioso. Per molte ore durò
l'atroce battaglia; e quantunque il Piccinino facesse delle maraviglie,
più ne fece il conte Francesco, con dargli una gran rotta, prendere
circa due mila cavalli, e tutto il ricchissimo bagaglio de' nemici. Col
favor della notte si salvò con pochi esso Piccinino a Monte Ficardo,
pieno di confusione e di dolore. Spese poi il conte qualche tempo,
per le importune istanze di Sigismondo Malatesta, intorno a Pesaro,
signoreggiato allora da Galeazzo Malatesta. Di là passò nella Marca,
dove trovò che il Piccinino avea rinforzato di gente le principali città;
e però, dopo aver ridotte alla sua divozione alcune poche castella, se
n'andò a Fermo, e quivi svernò con parte delle sue milizie. Or mentre
71. queste cose succedeano, e dacchè vide Filippo Maria duca di Milano
che gli affari del genero suo, cioè del conte Francesco, andavano alla
peggio nella Marca, siccome principe non mai fermo ne' suoi
proponimenti, cominciò a pentirsi delle sregolate o balorde sue
risoluzioni, e a desiderare ch'egli non perdesse il suo Stato. Perciò
nel dì 8 di settembre spedì suoi ambasciatori a Venezia [Sanuto, Istor.
Venet., tom. 22 Rer. Ital.] per collegarsi con quella repubblica e co'
Fiorentini in favore del conte, e fece anche sapere al re Alfonso di
desistere dall'offenderlo. Si maravigliò forte il re di questa
inaspettata mutazion di volere del duca; inviò a lui ed anche a
Venezia ambasciatori; ma niuna grata risposta ne ricevette.
Servirono questi passi del duca, e il trattato di lega fra lui, Venezia e
Firenze, a fare [Annal. Foroliviens., tom. eod.] ch'egli poi si ritirasse da
Fano, e se ne tornasse nelle sue contrade. Ed intanto nel dì 24 di
settembre fu conchiusa la lega suddetta in Venezia, in cui ancora
entrò Sigismondo Malatesta signore di Rimini. Elessero in quest'anno
a dì 28 di gennaio [Giustiniani, Istor. di Genova, lib. 5.] i Genovesi
pacificamente per loro doge Raffaello Adorno, di famiglia altre volte
salita a quella dignità.
72. Anno di
Cristo mccccxliv. Indiz. vii.
Eugenio IV papa 14.
Federigo III re de' Romani 5.
Trovandosi in Fermo Bianca Visconte moglie del conte Francesco
Sforza, quivi nel dì 24 di gennaio diede alla luce un figliuolo
[Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 6, tom. 21 Rer. Italic.]; del qual parto fu
immantenente spedita la nuova al duca di Milano, padre di lei, per
sapere qual nome si dovesse porre al nato figliuolo. Gli fu posto
quello di Galeazzo Maria. Fra le sue disavventure ebbe almeno il
conte Francesco questa consolazione. Ma, trovandosi senza danari,
spedì per ottenerne Sigismondo Malatesta suo genero a Venezia, e
ne ricavò questi buona somma, e la maggior parte ancora ne ritenne
per sè a conto delle sue paghe. All'incontro Niccolò Piccinino fu ben
rinforzato di gente e danaro dal papa e dal re Alfonso; laonde entrò
in campagna per tempo, e cominciò le scorrerie pel territorio di
Fermo. Dall'altra parte anche le milizie del re Alfonso ricominciarono
la guerra. A Monte Milone si portò il Piccinino, ed, avendo passato il
fiume Potenza, fu quivi colto da Ciarpellione, uno de' più valenti
condottieri d'armi che si avesse il conte Francesco, e ne riportò una
buona pelata colla prigionia di molti de' suoi. Si salvò egli
miracolosamente, ritirandosi in una torricella, che rimase intatta, per
non avervi fatto mente Ciarpellione. Perchè poi gli venne ordine dal
duca di portarsi a Milano, e di fare intanto tregua col conte
Francesco, eseguì Niccolò il primo comandamento, ma non già il
73. secondo, avendoglielo impedito il legato del papa. Però, lasciato il
comando dell'armata a Francesco Piccinino suo figliuolo, volò in
Lombardia. Trovossi intanto il conte Francesco in gravi angustie,
perchè Sigismondo Malatesta l'avea tradito con essersi messo in
viaggio colle sue truppe, per andare ad unirsi con lui, ma con aver
poi trovati de' pretesti per tornarsene a Rimini. Dall'altro canto, se
Francesco Piccinino univa la sua armata coll'aragonese, non vedea
modo da poter sostenere la città di Fermo contra di tante forze. Ora
per impedir siffatta unione con quella gente che avea, prese lo
spediente di andare a visitar esso Francesco Piccinino, che s'era ben
postato a Monte Olmo. Secondo il Simonetta, era il dì di venerdì 23
d'agosto, quando gli fu a fronte, e colle schiere in battaglia l'assalì.
Ma non battono i conti secondo il calendario. Negli Annali di Forlì è
scritto che fu il dì 19 d'esso mese [Annal. Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital.], e
lo stesso vien confermato dalla Cronica di Rimini [Cronica di Rimini, tom.
15 Rer. Ital.], e dal Sanuto [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.], che per
errore dice di maggio. Nè di ciò si può dubitare, stante una lettera
scritta nel medesimo dì 19 d'agosto dal conte Francesco a Bologna,
come s'ha dalla Cronica d'essa città [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.].
In quel conflitto certo è che segni di gran valore diede Francesco
Piccinino colle sue squadre; ma egli combatteva con un capitano che
in fatti d'armi fu maraviglioso, nè sapea esser vinto. Mentre si
combatteva, Alessandro Sforza occupò le tende e il bagaglio de'
nemici; poscia seguitò ad incalzarli dal suo canto; nel qual tempo il
conte Francesco suo fratello con eguale attenzion ed ardore facea lo
stesso dall'altro. In somma restò sbaragliato l'esercito di Francesco
Piccinino colla perdita di quasi tre mila cavalli, ed egli col rifugiarsi in
una palude cercò di salvarsi, ma da un suo fante tradito fu condotto
prigione al conte Francesco. Ebbero fatica a ridursi in salvo il cardinal
Domenico Capranica legato del papa, e Malatesta a Cesena. Nel dì
seguente Monte Olmo si rendè al conte Francesco, ed ivi fu ritrovata
gran copia d'uffiziali e soldati del Piccinino, che vi si erano rifugiati
con assai cavalli e robe preziose. Ciò fatto, marciò il vittorioso Sforza
a Macerata, e senza fatica se ne impossessò, siccome ancora di San
Severino. Cingoli volle aspettar la forza prima di rendersi, e dopo
otto giorni se gli sottomise con altri piccioli luoghi. Intanto esso
74. conte fece tentar di pace papa Eugenio, che si trovava allora a
Perugia, conturbato non poco per le di lui vittorie, dopo aver
fulminate le scomuniche nel precedente maggio contra di lui e di
Sigismondo Malatesta. Alle istanze del conte diedero maggior polso
gli ambasciatori di Venezia e Firenze, di maniera che l'accordo seguì
nel dì 10 d'ottobre, con avere il papa lasciate al medesimo conte in
feudo con titolo di marchese tutte le terre da lui possedute e
ricuperate prima del dì 15 oppure 18 del mese suddetto. A riserva
d'Osimo, Recanati, Fabriano ed Ancona, il resto della Marca ubbidiva
ai suoi cenni.
Era venuto a Milano Niccolò Piccinino, chiamatovi, come dissi
(non si sa bene il motivo) dal duca. Non gli si partiva dal cuore
l'affanno per la perdita di Bologna [Corio, Istor. di Milano.], e per la
sconfitta a lui data dal conte Francesco Sforza. A questi pensieri, che
il laceravano di dentro, si aggiunse l'altra dolorosa nuova non solo
della rotta di Francesco suo figliuolo, ma d'esser egli anche caduto
prigione nelle mani dell'emulo ossia nemico Sforza. Soccombè in fine
alla malinconia, ed, infermatosi, terminò il corso del suo vivere nel dì
15 oppure 16 d'ottobre [Cristoforo da Soldo, Istor. Bresc., tom. 21 Rer. Ital.]:
con che mancò uno de' più insigni generali d'armata che s'avesse
l'Italia, a cui niun altro si potea anteporre, se non Francesco Sforza.
Nelle spedizioni la sua attività e prestezza non ebbe pari; ma egli si
prometteva molto della fortuna, e però azzardava bene spesso nelle
sue imprese: laddove lo Sforza sempre operava con saviezza, e
sapea cedere e temporeggiare, quando lo richiedeva il bisogno, nè
temerariamente mai procedeva in ciò che imprendeva. Per la morte
del Piccinino sommamente si afflisse il duca Filippo Maria, rimasto
privo di sì valente, onorato e fedele capitano; nè potendo far altro, si
rivolse a beneficare i di lui figliuoli Francesco e Jacopo, con aver
ottenuta la libertà del primo dal conte Francesco, e con chiamarli
amendue a Milano. Accadde ancora nell'anno presente [Annal.
Foroliviens., tom. 22 Rer. Ital. Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.] la morte di
Oddo-Antonio conte di Montefeltro e d'Urbino, personaggio di
costumi sfrenati e d'insoffribil lussuria. Per cagione di questi suoi vizii
fu egli nella notte del dì 22 di luglio da molti congiurati ucciso, e in
75. luogo suo proclamato signore Federigo suo fratello, e figliuolo
bastardo di Guidantonio già conte, ancorchè comunemente creduto
fosse figliuolo di Bernardino dalla Carda degli Ubaldini. Questi,
essendo ito a Fermo per visitare il conte Francesco, stabilì tosto con
esso lui lega difensiva ed offensiva. Venne a morte anche in
quest'anno [Cronica di Ferrara, tom. 24 Rer. Ital.], nel dì 8 o pure 24 di
settembre, Gian-Francesco da Gonzaga marchese di Mantova, assai
invecchiato, ed ebbe per successore Lodovico suo figliuolo. Fu
parimente chiamato da Dio a miglior vita nella città dell'Aquila a dì
20 di maggio [Raynaldus, Annal. Eccles.] frate Bernardino da Siena
dell'ordine de' Minori, celebre missionario di questi tempi, che per le
sue luminose virtù venne poi aggregato al ruolo de' santi.
Similmente finì di vivere [Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.] Leonardo
Aretino, segretario della repubblica fiorentina, uomo celebre allora
per la sua letteratura e perizia della lingua greca. Si ammalò nel dì 5
d'aprile [Giornal. Napolet., tom. 21 Rer. Ital.] di sì pericolosa malattia
Alfonso re di Aragona e delle Due Sicilie, che corse in fin voce che
era morto. Gran bisbiglio e movimento fu nei baroni del regno, di
modo tale che guarito il re, ben s'avvide del poco capitale che potea
farsi della fede de' regnicoli. Diede egli in questo anno [Istoria Napol.,
tom. 23 Rer. Ital.] per moglie a don Ferdinando duca di Calabria suo
figliuolo Isabella di Chiaramonte, nipote di Gian Antonio Orsino
principe di Taranto. Maritò eziandio Maria sua figliuola col marchese
Lionello d'Este signor di Ferrara, Modena e Reggio. Fu pertanto
spedito Borso d'Este fratello d'esso marchese con due galee
veneziane a levar questa principessa che, accompagnata dal principe
di Salerno, arrivò a Ferrara nel dì 24 d'aprile [Cronica di Ferrara, tom. 24
Rer. Ital.]. Memorabil fu la magnificenza di queste nozze per la
quantità delle feste e dei varii solazzi, che durarono quindici giorni
coll'intervento degli ambasciatori di tutti i principi d'Italia. Fece
guerra in quest'anno il re Alfonso ad Antonio Santiglia signore di
Cotrone, Catanzaro ed altri luoghi in Calabria, e gli tolse tutti quegli
Stati. Condiscese anche a far pace coi Genovesi [Giustiniani, Istor. di
Genova. Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.], co' quali era in guerra da
gran tempo, e gli obbligò a pagargli ogni anno a titolo di censo un
bacile d'argento, con accordar loro varii privilegii.
77. Anno di
Cristo mccccxlv. Indiz. viii.
Eugenio IV papa 15.
Federigo III re de' Romani 6.
Fra il duca di Milano e Francesco Sforza suo genero parve nel
precedente anno restituita buona armonia, per quanto abbiamo
veduto. Ma intervenne accidente che affatto la guastò. Dappoichè
mancò, colla morte di Niccolò Piccinino, ad esso duca un raro
generale delle sue armi, mise egli il guardo sopra Ciarpellione, cioè
sopra il più accreditato capitano che si avesse allora Francesco
[Simonetta, Vita Francisci Sfortiae, lib. 6, tom. 21 Rer. Ital.], e segretamente
cominciò a trattare con lui, per torlo al conte e farlo venire a Milano.
Trapelò questo trattato, e se ne crucciò forte il conte, il quale,
fidandosi poco del suocero duca, perchè assai ne conosceva l'umore,
temeva anche dei malanni, se lasciava partire chi era stato partecipe
di tutti i suoi segreti. Fece pertanto mettere prigione nella fortezza di
Fermo Ciarpellione, e processarlo per varie sue iniquità [Cronica di
Rimini, tom. 15 Rer. Ital.]. Dopo di che nel dì 29 di novembre
dell'antecedente anno il fece impiccare, con ispargere voce d'aver
egli macchinato contro la vita del medesimo conte. Altamente si
chiamò offeso per questo fatto il duca, e protestò di volersene
vendicare. Francesco di tutto informò i Veneziani e Fiorentini, a' quali
piacea più di vederlo nemico che amico del suocero. Si partì ancora
dall'amicizia di esso conte Sigismondo Malatesta signore di Rimini,
tuttochè genero del medesimo. Vagheggiava egli da gran tempo
78. Pesaro e Fossombrone, goduti da Galeazzo Malatesta, cioè da chi era
privo di figliuoli; anzi s'era già provato colla forza, ma indarno,
d'impadronirsene [Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital. Cronica di Ferrara,
tom. 24 Rer. Ital.]. Avvenne che, per interposizione di Federigo conte
d'Urbino, vendè Galeazzo al conte Francesco essa città di Pesaro per
venti mila fiorini d'oro, con che Alessandro Sforza fratello del conte
sposasse Costanza sua nipote, e divenisse padrone di quella città.
Fossombrone eziandio fu venduto al conte Federigo per tredici altri
mila fiorini. Era già per varii motivi mal soddisfatto lo Sforza di
Sigismondo suo genero, uomo anche per altro conto di coscienza
guasta; e però senza alcun riguardo verso di lui fece il suo negozio.
Che disdegno e rabbia per questo provasse Sigismondo, non si può
assai dire. Mosse da lì innanzi cielo e terra contra del conte
Francesco, tanto presso il pontefice, quanto presso il re Alfonso e il
duca di Milano. Spezialmente questo suo sdegno piacque al duca,
per potere valersi di lui contra dello Sforza. Ora Filippo Maria co' suoi
maneggi tanto fece, che papa Eugenio IV prese Sigismondo al suo
soldo, e facendo sperare coll'aiuto proprio e d'esso signore di Rimini
assai facile al papa il riacquistare Bologna, a poco a poco accese il
fuoco d'una nuova guerra. Nè penò molto a tirarvi anche il re
Alfonso, perchè la città di Teramo s'era data al conte Francesco; e
Giosia Acquaviva ed altri del suo regno, ribellatisi a lui, si erano uniti
col medesimo conte. Mentre questi concerti di guerra si andavano
facendo, uno strepitoso accidente avvenne in Bologna [Cronica di
Bologna, tom. 18 Rer. Ital.]. Era in quella città in alta stima Annibale de'
Bentivogli, perchè riguardato come glorioso liberatore della sua
patria. Ma la invidia, nata, per così dire, col mondo, il facea mirar
con occhio bieco da Baldassare da Canedolo, da' Ghiselieri e da
alcuni altri cittadini. Andò tanto innanzi questa cieca passione, che
costoro determinarono di levargli la vita. Fu invitato il Bentivoglio nel
dì 24 di giugno, festa di san Giovanni Batista, da Francesco
Ghiselieri, a tenergli un suo figliuolo al sacro fonte. Finita la funzione,
ed usciti che furono di chiesa, Baldassare e gli altri congiurati,
avventatisi addosso al Bentivoglio, con varie ferite lo stesero morto a
terra [Annales Placentini, tom. 20 Rer. Ital.]. Poscia andarono in traccia
d'alcuni altri amici di lui, e gli uccisero. Per questa enorme indegnità
79. si levò a rumore tutto il popolo contro i micidiarii; diede il sacco alle
lor case e le bruciò. Batista da Canedolo, benchè non intervenuto a
quell'orrido fatto, indarno fece resistenza all'infuriato popolo, che
trovatolo il tagliò a pezzi [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.]; e quanti
amici de' Canedoli vennero in mano d'esso popolo, rimasero vittima
del loro furore. Che tal novità fosse fatta con intelligenza del duca di
Milano, si conobbe tosto, perch'egli si dichiarò protettore de'
Canedoli, e nel dì 26 di giugno Taliano Furlano capitano d'esso duca,
che stanziava in Romagna con mille e cinquecento cavalli e
cinquecento fanti ducheschi, entrò tosto nel Bolognese in aiuto de'
Canedoli; ma ritrovatili o morti o sbandati, da lì a poco cominciò la
guerra al Bolognese, e prese varii luoghi. Altrettanto ancora fecero
Luigi da San Severino e Carlo da Gonzaga, altri capitani del
medesimo duca. Ora i Fiorentini, siccome collegati de' Bolognesi, nel
dì 27 di luglio spedirono in loro aiuto Simonetto con cinquecento
cavalli e ducento fanti. Anche i Veneziani inviarono colà Taddeo
marchese d'Este con altra gente. S'ingrossarono intanto sempre più
le milizie del duca di Milano sul Bolognese, e corsero sino alle porte
della città; ma null'altro di considerabile accadde in quelle parti
nell'anno presente, fuorchè la presa di alcuni castelli, fra i quali il più
importante fu San Giovanni in Persiceto, occupato nel dì 9 di
settembre da Luigi da San Severino.
Abbiam veduto poco fa rimesso in grazia di papa Eugenio il conte
Francesco Sforza, e stabilito accordo fra loro. Pure questo pontefice,
quasi che i patti durar dovessero finchè gli tornava a conto il non
romperli, appena si vide animato ed assistito dal duca di Milano, che
ripigliò le armi contra di lui, e seco fu anche il re Alfonso. Ora il conte
[Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 8, tom. 21 Rer. Ital.], giacchè
Sigismondo signor di Rimini s'era dichiarato nemico suo, dopo avere
ricevuto da' Fiorentini soccorso di danaro, andò a mettere l'assedio
alla ricca terra di Meldola, che gli costò molto tempo e fatica. L'ebbe
a forza di armi nel dì 17 oppure 22 di luglio [Annal. Foroliviens., tom. 22
Rer. Ital.], e col sacco, crudelmente ad essa dato, si arricchirono tutti i
suoi soldati. Ma nel dì 10 d'agosto [Cronica di Rimini, tom. 15 Rer. Ital.] la
città d'Ascoli nella Marca gli si ribellò, e tagliato a pezzi Rinaldo
80. Fogliano, fratello uterino del conte Francesco, si diede al pontefice.
Così, per le forti istanze di Sigismondo, comparvero dipoi in suo aiuto
Taliano Furlano, Malatesta signor di Cesena ed altri capitani con
ischiere numerose di cavalleria e fanteria, che seco si unirono.
Finalmente anche il papa e il re Alfonso mandarono le lor genti nella
Marca per impadronirsene affatto. In mezzo a questi due fuochi si
trovava il conte, e con forze troppo disuguali. Tuttavia, conoscendo
in maggior pericolo la Marca, lasciata parte delle sue milizie sotto il
comando di Federigo conte d'Urbino, coll'altra marciò colà; e
all'arrivo suo si ritirarono tosto Lodovico patriarca di Aquileia
cardinale legato del papa, e Giovanni da Ventimiglia generale del re
Alfonso. Ed eccoti arrivare in essa Marca anche Taliano, creato
generale dal duca di Milano, con Sigismondo Malatesta, con
Malatesta signor di Cesena ed altri capitani, che cominciò a strignere
dall'una parte lo Sforza, e cercava le vie di unirsi dall'altra alle
soldatesche del papa e del re. Intanto nel dì 15 d'ottobre Rocca
Contrada, una delle migliori fortezze che si avesse il conte in quelle
contrade, ribellatasi, venne in mano di Sigismondo, ossia del
pontefice. Il perchè, peggiorando ogni dì più gl'interessi del conte,
prese questi il partito di salvar la gente con ridursi di nuovo a
Pesaro, dove avea lasciata Bianca Visconte sua moglie.
Raccomandate adunque ad Alessandro suo fratello le città di Fermo
e di Jesi, che restavano a lui ubbidienti, sen venne sul territorio
d'Urbino, da dove col conte Federigo fece guerra a Sigismondo
Malatesta, togliendo a lui alcune castella. Ma nel dì 26 di novembre il
popolo di Fermo, avendo prese l'armi, ne cacciò il presidio del conte,
e si sottomise alle armi del papa; e da lì a qualche tempo si rendè
loro anche la rocca appellata il Girofalco venduta da Alessandro
Sforza, per non poterla sostenere. Sicchè la sola città di Jesi restò in
potere del conte, con essersi perdute tutte le altre terre. Nel dì 12 di
marzo di quest'anno passò all'altra vita [Benvenuto da S. Giorgio, Istor. del
Monferrato, tom. 23 Rer. Ital.] Gian-Giacomo marchese di Monferrato, e i
suoi Stati pervennero al marchese Giovanni suo primogenito. Un
altro suo figliuolo appellato Guglielmo, condottier d'armi in questi
tempi, era al servigio del duca di Milano.
82. Anno di
Cristo mccccxlvi. Indiz. ix.
Eugenio IV papa 16.
Federigo III re de' Romani 7.
Fulminò di nuovo in quest'anno nei mesi di aprile e di luglio le
scomuniche papa Eugenio contra del conte Francesco Sforza e di
tutti i suoi seguaci [Raynaldus, Annal. Eccl.]. E per vendicarsi de'
Fiorentini, che colla profusione di molto danaro cagione erano che
esso conte non andasse a gambe levate, intavolò un trattato col re
Alfonso per muoverlo contra di loro, siccome poi fece nell'anno
seguente. Intanto il conte era confortato da Cosimo de Medici, e da
alcuni cardinali e baroni romani a marciare alla volta di Roma
coll'armi sue, perchè avrebbe facilmente indotto per forza il pontefice
ad un buon accordo [Neri Capponi, Comment., tom. 18 Rer. Ital. Simonetta,
Vit. Francisci Sfortiae, lib. 8, tom. 21 Rer. Ital.]. Gli promettevano ancora la
ribellione di Todi, Narni e di Orvieto, con altri aderenti. Ma egli pensò
a mettersi in viaggio, ed ancorchè si movesse sul fine di maggio per
passare colà, ed arrivasse fino a Montefiascone e a Viterbo, pure per
mancanza di vettovaglie, e perchè Todi ed Orvieto non corrisposero
alle speranze dategli, gli convenne tornare indietro. Intanto il papa si
provvide di gente, avendo chiamato in suo aiuto un corpo di quelle
del re Alfonso, e Taliano Furlano ed altri condottieri, ch'erano nella
Marca. Queste truppe dipoi, tornato che fu indietro il conte
Francesco, se ne andarono addosso ad Ancona, città che dianzi avea
fatta lega co' Veneziani, per non venir nelle mani del papa, e la
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