I social network e l’estinzione delle bufale

I social network e l’estinzione delle bufale

Le notizie false sui social network sono un problema reale che modifica le opinioni e influenza le scelte di persone e imprese. Google e Facebook sono pronte a impegnarsi per metterci una toppa. E poi c’è la fantastica storia di Beatrice Di Maio… 

Notizie false che su Facebook si dice abbiano aiutato Trump a vincere le elezioni. E ora i lavoratori del social network protestano ma in modo anonimo (Mark Zuckerberg non è tenero con i disertori). Anche Google ha preso molto sul serio il problema delle notizie false che l’aggregatore di news mette anche nella top list. Il Ceo Sundar Pichai promette un impegno per eliminare i fake, almeno dai primi posti di indicizzazione. E poi c’è la fantastica storia di Beatrice Di Maio una sorta di Donna Summer di Twitter.

Negli anni Settanta si pensava che Donna Summer non esistesse, fosse generata con i software della nascente musica elettronica ma era in carne e ossa. Beatrice Di Maio ha un account su twitter con migliaia di follower dal quale spara a zero, anzi a meno cinque, sul governo e su Mattarella. Spara così basso che uno dei braccini destri di Renzi, Luca Lotti, l’ha denunciata alla procura della Repubblica di Firenze. Beatrice non si sa se esiste ma è al centro di un network per la produzione di notizie false spesso a sfondo diffamatorio che non coinvolge solo i suoi follower ma si inserisce in una struttura di diffusione virale disegnata ad arte per raggiungere milioni di persone. Tanto ad arte da far pensare che dietro vi sia una organizzazione strutturata e non una semplice militante dall’evocativo cognome pentastellare.

Per chi come me fa giornalismo e comunicazione da decenni e per mestiere deve aggiornare la sua idea di come gira l’informazione, è necessaria una riflessione. La mia riflessione nasce dall’esperienza nelle gestione delle crisi in cui spesso le notizie fasulle sono alla base della propaganda di alcuni gruppi politici o di interesse ostili, secondo il vecchio schema che a ripetere le cose mille volte diventano vere.

La moltiplicazione delle fonti dei messaggi consente a tutti noi di accedere in modo continuativo a informazioni che non mettono più in discussione le nostre convinzioni come accadeva leggendo i giornali. Possiamo leggere con facilità solo cose che le confermano. Possiamo leggere in continuazione notizie false che diventano vere perché trovano facilmente spazio su Facebook, Google o attraverso account creati ad arte da professionisti della menzogna o della diffamazione. 

Le notizie false sono l’esempio più clamoroso, ma c’è anche il semifasullo o il quasivero che hanno un comportamento analogo in rete e la capacità di cambiare atteggiamenti e modificare le scelte. 

Se Facebook e Google si sono posti il problema è bene che ce lo poniamo anche noi, come persone e come imprese.

Come dobbiamo comportarci davanti a flussi di informazioni non controllati e gestiti da organizzazioni capaci di sfruttare i social per raccontarci bugie? La difesa non basta, anche perché è inevitabilmente passiva. Spesso non siamo in grado di discriminare il vero dal falso, soprattutto quando il falso diventa opinione comune perché siamo tutti conformisti, è biologicamente inevitabile. Allora servono le regole ma se non si riesce nemmeno a far pagare le tasse ai colossi dei social figuriamoci imporgli delle regole nuove. Dobbiamo fare in modo che le regole se le pongano da soli perché più convenienti per loro, se vogliamo essere pragmatici. Una di queste regole potrebbe essere ridare ai professionisti dell’informazione un ruolo che con internet è andato in gran parte perduto.

Giusto ieri è entrata in vigore la legge che regolamenta le testate online equiparandole a quelle stampate. E’ una questione non solo di forma (le testate online esistono da sempre) ma è un binario importante per differenziare quello che viene fatto in rete da professionisti sottoposti a regole e quello che attiene il semplice diritto alla libertà di espressione. Potremmo ipotizzare un bollino sulle notizie verificate perché pubblicate da un giornale che deve sottostare alle norme e alla deontologia (in un panorama editoriale che va dal Fatto Quotidiano a Libero non ci garantiremmo dalle bufale ma almeno sapremmo chi le diffonde e come rivalerci). 

Le aziende potrebbero poi essere messe nelle condizioni di avere vantaggi nell’affidare la gestione della comunicazione a giornalisti che devono sottostare alle regole deontologiche. Questo è già così per la pubblica amministrazione (almeno in teoria) e spesso lo è per le grandi aziende. Ma in rete a ottenere la massima diffusione non è la qualità della fonte ma la tecnica di gestione degli algoritmi. Di Maio (Beatrice) insegna.

I fatti di questi giorni ci dicono che il giornalismo sottoposto a regole finalizzate al rispetto e al vantaggio comune non è morto ma può essere una risorsa per ridare un po’ di dignità e verità a un mondo della comunicazione in piena anarchia. Con vantaggi e credibilità per le imprese oneste.


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