Addio cari giornali di carta, vittime del virus
La pandemia ha trovato i quotidiani indeboliti, senza difese immunitarie, stremati da 10 anni di crisi. Non c’è vaccino, è ora di costruire un modello nuovo per le news
Dieci anni fa in questi giorni giravo l’Italia con il collega Massimo Gaggi per presentare L'Ultima Notizia (Rizzoli), un libro-inchiesta con il quale cercavamo di capire il futuro dei giornali e del giornalismo. Eravamo all'inizio della grande crisi della carta stampata, si cominciavano a vedere i segni di un cambiamento epocale del modello di business, ma nessuno sapeva quando sarebbe stata stampata “l’ultima copia del New York Times” (titolo brillante di un altro libro, scritto da Vittorio Sabadin).
Il decennio successivo è stato caratterizzato da una continua emorragia di copie, un dissanguamento che ha messo in crisi i giornali, li ha resi deboli, ha abbassato le loro difese immunitarie. Purtroppo sappiamo bene, dall'esperienza di questi giorni, che queste sono le condizioni della popolazione più a rischio. Per anni si è guardato ai giornali di carta come a splendidi dinosauri in attesa dell’asteroide. O magari dell’arrivo di un “cigno nero” altrettanto inatteso. Temo che ci siamo: il coronavirus, secondo me, segna la fine del giornalismo cartaceo.
È una constatazione che faccio con dolore. Chi mi conosce sa che ho una storia d’amore con i giornali. Basta andare su Twitter o Instagram e digitare #emerotecabardazzi, per scoprire che da tempo pubblico foto di pagine di quotidiani ingialliti con la stessa passione con cui gli altri condividono tramonti e aperitivi. Ho una vasta collezione di giornali che continua ad arricchirsi anche in questi giorni e che ha fatto 10 traslochi in giro per il mondo (per la disperazione di mia moglie).
Aggiungo, per prevenire una seconda obiezione, che può sembrare insensibile parlare di fine dei giornali mentre migliaia di giornalisti in tutto il mondo sono impegnati, in modo eroico, nel cercare di far arrivare ogni giorno in edicola un’informazione all'altezza della crisi che stiamo vivendo. Ho fatto il giornalista per 30 anni, lo sono ancora che faccio un mestiere diverso e ho il massimo rispetto per la categoria e per le 10 mila edicole (erano 36 mila prima della crisi) sparse in tutta Italia. Ma se c’è una cosa che la pandemia ci sta insegnando, è che è meglio dire subito tutta la nuda verità, con trasparenza, e chiudere quel che c’è da chiudere per evitare i contagi. Se si vorrà preservare un’informazione di qualità e un nuovo ecosistema giornalistico sostenibile, purtroppo tra brevissimo tempo sarà necessario riconoscere che la carta è oggi la “zona rossa” del giornalismo.
Un decennio in buona parte sprecato
Il modello di business dei giornali ha prosperato fino al 2009-2010, quando hanno cominciato a farsi sentire gli effetti della recessione globale provocata dalla crisi finanziaria americana. Ne è seguito un decennio di incertezza e logoramento, cercando di trovare compromessi tra lo status quo e timide aperture al digitale. Adesso è giunto il momento della verità: la crisi del 2020 e la nuova recessione planetaria che l’accompagnerà. Chi ha avuto più coraggio e si è spinto con decisione sulla strada dell’innovazione, avrà un vantaggio competitivo nei prossimi mesi. Il New York Times, tanto per fare un esempio, può permettersi in questi giorni di non preoccuparsi troppo se l’edizione cartacea non riesce a essere distribuita, perché ormai è un sottoprodotto del digitale.
È utile ricordare alcuni dati di fatto su come il settore dei quotidiani arriva all'appuntamento con il “coronavirus dei giornali”. Serve per capire perché le difese immunitarie siano così basse.
Il giornalismo è ancora concepito per l’era industriale, dalla quale nel frattempo il mondo è uscito per entrare in una nuova information age basata su presupposti diversi. Il prodotto di base del giornalismo, la notizia, è diventata una commodity che non ha più il valore sufficiente per sostenere l’organizzazione del lavoro di aziende editoriali ancora strutturate come all'inizio del XX secolo. Il sistema ha tenuto fino a quando, a metà degli anni Zero del XXI secolo, non ha cominciato ad essere dissanguato dei propri ricavi pubblicitari, che si sono in gran parte spostati verso colossi del web come Google e Facebook.
Questo grafico rende bene l’idea del fenomeno negli Usa.
Il macro fenomeno globale più rilevante nell'editoria degli ultimi anni è stato il progressivo aumento dei ricavi legati ai lettori (abbonamenti cartacei e digitali, vendite in edicola, membership), a fronte della costante decrescita dei ricavi pubblicitari. Il sorpasso dei ricavi da audience rispetto a quelli da advertising è avvenuto nel 2013 e il trend continua a livello globale, come indica questo grafico di Wan-Ifra aggiornato al 2017:
Il valore globale dell’industria dei newspapers nel 2017 era di circa US$ 150 MLD, di cui 87 miliardi provenienti dalla diffusione cartacea e digitale e solo 67 dalla pubblicità.
Il digitale è stato la fonte principale di crescita dei ricavi, ma nonostante questo incremento la carta continua a produrre a livello globale il 90% dei ricavi degli editori giornalistici. E questa adesso si rivela una grande vulnerabilità.
Dall'inizio della crisi, i modelli di business e la stessa identità di molte news organization sono cambiati moltissimo, scegliendo una miriade di strade diverse.
C’è chi ha scelto di rafforzarsi affiancando attività non giornalistiche che portano nuove fonti di ricavo. È il caso di NewsCorp in Australia che ha puntato molto su RealEstate.com, un sito di annunci immobiliari, per far fronte al crollo dei ricavi nel settore classified spazzati via dal digitale. O di Axel Springer in Germania con Stepstone, il più importante sito tedesco per la ricerca di offerte di lavoro.
Il Washington Post, dopo l’arrivo di Jeff Bezos come editore, sta vivendo una delle trasformazioni più significative, diventando in pratica una tech company dedicata al giornalismo. Le piattaforme di content management create dal WP, l’ecosistema di data analysis e data science e il brand studio interno dedicato al racconto delle aziende, pongono il quotidiano all'avanguardia e ne fanno un modello importante di giornalismo post-cartaceo. L’edizione di carta del WP è diventata, anche in questo caso, secondaria.
Altri hanno puntato su mix simili, ma sempre caratterizzati dalla qualità del giornalismo. È il caso delle testate finanziarie come Wall Street Journal o FT, ma soprattutto del già citato New York Times, protagonista di un sorprendente cambio di paradigma. Alla fine del XX secolo, gli abbonamenti portavano al NYT meno del 5% dei ricavi. Nel 2011 è avvenuta l’inversione di tendenza.
Nel 2019, il NYT ha raccolto $800 milioni di ricavi solo con il digitale, superando i 5 milioni di abbonati a una delle varie forme di subscription per accedere ai contenuti del giornale. Nell'ultimo trimestre dell’anno, mentre gli abbonamenti crescevano del 4,5%, la raccolta pubblicitaria è calata del 10,7%, rendendo sempre più urgente per il giornale rafforzare il modello di business basato sulla membership. Nel frattempo, nel corso dell’ultimo anno, il NYT ha assunto altri 120 giornalisti, portando la redazione a 1.600 unità, il numero più alto della propria storia più che centenaria.
Dietro le cifre ci sono fenomeni sociali, trasformazioni demografiche e molte considerazioni legate alla rivoluzione digitale. C’è un digital divide crescente e c’è un cambio generazionale enorme relativo alle fonti a cui i diversi gruppi demografici attingono per cercare “notizie”. Il quadro globale lo riassume bene questo grafico del Reuters Institute for the Study of Journalism:
Siamo in una fase di ibridizzazione dei mezzi che conduce alla transmedialità, con la televisione ancora forte protagonista ma con modalità di fruizione e attori nuovi (pensiamo al boom di Netflix o Amazon Prime).
In uno scenario così, la carta stampata risulta debolissima e l’arrivo della Grande Recessione del 2020 la trova senza anticorpi.
Il caso italiano
Proviamo a vedere la situazione in Italia. Bastano pochi dati per capire che si è vicini a un punto di rottura del sistema. Nel 2007 in Italia la diffusione dei quotidiani si assestava intorno ai 5,5 milioni di copie giornaliere. Oggi si vendono poco più di 2 milioni di copie. Non va meglio neppure alle copie digitali, che nell'ultimo anno sono calate del 3,4% e complessivamente non raggiungono quota 200 mila. Significa che è proprio il “prodotto giornale” a essere in crisi, che sia di carta o replicato tale e quale su un tablet.
Se si guarda alla pubblicità, la situazione pre-crisi del coronavirus era già gravissima. In un decennio il fatturato si è ridotto del 71,3%: poche filiere (forse nessuna) possono resistere a un crollo del genere senza un radicale cambio di modello di business. Ogni anno da quotidiani e periodici sparisce circa il 10% della raccolta pubblicitaria. E le prospettive per il breve-medio termine si presentano funeste. Una prima indagine condotta nei giorni scorsi da BVA Doxa tra le imprese italiane, segnala che il 76% di esse ha già avuto impatti negativi immediati per il Covid-19: tra le prime azioni da prendere in risposta a questo disastro, il 49% indica che ridurrà gli investimenti in pubblicità e media planning.
Un altro elemento di debolezza è rappresentato dal crollo del numero degli addetti ai lavori. Non tanto sul fronte giornalistico, quanto su quello poligrafico: la carta, assai più del digitale, ha bisogno di un esercito silenzioso di mille professionalità (tipografi, grafici, stampatori, impiegati ecc.) per raggiungere capillarmente ogni giorno le edicole. Ma la situazione del settore è quella raccontata da questo grafico dell’ultimo rapporto ASIG (l’associazione degli stampatori di giornali):
In questi giorni le redazioni dei giornali e il loro sistema di distribuzione stanno facendo un lavoro – lo ripeto – eroico per cercare di portare ogni giorno un prodotto di 30-60 pagine di carta nelle case dove gli italiani vivono blindati. Temo però che, passata la fase dell’emergenza, tutte le debolezze del settore verranno a galla e si uniranno alla realtà di un prosciugamento massiccio, impensabile, degli investimenti pubblicitari che proseguirà almeno per tutto il 2020. Una tempesta perfetta che a mio avviso segnerà la fine della carta. E anche di molte tradizionali modalità di lavoro, come le periodiche riunioni di redazione. Lo smart working di queste settimane, del resto, ha offerto spunti importanti per immaginare il futuro.
Da dove ripartire?
Purtroppo, come per la sanità pubblica, è difficile reagire quando la crisi è già in corso. Servivano negli anni scorsi scelte radicali in termini di innovazione: ogni storia di successo dell’editoria in questi anni è basata su un solido approccio R&D.
Ricette se ne possono immaginare tante, modelli di riferimento a cui ispirarsi adesso ne esistono in ogni parte del mondo. Io mi limito a elencare sei lezioni che mi sembra ci abbiano insegnato gli Anni Dieci, per provare a immaginare il giornalismo degli Anni Venti:
- I media in questi anni hanno confuso il traffico con l'engagement. Anche nell'era digitale occorre scommettere sul giornalismo di qualità;
- La grande scarsità della nostra epoca è l’attenzione delle persone, la si cattura conoscendo bene il proprio pubblico e offrendogli contenuti di qualità. La tecnologia aiuta, senza mitizzarla;
- Paid è un buon antidoto a fake: l’informazione tutta gratis non ha un futuro. Ma si è disposti a pagare un’esperienza, non una notizia.
- È in corso una ibridizzazione dei mezzi che conduce alla transmedialità, occorre sapere giocare a questo gioco;
- Conosci chi ti segue e chi ti paga: data analysis e data science sono fondamentali. Non servono big data, ma relevant data;
- Membership sarà una parola chiave per i prossimi anni.
Adesso occorre fare presto, prima che gli effetti dell'imminente Grande Recessione divengano devastanti. Occorre comprendere velocemente che questa è una crisi di settore industriale, inserita dentro una gigantesca crisi economica globale: si può reagire solo con un drastico cambio di sistema. L’ultima copia di carta del New York Times - e di tante altre testate storiche, anche italiane - non è mai stata una realtà così vicina.
--
5 mesiI prossimi saranno i libri. Per questo sto acquistando vecchi libri.... La nuova generazione zero li manderà al macero o li brucerà. C'è un'ignoranza estesa ai massimi livelli.
Ingegnere - Musicista - Fonico - Tecnico
3 anniCiao Marco! Grazie della condivisione e della seguente discussione che si è creata. 🗞 Volevo condividere la mia esperienza famigliare: mio nonno compra il giornale tutti i giorni, alcuni settimanali e altri che gli vendono alla porta. Mio padre era un abbonato ad alcune riviste a cadenza mensile e leggeva il giornale nei bar, in biblioteca o dove capitava. Attualmente si è spostato completamente sul digitale: le riviste vengono ora lette sull'iPad, il giornale viene letto dal computer. Personalmente sono un grande appassionato della carta e ho memoria di queste pratiche di lettura. Ho comprato moltissimi magazine, riviste, libri. Vedo il mercato editoriale come un continuum dove però alla carta do il massimo valore, cioè di qualcosa che sia destinata a rimanere, come un acquisto che possa sostenere gli anni. Non guardo la TV ma non sento neanche l'esigenza di dover essere giornalmente informato sulle novità perché sono già invaso da informazione costante, ridondante (e non) da tutti i canali a disposizione, dove di fatto mi arrivano le notizie rilevanti (decreti ministeriali, novità sulla politica e cultura locale, etc). Quando mi approccio ad una rivista? Quando sto studiando un contenuto, non necessariamente per lavoro. In un mondo così eterogeneo e dai contenuti così diversificati trovo diffcoltoso anche immaginarsi un cliente costante in una determinata fascia d'età (<= 30 anni), io stesso non lo sono. Il mio approccio all'informazione è sparso, né più né meno di come mi approccio alla visione dei film e/o serie TV tramite servizi di streaming. Ecco, un'idea che m'intrigherebbe per il futuro: avere a disposizione uno (o più) servizi di streaming giornalistici associati dove accedendo a poche piattaforme io possa trovarmi la gran parte dei contenuti/esperienze/articoli giornalistici prodotti, e li scegliere. Sarà l'epoca?! 🤓
Senior Journalist | Climate Change & Environment | Rizzoli Corriere della Sera, Milan | Writer (Groenlandia, Laterza)
4 anniUn giorno, con la dovuta distanza, bisognerà provare a scrivere una storia di questo declino. E io sono convinto che la tecnologia, e le scelte miopi di editori e sindacato (perché pure il sindacato ha avuto una grande responsabilità nel frenare ogni sviluppo: ricordo tempi in cui i cdr bloccavano gli aggiornamenti dei sistema editoriali, se non erano accompagnati da un congruo bonus per la categoria...), dicevo solo convinto che la tecnologia rappresenti solo una parte della verità. Anche perché il declino ha investito le varie sezioni/figure professionali legate alla fattura di un quotidiano con tempi diversi. In nome del contenimento dei costi sono saltati prima gli inviati di guerra, sostituiti all'inizio degli anni Duemila dai giornalisti «embedded», spesati da Forze armate e Ong. Poi è toccato ai corrispondenti, che hanno fatto fronte al taglio di uffici e budget firmando articoli da posti dove non erano, e riducendosi sostanzialmente a fare un lavoro di rassegna stampa. Abbiamo appreso i retroscena della guerra in Afghanistan, e scoperto l'esistenza di Guantamano grazie a WikiLeaks, non al New York Times, che pur essendo dotato di grandi mezzi, si è limitato a rilanciare le notizie che Julien Assange gli faceva arrivare. Negli anni Dieci pure i giornalisti «embedded» sono spariti, sostituiti da bravissimi freelance che non costavano nulla. Dopo di ché di quello che succede in Siria, Libia o nell'Africa sub-sahariana non sappiamo più nulla: per cui anche di problemi come le migrazioni si parla per stereotipi e luoghi comuni («fuggono dalle guerre...»). Contemporaneamente anche i giornalisti delle pagine di economia hanno visto il loro margine di azione restringersi sempre di più, davanti alla pressione anche del più piccolo degli inserzionisti. Oggi a fare inchieste economiche sono rimasti praticamente solo Report e qualche altra trasmissione televisiva, i giornali offrono solo spazi di visibilità per le aziende, con speciali e dorsi vari. I lettori però non sono stupidi, queste trasformazioni le hanno colte, tant'è che il settore che ha accusato maggiormente la crisi con il più alto numero di testate chiuse è proprio quello della stampa economica (Economy, Il Mondo, Finanza e Mercati, Borsa e Finanza, Il Denaro, per ricordarne qualcuna). Questo per dire che accanto alla tecnologia, che ha fatto apparire superato il prodotto giornale, si è incrinato anche il rapporto di fiducia con i lettori. I social sono pieni di utenti che verificano quello che i giornalisti scrivono e raccontano: le contestazioni non sono sempre fondate, però spesso centrano il bersaglio. E direttori ed editori dovrebbero in questi casi porsi qualche domanda, ma non succede. E' necessario ricostruire la credibilità dell'informazione giornalistica, prima ancora di trovare il format adatto con cui veicolarla. Non saranno insomma podcast, newsletter o altre formule di packaging a salvare la nostra categoria: la sfida è molto più difficile.
Docente di imprenditorialità giovanile. Turns teens into startuppers. Top 50 GTP 2015. Winner GESS Education Award 2023. Winner Global Teacher Award 2020. Docente dell'Anno 2020. Co-fondatore WeDo Academy.
5 anniBianca
Co-fondatore presso SmartAds.it
5 anniLe notizie devono essere gratis per tutti sempre (il censo non deve influire sulla conoscenza mai più). Questo non significa che non valgono nulla. Anzi proprio perchè sono inestimabili le notizie non possono avere un prezzo. Allora concentriamoci su come possano essere sostenute le imprese editoriali meritevoli. Troviamo un modo per capire come retribuire bene i giornalisti che producono informazioni (e non la rilanciano e basta). Credo che il problema sia sociale e, per questo, non di immediata soluzione. Sono d'accordo sul fatto che è una questione di qualità dei contenuti. Sono d'accordo anche sul fatto che bisogna aggiornarsi e formarsi sul nuovo mezzo che abbiamo a disposizione. Bisogna conoscere le logiche del mezzo (come si legge, come si utilizza, dove, quando, per quanto tempo, chi lo utilizza) ma anche i tecnicismi (seo, cross medialità, customer experience..) Ma il problema più grande credo sia una questione di credibilità: la credibilità dei giornali e la credibilità dei giornalisti. Non so se c'è ancora qualcuno che riesce a sostenere che tutti i giornali (o la gran parte dei giornali) abbiano davvero fatto un lavoro egregio in questi ultimi decenni. Forse si è tirata troppo la corda. Il punto è che la gente non crede più che giornali e televisioni dicano la verità. Per i cittadini questi media non sono credibili. Se a questo ci aggiungiamo anche il costo di un prodotto non credibile ecco la fotografia di una crisi che viviamo da tempo. Come si fa a vendere un prodotto non credibile? Non si può. Questo credo sia anche il motivo per cui decidere oggi di far pagare una notizia (o un'esperienza) sia una scelta giusta ma nel tempo sbagliato. Dobbiamo prima rieducare le persone a credere e ad avere fiducia nella categoria dei giornalisti e dei giornali. Solo dopo si potrà sperare di chiedere un prezzo per un prodotto credibile. Il giornalismo di qualità non morirà mai. Il giornalismo d'inchiesta anche. Ma c'è un altro aspetto che bisognerà considerare -prima o poi- e riguarda proprio i meccanismi e le logiche della Rete. Ammettiamo che io faccia un prodotto di qualità, unico e originale, produco inchiesta mirabili e le faccio pagare (poco ma le faccio pagare). Un minuto dopo la pubblicazione di queste inchieste decine o centinaia di altri siti riporteranno la notizia (citando o meno la fonte) ma di fatto propagando gratis l'essenza di quel frutto del mio duro lavoro. Se io sono il proprietario del “sito sorgente” come posso sperare di poter guadagnare con il mio lavoro quando un minuto dopo la pubblicazione la mia notizia è ovunque? Ecco perchè credo che bisogna concentrarsi non su come vendere una notizia (o un’esperienza) ma come sostenerla.