Il referendum spiegato alle mie figlie

Il referendum spiegato alle mie figlie

Una delle cose che mi hanno sempre affascinato del giornalismo, il mestiere che ho avuto il privilegio di fare per 30 anni, è avere l’opportunità di dare ai lettori strumenti di giudizio per le loro scelte. Il giornalismo serve soprattutto a questo: a offrirti le informazioni sulla base delle quali giudicare la realtà e decidere “come la pensi” sulla politica o l’economia, sul film del momento o l’andamento in campionato della squadra del cuore.

Da genitore poi, ho sempre pensato che un buon metodo d’azione in questo senso fosse quello di chiedersi: “Come spiegherei questa cosa alle mie figlie?” Ben sapendo che loro, come qualunque altro lettore, sono poi liberissime di decidere con la propria testa e giungere magari a giudizi lontani dal mio.

Ora non faccio più di mestiere il giornalista, mi occupo di comunicazione in una grande società del mondo oil&gas. Tra qualche giorno è in calendario un referendum che tratta di energia e di attività legate anche alla società per cui lavoro, l’Eni. Il giornalista che c’è ancora in me non ha resistito alla tentazione di farsi le stesse domande. E allora ho ripreso penna e taccuino e sono andato a raccogliere informazioni e risposte in casa Eni, tra gli addetti ai lavori.

Certo, stavolta è tutto diverso: non sono “super partes”, non ho alcuna pretesa di apparire indipendente come dovrebbe essere un giornalista, e il mio stipendio lo paga l’Eni. Quindi tutto quello che vi dico avete il sacrosanto diritto di prenderlo come una versione di parte. Mi darete atto però che su un tema come le “trivelle” – orrenda parola che tra l’altro non c’entra nulla con il mondo degli idrocarburi e delle piattaforme – i dati raccolti da una società con oltre 60 anni di esperienza specifica in tutto il mondo, abbiano una certa attendibilità.

Ecco quindi le domande che mi sono fatto e quello che ho trovato come risposta da tecnici e addetti ai lavori. Vuole essere un contributo a fare scelte informate. Quali scelte, lo deciderà ciascuno di voi. Incluse le mie figlie.

Perché insistere nel cercare idrocarburi in Italia, dove ci sono poche risorse di questo tipo?

Domanda con un presupposto sbagliato. Diversamente da quello che si dice in giro, l’Italia non è un Paese povero di risorse petrolifere e gas. Il patrimonio di idrocarburi italiano va riletto all’interno del contesto europeo dove l’Italia occupa una posizione tutt’altro che marginale: esclusi i grandi produttori del Mare del Nord (Norvegia e UK), il nostro Paese occupa il primo posto per riserve di petrolio ed è il secondo produttore dopo la Danimarca.

Nel gas, invece, si attesta in quarta posizione per riserve e in sesta per produzione. L’esame dei progetti proposti o già avviati dagli operatori sulle riserve già accertate e non ancora sviluppate indica come sia possibile più che raddoppiare la produzione petrolifera attuale nell’arco del decennio in corso.

[Nota per quelli a cui piacciono i numeri (non chiedetemi però di spiegare tutte le sigle, per questo avete Google e Wikipedia): le riserve di gas sono103 Bcm accertate e 160 potenziali; le riserve certe di petrolio sono 1.400 Mbl, potenziali 1.000 Mbl. Riserve complessive O&G: 700 MTep tra certe, probabili, possibili, e "potenziali"]

Ma in Italia che peso reale hanno le attività dell’upstream, cioè dell’esplorazione e produzione di oil&gas?

Un peso significativo, è un settore di cui il Paese può andare orgoglioso e che il referendum, se passasse, metterebbe in difficoltà. Nel 2015 le attività upstream hanno garantito produzioni nazionali per 5,8 Mtep di petrolio e 5,9 Mtep di gas all’anno, circa il 10% del fabbisogno nazionale di petrolio e gas. Ovviamente sono tutte risorse che, se non producessimo in casa, dovremmo importare.

[Sempre per quelli fissati con i numeri: il consumo in Italia è circa 108 Mtep, il consumo mondiale petrolifero è 7 mld tep]

Che benefici comporta questa produzione?

Innanzitutto un risparmio sulla bolletta energetica di circa 3,5 miliardi di euro/anno. Inoltre stiamo parlando di un settore che genera investimenti per circa 1,2 miliardi di euro/anno, che si traducono in circa 10.000 posti di lavoro diretti e indiretti nella sola attività estrattiva, oltre a circa 19.000 addetti nell’indotto esterno al settore.

Non solo. L’upstream italiano genera investimenti nella ricerca per oltre 300 milioni di euro/anno, coinvolgendo università e politecnici in formazione di know how altamente specializzato.

Ancora: la ricchezza prodotta da esplorazione e produzione di idrocarburi genera circa 630 milioni di euro/anno di imposte sul reddito d’impresa e oltre 310 milioni di euro/anno di royalties e canoni.

Oltre a tasse e royalties, che ci guadagna il Paese?

La valorizzazione delle risorse energetiche nazionali è un’opportunità di crescita e sviluppo per l’Italia. La messa in produzione anche soltanto di una parte delle riserve ad oggi non sfruttate, potrebbe attivare investimenti per circa 10 miliardi di euro nel prossimo piano quadriennale con un impatto sull’occupazione stimabile in oltre 5.000 unità per i prossimi 6-10 anni in imprese localizzate, pari a 50.000 ULA (unità lavorative annue), nei distretti industriali ad alta specializzazione legati alla filiera dell’energia. Inoltre, potrebbe generare entrate fiscali per oltre 1 mld €/anno per Stato, enti locali e comunità  interessate, per un periodo di oltre 20 anni e consentire risparmi sulla bolletta energetica di oltre 50 mld €.

E se invece decidessimo di ridurre le attività upstream in Italia, che impatto si registrerebbe?

Occorre essere realisti e dire le cose con chiarezza. L’Italia e l’Europa avranno bisogno di utilizzare (e importare) idrocarburi ancora per decenni. Oggi l’Italia importa circa il 90% del petrolio e dei prodotti petroliferi necessari a soddisfare il suo fabbisogno e circa il 90% del gas. A meno di breakthrough tecnologici - ad oggi difficilmente immaginabili - gas e petrolio alimenteranno ancora nel 2030 oltre il 50% della domanda primaria di energia.

In particolare – dato il percorso di decarbonizzazione che l’Europa e l’Italia hanno compiuto – sempre più rilevante sarà il ruolo del gas naturale per il soddisfacimento del fabbisogno energetico, in integrazione con le energie rinnovabili.

Il gas naturale, che è un combustibile pulito e versatile, oggi soddisfa il 33% del fabbisogno italiano di energia primaria, nel 2030 è prevedibile che questa quota raggiunga circa il 36%, mentre i prodotti petroliferi vedranno ridursi la loro quota dal 35% del 2015 al 33% del 2030.

Ricordiamolo di nuovo, in questo contesto: l’Italia ha una dotazione di riserve certe, probabili e possibili di gas e petrolio pari a circa 700 Mtep, cioè circa 7 volte l’intero consumo nazionale di gas e petrolio del 2014.

Tutto molto interessante, ma resta il dato di fatto che gli idrocarburi hanno un impatto ambientale. Tutto quel petrolio che si estrae dalle piattaforme in Adriatico è un rischio...

Attenzione, su questo c'è un grande malinteso alimentato ad arte. Vogliono far credere che il referendum sia sul petrolio, ma riguarda le piattaforme offshore. Vogliamo andare a vedere una volta per tutte cosa esce da quelle piattaforme?

La produzione offshore di Eni è costituita per il 93% da gas naturale e solo per il 7% da petrolio. Il gas naturale è considerato tra le fonti di energia più pulite attualmente accessibili. In fase di combustione produce minime quantità di inquinanti atmosferici come CO2, NOx, trascurabili emissioni di SO2 e non produce polveri sottili.

Il gas naturale inoltre non è inquinante per le acque, per suolo e sottosuolo.

Le 79 infrastrutture Eni attualmente operative nell’off-shore (72 piattaforme di produzione gas e 7 olio) di Emilia Romagna, Marche, Abruzzo, Calabria e Sicilia subiscono costanti attività di manutenzione ordinaria e straordinaria che coinvolgono oltre 1200 aziende. Le unità produttive offshore di Eni operano senza incidenti ambientali da oltre 50 anni. Provate a fare ricerche d’archivio sui giornali: per trovare un incidente vero a una piattaforma bisogna andare indietro al 1965 (piattaforma Paguro)!

Che controlli ci sono su quelle piattaforme?

La verità è che stiamo parlando di uno dei settori più sicuri d’Italia, che segue i più alti standard di sicurezza, tutela delle persone e del territorio, standard che sono certificati da organismi internazionali indipendenti (ISO 14001 e OHSAS 18001).

Le piattaforme entrano in esercizio a seguito di un processo che prevede almeno 26 fra autorizzazioni e nulla osta da parte di Ministeri e loro organi tecnici (MISE, Ambiente, beni culturali, Capitanerie di Porto, Vigili del Fuoco), ARPA/ISPRA e Regioni, nell’ambito di un iter trasparente e pubblico.

Le operazioni delle piattaforme – dopo il collaudo - sono soggette a continui controlli e ispezioni da parte di autorità di vigilanza e Capitanerie di Porto: controlli sulla qualità delle acque, sulla qualità dell’ambiente marino, sulle emissioni in atmosfera.

Se poi vi incuriosisce scoprire come si lavora su una piattaforma, ve lo raccontiamo qui in cinque minuti.

 Quindi le “trivelle” hanno un valore economico importante e danno garanzie di sicurezza. Che dire però della loro sostenibilità?

L’estrazione di idrocarburi è un’attività completamente sostenibile e sicura. Ripetiamolo, perché è importante: le statistiche dicono che questa è una delle industrie più sicure, con il tasso di infortuni e di incidenti più basso e dove vengono applicate le tecnologie più avanzate. 

E diciamo anche con serenità, perché è un dato di fatto, che turismo, agricoltura e idrocarburi possono ben convivere. Lo conferma l’Emilia Romagna, dove in presenza di una storica attività di esplorazione e produzione, si sono sviluppate le eccellenze agricole ed alimentari della “food valley” a fianco dei campi petroliferi. Per quanto riguarda il turismo, significativo è l’esempio di Ravenna che conta circa 40 piattaforme di gas in produzione davanti alla costa e, allo stesso tempo, può vantare 9 bandiere blu nel 2014, corrispondenti a 27 località marine su altrettante spiagge della costa romagnola. Per non parlare delle cozze. Cosa c'entrano le cozze? Ve lo spieghiamo in questo video

La contrapposizione fra sviluppo economico e ambiente è un modo improprio di porre il problema. Un iter autorizzativo fra i più severi al mondo e adeguati controlli ambientali e di sicurezza, l’applicazione delle migliori tecnologie disponibili e il rispetto dei più elevati standard di sicurezza, consentono di perseguire uno sviluppo economico sostenibile anche dal punto di vista ambientale.

Se poi vogliamo alzare un po’ la testa e guardare anche oltre i nostri confini, non occorre vedere cosa fanno i paesi scandinavi. Basta guardare dall’altra parte dell’Adriatico, in Croazia. Il boom turistico di quel Paese è avvenuto in questi ultimi anni, parallelamente allo sviluppo di oltre 15 nuove piattaforme a mare (contro praticamente nessuna in Italia). E la Croazia ora si avvia alla quasi completa indipendenza energetica per il gas.

Ok, quindi volete continuare a perforare l’Adriatico...

Continuare? Stop, è meglio guardare questa tabella prima di proseguire. Dice una cosa molto semplice: dal 2009 non vengono perforati nuovi pozzi esplorativi a mare in Italia. Siamo passati dai 10 pozzi esplorativi del 2000 a zero dal 2009.

Zero? Ma allora su cosa è questo referendum? 

Se lo chiedono in molti. Come ha detto l’AD di Eni Claudio Descalzi: “Massimo rispetto per il referendum come strumento democratico, ma se si guarda ai contenuti in questo caso non ha alcun senso: chiede di dire no a qualcosa che non si sta facendo. In Puglia, per dire, l’ultimo pozzo risale al 1997”.

La contrazione delle attività nel settore ha portato alla riduzione della produzione di quasi due terzi per il gas e di quasi metà per il petrolio e a livello occupazionale il numero di impiegati nel settore si è quasi dimezzato.

Quante sono le concessioni all’interno delle 12 miglia di cui tratta il referendum e che impatti stimate nel caso il quesito referendario venga accolto?

Le concessioni che si trovano all’interno della 12 miglia sono 48 su 69 e producono circa 2,7 Bcm di gas (60% del totale) e 4 milioni di barili di petrolio (73% del totale).

Gli impatti economici ed occupazionali del mancato rinnovo delle concessioni di coltivazione degli idrocarburi entro le 12 miglia, sono:

  • Aumento della dipendenza energetica dall’estero fino ad oltre l’81% rispetto all’attuale 76% (ovvero un aumento dell’import di gas dal 90% al 95% e dell’import di olio e prodotti petroliferi dal 90% attuale al 91.3%)
  • Una riduzione degli investimenti nel settore upstream di circa 1 Mld€
  • Riduzione del volume del fatturato dell’indotto per circa 0,9 Mld € anno e ricadute occupazionali su 5.500 risorse impiegate 
  • Infine, da un punto di vista di efficienza energetica ed ambientale è importante evidenziare come per rimpiazzare un metro cubo di gas prodotto in Italia occorre importarlo tramite gasdotti o LNG, con un consumo di energia mediamente pari al 10% del volume importato, e quindi un maggiore impatto ambientale: l’import addizionale porterebbe ad un aggravio delle emissioni di circa un milione di tonnellate di CO2 per anno. Per non parlare dell’aumento dei traffico di petroliere nei nostri mari, con relativi rischi annessi.

Un’ultima questione, anche se con il referendum c’entra poco: le vicende giudiziarie di questi giorni in Basilicata non rendono meno credibili le riflessioni sull’impatto ambientale delle perforazioni?

È vero che c'entra poco, anche perché in Basilicata non si tratta di offshore e parliamo in quel caso più di petrolio che di gas. Comunque, detto che Eni sta facendo il massimo per cooperare con l’autorità giudiziaria affinché possa essere fatta chiarezza su questa vicenda nel più breve tempo possibile, anche qui è importante ricordare qualche dato di fatto.

L’impegno di Eni per l’ambiente è massimo, in ogni ambito: possiamo dire che ben pochi spendono come noi in Italia in questo ambito. Dei 17 miliardi investiti dal 2009 in Italia, ben 4,2 miliardi sono stati spesi per sicurezza e protezione dell’ambiente. Chi altro ha fatto di più in Italia?

L’elenco qui potrebbe essere lunghissimo, ma ricordiamo alcuni dati:

- gli ottimi risultati che stiamo conseguendo nella riduzione delle emissioni di gas serra dalle nostre attività (-28% tra il 2010 e il 2015)

- i miglioramenti che stiamo conseguendo nella minimizzazione dell’utilizzo dell’acqua dolce (-2% nel 2015 rispetto al 2014 in un trend decrescente che dura da cinque anni)

- l’attenzione alla gestione dei rifiuti (nel 2015 circa il 9% dei rifiuti da attività produttiva è stato sottoposto a recupero)

- le attività di bonifica di siti che Eni ha storicamente dovuto acquisire (nel periodo 2002-2015, per gli interventi ambientali Eni ha speso circa 3 mld €)

Che dire delle polemiche sulla reiniezione delle acque in Val d’Agri?

Anche qui, stiamo ai fatti e diciamolo con chiarezza: quelle acque non sono pericolose e la pratica della reiniezione è la migliore per rispettare l’ambiente. Sono stati commissionati studi su questo a esperti di conclamata esperienza professionale ed autorevolezza in campo scientifico sia a livello nazionale che internazionale. E gli accertamenti condotti al Centro Oli si basano su:

  • monitoraggio e analisi della qualità delle acque per 75 giorni continuativi, 24 ore su 24;
  • monitoraggio e analisi dei livelli emissivi del Centro Olio per 30 giorni continuativi;
  • monitoraggio e analisi della qualità dell’aria registrata dalla centraline nelle aree esterne al Centro Olio per 28 giorni continuativi, in periodo invernale ed estivo. Tale monitoraggio prevede l’utilizzo di centraline indipendenti rispetto a quelle già esistenti dell’ARPAB.

 Quali sono i risultati di questi monitoraggi?

 Sintetizziamoli così:

  • le acque di reiniezione non sono acque pericolose, né da un punto di vista della normativa sui rifiuti, né da un punto di vista sostanziale;
  • l’attività di reiniezione svolta presso il Centro Olio non solo è conforme alla legge italiana e alle autorizzazioni vigenti, ma risponde alle migliori prassi internazionali;
  • l’attività di reiniezione è la migliore pratica anche da un punto di vista ambientale: il comparto ambientale più idoneo a riceverle, per le loro caratteristiche, è infatti proprio il giacimento di riferimento;
  • lo stato di qualità dell’ambiente, studiato e monitorato in tutte le sue matrici circostanti il Centro Olio, è ottimo secondo gli standard normativi vigenti.

 Per chi vuole saperne di più, tutte le informazioni sono su eni.com

vincenzo de vera

OpenJobMetis, Quanta, CMP-Oil&Gas Eng, Umanitaria, Movimento di Pensiero Arte da Mangiare.

9 anni

Vincenzo de Vera RE CMP Engineering. Complimenti per la chiarezza e semplicita' anche da parte mia, forse di parte ma liberi di esprimersi! Chiaro come ieri sl convegno Ruling Companies dove abbiamo scambiato 4 chiacchiere alla fine!

Francesco Robillotta

Dirigente d'azienda presso Eni

9 anni

Complimenti per la chiarezza . Sono di parte (come si vede dalla foto se ci fossero dubbi), Ho preso spunto dal contenuto per divulgarlo ..

Spiegato molto bene da una prospettiva dichiarata.

E' veramente troppo di parte e con molte incongruenze e non verità, purtroppo lo stato ci guadagna ben poco da tutto quello che si estrae ed i cittadini italiani ci guadagnano un bel nulla. Quando le multinazionali avranno esaurito i bacini ci troveremo con un cerino in mano. non era più opportuno attendere le scadenze e ripartire con nuove regole: più attuali, nuovi bandi: dove magari si possono mettere in gara aziende italiane e poi in primis spetta alle regioni limitrofe decidere poiché se rimane un buco vuoto rimane sotto ai piedi dei cittadini che ci abitano e non sicuramente all'ENI !!!

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