Innovazione, nuovi ricavi e bilanci sani per un giornalismo davvero libero
"Giornalismi nella società della disinformazione" è il titolo di una giornata di lavoro che Agcom ha organizzato il 23 novembre 2018, nella sede della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, per discutere della crisi delle testate giornalistiche tradizionali e delle possibili risposte per il settore. Sono stato invitato a intervenire in un panel e condivido qui gli appunti sulle cose che ho detto nei miei 15 minuti. Sono solo spunti inevitabilmente generici, vogliono essere un piccolo contributo alla riflessione sul futuro del mestiere che ho fatto per 30 anni.
C'è una vecchia regola del giornalismo che resta sempre valida, anche nella società della disinformazione: follow the money. Tanti fenomeni difficili da comprendere assumono nuova luce se si segue la traccia dei loro risvolti economici.
La libertà di informare si difende in tanti modi, tra questi anche avendo bilanci solidi e aziende editoriali in grado di stare sul mercato. La disinformazione, come dimostrano anche gli studi di Agcom sul fenomeno delle fake news, ha trovato modelli di business economicamente sostenibili. Se i fake creano profitti, l’informazione di qualità dovrebbe essere in grado di produrne assai di più. I falsi Gucci e Prada arricchiscono senz'altro chi li diffonde, ma gli originali hanno modelli di business molto più forti, basati sul design e la creatività italiani e sulla capacità di costruire eventi, negozi e passioni intorno ai brand che tutti ci invidiano.
Cosa manca al giornalismo italiano per fare altrettanto?
Se guardiamo ai modelli internazionali, emerge senza dubbio una capacità di dare valore ai contenuti che da noi ancora scarseggia. Il grande giornalismo, che sia tutto gratis come a The Guardian o protetto da vari sistemi di pagamento come nel caso di New York Times, FT, o Washington Post, è capace di creare abbonamenti, fidelizzazioni, network di eventi, corsi e workshop a pagamento, newsletter verticali (The Politico è il caso più noto e profittevole) e di restare allo stesso tempo attraente per gli investitori pubblicitari.
In un mondo dove la più grande scarsità è diventata l’attenzione della gente, la ricetta giusta è un mix di tante cose, non solo digitali ma anche cartacee. Mi permetto di segnalare quelle che a me sembrano due priorità, unite dal fatto di essere entrambe di solito accolte con sospetto e con la bocca storta nelle redazioni: innovazione e native advertising.
L’Italia non eccelle in innovazione. Tutto il mondo ci riconosce la creatività e il potenziale per poter cavalcare anche la rivoluzione digitale, ma la realtà è che stiamo perdendo questa opportunità. L’ultimo rapporto Assirm Innovation Index, l’indice che misura la capacità di innovare dei Paesi, ci piazza al penultimo posto in Europa davanti alla Grecia, con una crescita modesta e ben lontani dal resto dei Paesi Ue.
Se questo è vero per l’Italia nel suo complesso, è ancora più vero per l’industria editoriale e per il mondo dell'informazione. Eppure innovare, nel giornalismo, non significa stravolgerlo o cedere alla tentazione di proporre solo contenuti leggeri che catturano il traffico web. E non significa neppure semplicemente integrare carta e digitale. Quella era innovazione dieci anni fa. Poteva essere ancora una frontiera otto anni fa, quando con Massimo Gaggi pubblicammo "L'Ultima Notizia" (Rizzoli), un'inchiesta su come stava cambiando il giornalismo. Oggi è già cambiato di nuovo tutto, la frontiera si è spostata molto più avanti e chi non ha ancora fatto quell'integrazione ormai ha perso molti, molti treni.
I sistemi editoriali innovativi dieci anni fa erano quelli che permettevano di gestire l'impaginazione del giornale e il sito web sulla stessa piattaforma. Oggi paradossalmente andrebbero già smontati. Ora occorre ragionare in termini di contenuti che possono “viaggiare” da una piattaforma all'altra, studiandoli fin dalla fase del loro design per renderli liberi davvero di muoversi. Le aziende all'avanguardia nei software editoriali, come l'italiana D-Share, puntano tutto sul contenuto, non sull'integrazione a tutti i costi di ogni fase della produzione editoriale.
Innovare significa anche trovare modalità nuove di proporre quello che i giornali sanno già fare bene, per intercettare nuovi pubblici e portarli sui contenuti di qualità. Un esempio? Provate a scaricare e installare sul vostro smartphone l'ultima versione della app Quartz Brief, creata da una delle testate americane più innovative. Vi troverete immersi in un ambiente che assomiglia a Whatsapp, ma che serve per portare lettori in modo originale sui vecchi, cari siti web carichi di sano giornalismo tradizionale.
Cosa serve per innovare? Investimenti, certo: e questa è una richiesta forte da lanciare nei prossimi anni agli editori. Ma serve anche la voglia di sperimentare. Intelligenza artificiale, realtà aumentata, data analytics offrono una miriade di spunti per inventare nuove modalità per mantenere il grande giornalismo al passo con i tempi. Creare contenuti data driven non può essere considerato un insulto al giornalismo o un tema da affrontare solo in termini di tutela della privacy (che va ovviamente tutelata in ogni modo possibile). E' anche una grande opportunità per capire cosa sta veramente a cuore alle persone a cui si propongono le storie e a quali condizioni sono disposte a dare il loro tempo (e magari un po’ di denaro) al giornalismo.
In questa fase storica occorre una grande apertura alla contaminazione: giornalisti che lavorano fianco a fianco con data analysts, programmatori, videomakers, esperti di data visualization, possono esplorare spazi creativi tutti nuovi e cavalcare al meglio ciò che la tecnologia ci proporrà nei prossimi anni.
Nasceranno da questa contaminazione anche le capacità di usare le competenze e la creatività del giornalismo per creare un nuovo rapporto con le aziende e gli altri investitori pubblicitari.
Le imprese hanno grande fame di quello che i giornalisti sanno fare meglio: raccontare storie. C’è un’opportunità enorme in questo campo, ancora sfruttata molto poco in Italia a differenza di quello che avviene all'estero. Per capire il fenomeno e le sue potenzialità, basta andare a vedere quanti gruppi editoriali hanno creato il loro "brand studio" e che tipo di progetti si sviluppano per esempio al T Brand Studio del NYTimes, o a Axel Springer Brand Studio in Germania, Vox Creative negli Usa, BBC StoryWorks in Gran Bretagna e molti altri ancora.
In Italia, all'interno del gruppo Eni, ci stiamo provando con Agi e la sua neonata factory. Ma di strada da fare ce n'è ancora tanta.
Con gli strumenti oggi a disposizione, le aziende possono raccontarsi da sole e costruire la loro audience. C'è chi lo sta già facendo da qualche anno. Ma giornali e TV hanno ancora oggi la possibilità di offrire l’accesso a comunità di lettori e utenti che sono di grande importanza per le aziende. Soprattutto, hanno in casa qualcosa di cui non dispongono né le aziende, né le agenzie pubblicitarie, né le società di consulenza integrata: la capacità di capire quali storie "facciano notizia" anche dentro un'impresa, di raccontarle in modo accattivante, di creare contenuti che interessino alle persone e le spingano a leggerli, guardarli, condividerli.
Ecco, per esempio, come il brand studio della CNN ha raccontato la presenza di Eni in Nigeria, mandando sul posto una propria troupe e lavorando fianco a fianco con l'azienda.
C’è una finestra d’opportunità per i giornali, e non durerà a lungo. A Berlino pochi giorni fa, alla conferenza annuale organizzata dal Native Advertising Institute di Copenhagen (dove il progetto Eni-CNN è stato presentato come una delle case history), sono stati diffusi numeri importanti. Una percentuale crescente di media companies sta vedendo aumentare in modo significativo i ricavi che provengono da aziende che pagano per pubblicare i loro contenuti sui siti di news. Negli ultimi due anni, la percentuale di ricavi da native advertising per queste testate è raddoppiata, passando dall'11 al 20% e si calcola che sarà il 35% entro il 2021.
Lo so che “native advertising” suona a molti nelle redazioni come un modo fighetto di dire publiredazionale o marchetta. In realtà si tratta di una possibile nuova fonte di ricavi che potrebbe contribuire a sostenere l’editoria italiana e che al momento è pochissimo esplorata nel nostro paese.
Definiamo bene le regole del gioco, creiamo una netta divisione "Stato e Chiesa", redazioni e brand studio, tuteliamo e informiamo i lettori su chi sta loro proponendo una storia (la trasparenza è il punto fondamentale, ogni tentativo di nascondere un brand dentro contenuti giornalistici è un danno per la testata e per il brand). Ma non perdiamo questa occasione.
Raccontare storie non è mestiere da pubblicitari, né da algoritmi. E' l’essenza del giornalismo ed è il miglior modello di business anche per il futuro. A condizione che nei giornali si acquisti la consapevolezza che la libertà richiede bilanci solidi e che non c’è niente di male a parlare di nuove fonti di ricavo anche in redazione.
Leadership & AI Advisor at Spencer Stuart. Passionate about AI since 1998 — but even more about Human Intelligence since 1975. Forbes Council. ex Microsoft, Capgemini, McKinsey, Ericsson. AI Faculty
6 annitema veramente importante! assolutamente prioritario!
🚀 C Level & Board Member | Imprenditore | Consulente | Innovation Manager | Mentor | Business Angel
6 anniComplimenti Marco Bardazzi, ottima sintesi, che condivido dall’inizio alla fine. Speriamo che faccia riflettere chi ha l’interesse, il potere ed il dovere di decidere.