Software Engineering Foundations 1st Edition Yingxu Wang
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Author(s): Yingxu Wang
ISBN(s): 9780849319310, 0849319315
Edition: 1
File Details: PDF, 12.02 MB
Year: 2007
Language: english
27. laboratorio, il seminario filologico; in ogni caso, un istituto con
proprio indirizzo, il quale nulla ha più oggi di simile, ma in cui lo
studio e l’istruzione venivano praticati con l’antica indipendenza da
ogni stereotipia burocratica.[65]
Il Museo era stato fondato dai primi due Tolomei, e, finchè questi
vissero e governarono, la monarchia egiziana si era addossato il
carico del suo mantenimento e della sua amministrazione, come quei
sovrani, il diritto di nominarvi gli scienziati e i letterati, che avrebbero
avuto a farne parte, ad esservi alloggiati e mantenuti, nonchè quello
di mettervi a capo persona di loro nomina e di loro fiducia. I suoi
locali si trovavano anzi nel cuore del Palazzo reale, e la politica dei
Tolomei era stata così sottile da imporre, a quel massimo fra
gl’istituti di cultura del regno, la sovrintendenza, non già di un dotto,
ma di un uomo politico e straniero per giunta, un greco, come greci
erano i dominatori[66].
Ma i mezzi indiretti di addomesticamento e di coercizione usati dai
Tolomei non furono questi soltanto. L’inframmettenza del Re giunse
talora fino a sospendere, e pei motivi più futili, lo stipendio dei dotti
del Museo[67]. Gli è perciò che un poeta satirico chiamava il Museo,
anche quando esso era nel suo periodo migliore, non il tempio, ma
«la gabbia» o «la stia delle Muse,»[68] intendendo significare con
questo che i costosi volatili, nudriti in quella reale uccelliera, non
avevano precisamente agio di cantare in qualunque tono avessero
voluto.
Se dunque la politica dei Tolomei non aveva imposto una filosofia,
una storia e una poesia ufficiale, aveva fissato, per tutte queste
discipline, dei limiti invalicabili, aveva reso loro necessaria una
speciale tournure, che, nella storia della letteratura greca, ha ben
una denominazione particolare, l’alessandrinismo, e quegl’illustri
pensionati regi sarebbero stati male ispirati, ove si fossero accinti a
dissertare sul miglior governo possibile, a discutere gli atti del
sovrano, a scriverne la storia con imparzialità, a mettere in questione
gli Dei e, più specialmente, quel culto dei sovrani, che mai forse i
Greci erano riusciti a pigliare sul serio.[69].
28. Or bene, estinta la casa dei Tolomei, costituito l’Egitto in provincia
romana, gl’imperatori del mondo avrebbero potuto interrompere le
liberalità e la politica dei predecessori, avrebbero, come faranno i
principi cristiani, nei riguardi di altri famosi istituti d’istruzione
pubblica, potuto abbandonare alle sue sole risorse la vita del Museo,
avrebbero magari, nella migliore ipotesi, potuto continuare
automaticamente, svogliatamente, l’antica tradizione. Viceversa,
Augusto volle che l’impero avesse per il Museo alessandrino le stesse
cure della monarchia tolomaica. Egli ne addossò al pubblico tesoro il
gravame del mantenimento, e, come i Tolomei, aggiunse la carica e
il nome del sovrintendente del Museo al non breve elenco dei grandi
funzionari imperiali. Anzi, quasi non gli bastasse la diretta influenza,
che egli avrebbe potuto esercitare su quel funzionario, in un paese,
ove il carattere della amministrazione imperiale fu sempre così
strettamente personale, la sovrintendenza del Museo rimase uno dei
pochi ufficii della provincia d’Egitto, del cui titolare l’imperatore volle
riserbata a se stesso la nomina[70]. Una sola modificazione venne
apportata dal nuovo governo, modificazione, che ci è, in modo
positivo, testimoniata relativamente tardi,[71], ma che si deve
presupporre datante da quei primi anni: a sovrintendente supremo
del Museo non fu più scelto un greco, ma un romano.
Gl’intendimenti politici, che avevano guidato i Tolomei in quel campo
della loro politica, continuano dunque ad ispirare adesso, con ugual
metro, gl’imperatori romani, i quali appaiono consapevoli della
gravità dei motivi, che li determinavano. Ed essi non ristanno dal far
gravare sul più notevole centro della produzione intellettuale di quel
tempo l’uggia di quell’invisibile trama di lacci d’oro, fatta di
protezione scientifico-letteraria, ma in pari tempo di inquisizione
politico-religiosa, che era stata così mirabilmente intessuta dai
Tolomei.
IX.
29. Dal primo imperatore di casa Giulia, fino a Nerone, l’incuria del
governo romano verso l’istruzione pubblica fu certamente assai
grave. Anzi — fenomeno interessante poichè riguarda uomini
differentissimi per indole, per attitudini politiche e per metodi di
governo — dopo Augusto, la politica imperiale, nei rispetti della
istruzione, tornerà a farsi valere soltanto con Nerone.
Dell’opera di Tiberio, noi abbiamo a ricordare soltanto l’istituzione di
una terza biblioteca nel così detto Nuovo tempio di Augusto[72],
giacchè l’elevamento al grado di senatore, avvenuto, durante il suo
governo, di un maestro elementare, un semplice litterator, non fu
certamente segno delle buone disposizioni dell’imperatore verso i
rappresentanti la scuola primaria, ma soltanto del favore del suo
ministro Seiano verso un disonesto[73].
Di Caligola si può ricordare il periodico concorso di eloquenza greca
e latina, da lui istituito, verso il 39 o 40 di C., a Lione, e che vi si
celebrava alla ricorrenza annua del concilium delle Gallie, intorno
all’Ara, sacra al culto di Augusto, ed era periodica occasione di
convegno dei retori di tutto il paese[74].
Forse più degna di nota, è, nella sua modestia, l’opera
dell’imperatore Claudio.
Claudio fu solo tra gli imperatori romani a concepire un disegno, che
arieggiasse alla lontana il pensiero dei remoti Tolomei nel fondare il
Museo alessandrino. All’antico egli aggiunse un nuovo collegio di
dotti, che installò in un secondo Museo, il quale dovette elevarsi nel
quartiere, che si diceva di Rhacotis, o, come il Museo tolomaico, in
quello del Bruchion — i soli occupati dai Cesari e dai loro
luogotenenti — e che prese nome dal principe, che ne era stato il
fondatore[75].
Sulle particolarità della nuova fondazione noi sappiamo assai poco, e
assai poco, quindi, sui suoi rapporti di somiglianza e di differenza
dalla precedente. Pare però che la prima origine debba ricercarsene
nel seguente fatto.
30. Aveva Claudio scritto venti libri di storia degli Etruschi e otto di storia
dei Cartaginesi. Or bene, la principale clausola, ch’egli impose ai
membri del sodalizio beneficiario del nuovo Museo, fu la pubblica
lettura annua, in giorni stabiliti, della sua duplice istoria. Ma questo
compito non fu loro speciale, chè obbligo analogo Claudio impose ai
loro colleghi dell’antico Museo alessandrino, sì che gli uni e gli altri
avrebbero dovuto leggere, nei rispettivi locali, alternativamente e ad
epoca fissa, i suoi 20 libri della Storia degli Etruschi e gli 8 della
Storia dei Cartaginesi[76].
Tale originario intendimento si ricollega alla usanza delle letture
pubbliche, assai diffusa in Roma in quel tempo, e, sotto tale aspetto,
il Museo Claudio avrebbe potuto definirsi l’auditorium alessandrino
delle recitazioni imperiali. Ma questa consuetudine, voluta da un
principe romano in un istituto suscitato in mezzo ai dotti di
Alessandria, conteneva il germe di una notevole innovazione. C’era
anzi tutto, fin da ora, in Alessandria, un nuovo Museo e una scuola
rivale dell’antica; poi l’eccitamento ad ambedue di occuparsi, ed in
maniera speciale, di studi e di ricerche storiche. E di quale storia! La
storia delle due più grandi nazioni dell’evo antico vinte e soggiogate
da Roma; la storia dell’Etruria, madre di buona parte delle istituzioni
primitive di Roma, e patria di una grande religione e di un’altrettanto
grande civiltà; la storia di Cartagine, che tutto aveva colonizzato
l’Occidente e dato vita a tanta parte della sua storia futura. L’Etruria
e Cartagine riconducevano all’Oriente e alla Grecia. Le opere
dunque, e le innovazioni di Claudio, aprivano il più vasto campo
possibile alle investigazioni del passato e facevano, dei due Musei,
due speciali seminarii di storia e di antichità classiche ed orientali.
Era facile prevederlo: negli anni di poi, i dotti dell’uno e dell’altro non
si sarebbero più limitati alla lettura in pubblico delle opere
dell’imperatore, ma avrebbero intrapreso, in giorni determinati, la
lettura di opere proprie, frutto di lungo e difficile lavoro.[77]
L’oscurità grande, che incombe sulle sorti future del Museo Claudio,
non ci dà agio di determinare fino a qual segno le speranze del
principe e dei suoi consiglieri siano state esaudite. Certo si è che
un’indicazione, posteriore di ben due secoli, non solo ce lo mostra
31. ancora in vita, ma già trasformato in sede di studio, in laboratorio
letterario e filosofico, con apposita biblioteca, nel quale cioè i suoi
dotti pensionati si occupavano di quegli studi misti di grammatica, di
retorica e di filosofia, tanto in voga in quel tempo[78].
Se non a tutti, il Museo Claudio rispondeva dunque al fondamentale
tra gli scopi dei Musei ellenici[79]. E appunto per questo non è
piccolo il valore della sua fondazione, nuovo segno delle cure della
politica imperiale verso l’istruzione pubblica nelle provincie.
X.
Ma per una di quelle apparenti anomalie, di cui anche l’impero
romano dà esempio, assai più grande fu, sulla istruzione, sulla
coltura, sulla educazione pubblica, l’influenza del governo del più
matto e del più feroce tra gli imperatori, Nerone. Come sempre, nelle
grandi monarchie assolute, così ora, ognuna delle molle della vita
della nuova aristocrazia imperiale, sparsa per l’Italia e per le
provincie, è retta dalle influenze della Corte e del principe. La Corte
reagiva sui costumi e su tutto il tenore della vita sociale. Le idee, i
gusti, le manie personali dell’imperatore, dei membri della sua
famiglia, dei suoi favoriti divenivano per essa regola e legge. Essa si
plasmava a immagine e somiglianza del principe,[80] e la propria
sembianza mutava, senza esitazione e senza riserbo, a seconda delle
mutazioni che in alto avvenivano. «Noi ci pieghiamo — scriverà Plinio
nel suo Panegirico a Traiano — per qualunque verso il principe
voglia; noi siamo in una parola i suoi imitatori. Noi vogliamo riuscirgli
graditi; noi ne desideriamo l’approvazione, che si spererebbe invano,
se se ne fosse diversi. E siamo giunti a tale continua e rispettosa
imitazione, che quasi tutti viviamo secondo i costumi di un solo».
«La vita del principe è una vera censura, una censura perpetua, che
è la nostra regola e la nostra mèta»[81].
32. La severità dei costumi della aristocrazia italica e provinciale, dopo
Vespasiano, è quindi un riflesso del nuovo regime della Corte
imperiale.[82] Il buon mercato a Roma va e torna coll’andare e col
tornare delle abitudini parsimoniose degli imperatori.[83] Come il
Nazareno moltiplica i pani, così Marco Aurelio moltiplica i saggi e i
filosofi.[84] I cibi favoriti dell’imperatore popolano le tavole dei ricchi,
il sistema dei suoi medicinali invade e dispare con la sua vita, con le
sue abitudini, col mutare anzi delle sue abitudini. I principi amanti
della musica fanno i musicisti; i principi amanti delle lettere, i
letterati; i principi amanti dell’agonistica, i ginnasti.
È chiaro perciò quale profonda influenza sulla coltura nazionale
doveva esercitare un monarca come Nerone, che volle apparire,
quale realmente non era, un intellettuale, e tanto amò di essere
imitato.
Già fin da Augusto era penetrata nella sezione occidentale
dell’impero la consuetudine, perfettamente greca, dei concorsi
poetici, e noi, sotto quel primo imperatore, come sotto Claudio, ne
troviamo istituiti, e celebrati, in Roma ed a Napoli.[85] Caligola —
vedemmo — aggiunse, alle gare poetiche, dei concorsi di eloquenza.
Nerone, conforme al carattere ellenizzante della parte più
intellettuale della sua politica, non poteva dimenticare, nè dimenticò,
questi ultimi, e uno dei punti del programma delle solenni Neronee,
da lui istituite nel 60 di C., furono le gare oratorie, a cui egli non
mancò di partecipare in persona.[86] Ma nè fu quella soltanto la
pubblica esibizione, che, della propria valentia, Nerone fece in
concorsi del genere,[87] nè altre solennità, celebrate sotto il suo
regno, dovettero mancare di questa specie di concorsi tanto
rispondenti alle personali velleità dell’imperatore[88].
Il fatto era stato straordinario, ma non meno inevitabile fu il contagio
dell’esempio. A tali gare partecipò buona parte degli aristocratici del
tempo[89]. Tutta l’attività, che i contemporanei della repubblica
avevano svolta nel foro e nei comizi, fu adesso impiegata nello
sforzo (ahi quanto spesso vano!) di conseguire la perfezione nell’arte
oratoria, e torrenti di eloquenza sgorgarono dalle mille penne e dalle
33. mille bocche degli aristocratici del tempo. E a Roma affluì nuova
ingente copia di maestri e di dottori di retorica, e le scuole
moltiplicarono, e l’incanto, che faceva ancora giudicare tale
professione tra le più umili, fu rotto, e molti di bassa fortuna salirono
al vertice della piramide sociale, e l’unico maestro senatore di Tiberio
vide moltiplicare i suoi colleghi sugli scanni del primo consesso del
mondo[90].
In maniera analoga, il fatto che Nerone aveva avuto una speciale
istruzione filosofica, che anzi l’aveva ricevuta da due stoici, il fatto di
un imperatore, che, dopo i pasti, si dilettava di assistere a dispute
filosofiche, più o meno sincere e calorose,[91] dette un considerevole
impulso alla cultura filosofica dell’aristocrazia romana, e, insieme con
gli oratori e coi retori, moltiplicarono i precettori di filosofia, le scuole
e l’amore della saggezza.
La grande copia di nomi di stoici, venuti in fama, a Roma, nell’età di
Nerone, e l’abbondanza e la precisione delle notizie ad essi relative,
che appaiono meravigliose al paragone degli anni precedenti, non
sono indice insignificante. Nelle case degli aristocratici si accolgono
circoli di filosofi, che divengono guide spirituali dei componenti
quella classe. Rubellio Plauto, già presso a morire, ascolta i consigli
di Cerano e di Musonio Rufo: Trasea Peto, in identiche condizioni,
conversa col cinico Demetrio; Barea Sorano ha maestro l’infido
Egnazio Celere[92].
Gli aristocratici mostrano così di avere ognuno nelle proprie case, un
saggio, un precettore di filosofia, mescolato alla lor vita intima,
consigliere in ogni repentaglio dell’esistenza[93]. E, come se questo
non bastasse, essi si recano a compiere studii più dispendiosi
all’estero, in Gallia, in Grecia, in Asia[94].
Dell’età di Nerone si tramandano per l’Italia nomi di scuole di
filosofia famose: quella di Anneo Cornuto, sui cui banchi sedevano,
fra gli altri, Persio e Lucano;[95] quella di Musonio Rufo,[96] quella di
Metronatte. Ed esse non sono soltanto popolate di giovani, sono
anche frequentate da persone di età matura[97].
34. Ma se riprova occorresse del fatto (che si dovrebbe, anche a priori,
assumere come non dubbio) del prodigioso incremento degli studi
filosofici dopo l’avvento al trono di Nerone — essa sarebbe
certamente la degenerazione dell’amore della filosofia nella moda,
nella mania della medesima,[98] e quella corruzione dell’ufficio e del
ministero dei maestri, che, flagellata più tardi dai poeti satirici,[99]
maturava già fin dagli anni del principe lottatore, oratore e filosofo,
[100] e che, come ogni corruzione, era segno di raggiunta pienezza
di sviluppo.
XI.
Di così improvviso rigoglio di studi di retorica e di filosofia era stato
artefice Nerone. Ma io sono fermamente convinto che a lui, ed a
questo tempo, si debba ricondurre un assai notevole provvedimento
legislativo, che sarà più tardi constantemente ripetuto dagli
imperatori romani. Intendo accennare alle immunità largite ai
pubblici docenti. Un passo del Digesto infatti, discorrendo di una
concessione di Vespasiano e di Adriano, parla di magistri qui civilium
munerum vacationem habent[101]. L’esenzione aveva dunque dietro
di sè una consuetudine. Ma questa non era stata certamente iniziata
da nessuno degli imperatori, che regnarono fra Augusto e Nerone, e
in questo convincimento ci induce anche una superficiale conoscenza
della loro politica e delle loro cure. Che vi abbia dato principio
Augusto è possibile, non probabile, chè altrimenti o ne avremmo
menzione in quella autobiografica rassegna dei più cospicui fra gli
atti di lui, che fu il Monumentum Ancyranum, o troveremmo tanta
innovazione esaltata dai suoi numerosi apologisti, per lo meno a
proposito dell’analoga immunità da lui concessa ai medici.
Se quindi escludiamo dalla nostra considerazione Augusto, l’unico,
tra questo principe e Vespasiano, su cui sia lecito soffermarsi, può
essere solo Nerone, il grande protettore degli esercizi di retorica, il
discepolo di due filosofi, di cui uno era a sua volta figlio di un retore,
35. e fu il consigliere e l’ispiratore di una buona parte della politica
imperiale. Onde a Nerone io penso si possa con tranquilla coscienza
ricondurre l’origine di una consuetudine di governo, che, salvo lievi
variazioni, dominerà tutta la politica scolastica dello impero, la
consuetudine — dico — di largire ai maestri di grammatica, di
retorica, di filosofia, quanto Augusto, aveva largito ai medici nella
esultanza della convalescenza: la immunità dai carichi pubblici e
dalle pubbliche funzioni.
Tale concessione del governo romano non fu esclusivo privilegio
delle su citate categorie di professionisti, nè può dirsi ch’essa, per
ora, sia più che ai suoi inizii. Man mano che la costituzione politica e
l’organismo fiscale dell’impero si rinsalderanno, la teoria delle
immunità riceverà sempre più larghe applicazioni per divenire, negli
ultimi secoli, una delle molle necessarie al funzionamento dello stato.
Essa infatti consisteva nell’eccitare gli individui di determinate classi
a fornire alla società l’opera loro (di cui questa aveva assolutamente
bisogno) in cambio della esenzione di una, più o meno larga, serie di
oneri, gravanti sul resto dei cittadini. Fra codesti oneri rientrano poco
a poco le pubbliche funzioni, gli honores, i quali così vanno via via
assumendo il carattere di munera, imposti dallo stato ai suoi sudditi,
per fini a lui propri — quali che possano essere i sentimenti e le
convenienze dei sudditi stessi — il che veniva a sancire
quell’assimilazione dell’honor al munus, che fu certo uno dei tratti
più caratteristici del diritto pubblico nell’impero romano[102].
Or bene, tra le categorie di persone, di cui lo stato fin d’ora dichiara
di avere assoluto bisogno ed a cui offre, in ricambio dei loro servigi,
l’esenzione di parecchi carichi, sono i ministri del pubblico
insegnamento, dichiarato così anch’esso — implicitamente —
funzione essenziale della società e della vita civile.
Abbiamo noi mezzo di stabilire fin d’ora la portata ed i limiti di quella
esenzione? Quali tra i professionisti dell’insegnamento ne godettero?
Da quali carichi andarono essi esenti?
36. Il Digesto, riferendosi all’età, che precede Adriano e ai magistri, che
allora godevano della vacatio civilium numerum, ne specifica[103] le
varie categorie in medici, grammatici, oratores (cioè: retori) e
philosophi. I maestri elementari, i litteratores, sono quindi, fin
d’adesso, come, per regola generale in seguito, esclusi da ogni
immunità. Viceversa, il beneficio non dovette limitarsi solo a Roma.
Se Augusto aveva privilegiato tutti i medici esercenti dell’impero, i
privilegiati d’adesso non avrebbero potuto essere soltanto romani, o,
se così fosse stato, se cioè la riconferma del privilegio avesse
contenuto qualche restrizione, lo si sarebbe certamente dichiarato.
Questa considerazione è ribadita dalla parola stessa del Digesto: «Il
Divo Vespasiano e il Divo Adriano — s’esprime un giurista —
dichiararono in un rescritto che agli insegnanti, i quali hanno
l’immunità dai pubblici oneri, e cioè i grammatici, i retori, i medici e i
filosofi, gli imperatori avevano implicitamente largito l’esenzione
dall’obbligo di hospites recipere[104]». E altrove: «È inserito nelle
costituzioni dell’imperatore Commodo il passo di un’epistola di
Antonino Pio, nel quale si dice che anche i filosofi sono esentati
dall’obbligo della tutela. Le parole son queste: — Del pari a tutti
costoro il Divo mio padre, salendo al trono, con una costituzione
confermò i precedenti onori e le preesistenti immunità, sancendo che
i filosofi, i retori, i grammatici ed i medici sono esenti dalla
ginnasiarchia, dalla agoranomia, dai sacerdozii, dall’obbligo della
ospitalità, dall’obbligo della sitonia e della elaionia, e che non
possono essere costretti a fungere da giudici o da ambasciatori, o a
prestar servizio militare, o a sottostare a qualunque altro carico —
»[105].
Una così ampia e universale concessione di immunità, che, come si
dichiara, precede Adriano e Vespasiano, mentre da un lato ribadisce
la interpretazione che le immunità ai magistri dovettero varcare la
cerchia delle mura di Roma e i confini d’Italia, assicura eziandio
dall’altro che esse furono comuni a tutti i restanti paesi dell’impero.
37. XII.
Ma l’epistola di Antonino Pio ci dà anche l’elenco degli oggetti, su cui
queste immunità ai magistri vertevano prima di Adriano, e (noi
possiamo pensare) vertevano a un di presso sin dalla loro origine.
I grammatici, i medici, i retori e i filosofi erano, secondo la parola
della costituzione riconfermata da Adriano, esenti dall’ufficio: 1) di
γυμνασιαρχοι 2) di ἱερεῖς; 3) dall’obbligo della ἑπισταθμία; 4)
dall’ufficio di σιτῶναι, 5) di ἐλαιῶναι, 6) di κριταί, 7) di πρέσβεις, 8)
di στρατιῶται e da ogni altro carico di qualsiasi genere[106].
Non sarà male, piuttosto che tradurre verbalmente, chiarire,
specificando, l’importanza di ciascuna di codeste esenzioni.
L’espressione gymnasiarchia ci richiama anzi tutto al mondo greco.
Ivi, nel periodo classico, essa era stata una liturgia, forse
identificabile con la lampadodromia,[107] e tale rimaneva ancora, nel
periodo romano, non ostante avesse, qua e là, assunta la forma di
magistratura. Perciò il gymnasiarca offriva agli efebi vesti, forniva
olio per il ginnasio, dedicava stabilimenti di bagni, accudiva alla
celebrazione di sacrifici e di festività, acquistava le vittime all’uopo
richieste, provvedeva all’allestimento dei banchetti, che seguivano i
sacrifizi, costituiva a sue spese il fondo per i premi richiesti dai vari
concorsi, innalzava pubbliche costruzioni. Era dunque il suo, specie
se, come talora avveniva, si cumulava con quello di agonoteta, un
ufficio terribilmente dispendioso[108].
Ma il concetto di gymnasiarchia, contenuto nel paragrafo del
Digesto, che qui interpretiamo, non può, come talora è stato fatto,
[109] riferirsi specificatamente alla liturgia o alla speciale
magistratura greca, che portava codesto nome. Deve invece riferirsi
alla cura in genere dei pubblici spettacoli, a quel ludorum publicum
regimen, che, nel mondo greco, spettava, come abbiamo visto, al
gymnasiarca; in Roma, nell’età imperiale, al pretore[110]; nei
rimanenti municipii, agli edili;[111] o, nell’una e negli altri, a
curatores speciali[112]. E quanto gravoso fosse codesto onere si può
38. convincersene, rammentando che in Roma erano proverbiali i
dispendii, a cui gli edili soggiacevano, durante la celebrazione di
determinate festività, e che assai spesso i magistrati desideravano
andarne esenti.
L’ἀγορκνομία è una magistratura notissima nel mondo greco ed
ellenistico. Ma la nostra fonte giuridica, se si esprime in greco, non si
riferisce unicamente al mondo ellenico, sibbene, al solito, rende, con
la parola greca, un concetto, che, negli altri municipii, specie in
quello di Roma, corrispondeva a magistrature rette da funzionarii,
che portavano altri nomi.
L’edile della repubblica romana era stato infatti per eccellenza
agoranomo: aveva sempre provveduto a che i viveri, specie il
frumento, non subissero rincari esagerati, aveva impedito, e
mitigato, anche con largizioni proprie, gli effetti delle carestie,
sorvegliato i pesi e le misure. Nell’età dell’impero, l’ufficio di curator
dell’ànnona in Roma, era stato assunto da speciali magistrati, ma nei
municipii italici esso era, di regola, rimasto còmpito precipuo
dell’edile[113].
Anche il sacerdozio (ἱεροσύνη) rientrava, come i due uffici
precedenti, nella categoria degli honores. Nell’impero romano
esistettero sacerdoti urbani e sacerdoti provinciali. Ma quell’onore si
traduceva, pur troppo, in un vero e proprio carico patrimoniale,
giacchè chi lo rivestiva soggiaceva a pesi determinati, all’obbligo di
donativi in danaro per pubblici edifici, e l’ufficio aveva rapporti
molteplici e costosi con i giuochi dei gladiatori e con le cacce degli
animali feroci[114].
Viceversa, l’ἐπισταθμία era un carico esclusivamente patrimoniale.
Essa consisteva nell’obbligo dei proprietari di case di ospitare, a
turno, magistrati e funzionari, viaggianti o in missione, insieme con il
loro seguito, a cui bisognava pure fornire alloggio, letti, legna, sale,
fieno per le bestie[115]. E, se si fosse trattato di hospitium militare,
tutti indistintamente gli abitanti di un paese sarebbero stati tenuti a
fornire, ai soldati in marcia, alloggio, fuoco e quanto costoro
avessero potuto chiedere o desiderare[116].
39. Le rimanenti immunità riguardano dei munera personarum. Le
σιτωνίαι e le ἐλαιωνίαι (emptiones frumenti et olei) si riconnettono al
problema della cura dell’annona urbana, che fu tra i più tormentosi
dell’antichità. Si trattava di fare delle grandi provviste di grano e di
olio pei bisogni del mercato, in parte con le entrate dello Stato, in
parte con volontarie contribuzioni. Delle prime venivano, in Grecia,
incaricati appositi magistrati, i σιτῶναι, una delle cariche del paese
più onorifiche e delicate;[117] delle seconde, gli ἐλαιῶναι[118]. Nei
municipii non ellenici si curano di ciò per adesso gli edili; più tardi, vi
troveremo addetti appositi curatores[119].
L’ufficio di κριτὴ (munus iudicandi) corrispondeva all’esercizio delle
funzioni di giudice (iudex, recuperator) nei processi civili. Finalmente
il πρεσβεύειν (munus legationis) era l’obbligo della legatio, cioè di
assumere la carica di legatus delle varie città presso l’imperatore, il
senato, i patroni residenti in Roma; e l’εἰς στρατείαν καταλέγεσθαι
(munus militiæ) corrispondeva a l’obbligo di soggiacere al servizio
militare, tanto per conto dello stato come dei municipii[120].
Da tutti questi onori e da questi carichi venivano adesso esentati i
docenti di arti liberali. Ma, nonostante così ampio esonero,
l’immunità dei privilegiati non si sarebbe potuta dire completa. Noi
sappiamo infatti che altre categorie di sudditi godevano esenzioni da
altri numerosi gravami[121], di cui, a proposito dei maestri, non si fa,
nei documenti che abbiamo riferito, specificatamente parola. Onde
l’autore della su citata costituzione Adrianea sentiva il bisogno di
completarne il dispositivo, chiudendo con l’ampia dichiarazione di
esonero da qualsiasi altro carico, dando così alla concessione quel
carattere di universalità, che vi sarà concordemente riconosciuto dai
giuristi maggiori dell’evo imperiale[122].
La liberalità dello Stato non poteva essere più completa. Il linguaggio
ufficiale degli anni successivi definirà questa come una immunità
realmente illimitata[123]. Ma il suo merito non risale, come a
un’indagine superficiale potrebbe apparire, ai principi dell’ultima,
sibbene a quelli della prima età dell’impero, al paragone dei quali i
successori non procederanno sempre nella via delle larghezze.
40. Ci rimane a rispondere a un’ultima domanda: Quale fu l’ampiezza
cronologica, che l’imperatore volle donare alle sue immunità? Si
limitavano esse ai professionisti viventi sotto il suo regno, o anche ai
futuri?
Su ciò — per ora — non può illuminarci che l’analogia della immunità
concessa ai medici da Augusto, che riguardò esplicitamente, non
solo i viventi, ma anche gli altri che sarebbero sopravvenuti[124]. Era
veramente un impegnare un po’ troppo l’avvenire, e le conferme,
che i successori riterranno opportune, e le limitazioni, ch’essi vi
arrecheranno, sono prova sicura del fatto che, se nella ingenua, o
buona, volontà di ciascuno dei largitori il beneficio non doveva aver
limiti di tempo, nel concetto dei principi successivi, le liberalità
concesse erano in vigore solo fino al giorno, in cui non fossero state
abrogate o confermate[125].
XIII.
Abbiamo nel paragrafo precedente discorso delle immunità dei
grammatici, dei retori e dei filosofi, e abbiamo soggiunto che di
regola codesto privilegio non si estendeva ai maestri elementari, i
ludi magistri. Ed infatti il silenzio, serbato su di loro dai documenti di
questa prima età, ci verrà confermato da altri posteriori del secondo
e del terzo secolo, i quali dichiareranno come gli imperatori non
credano che le immunità debbano applicarsi agli insegnanti
primarii[126].
Tuttavia tale divieto risponde solo a una disposizione generalissima;
e, come la dispensa delle immunità conteneva clausole particolari,
rispondenti alle condizioni e alla natura dei singoli luoghi,[127] così le
sue norme generali potevano spesso, anche per volontà
dell’imperatore, subire delle gravi deroghe. È quello che noi troviamo
accadere a proposito dei ludi magistri. Si davano infatti dei casi, in
cui anche questi docenti erano, per volontà imperiale, dichiarati
41. immuni da determinati oneri. Ce ne informa una delle scoperte
epigrafiche più importanti, la così detta Tabula Vipascensis, una
iscrizione latina del Portogallo, nella quale, per esprimerci nei termini
più generici, si regolavano le cose del distretto minerario di
Vipascum, appartenente al fisco imperiale, e si fissava l’ordinamento
del borgo formatosi intorno al territorio della miniera.
Or bene, in uno dei capitoli di detta legge, è stabilita l’immunità dei
ludi magistri del borgo[128].
A noi importa mediocremente la cronologia del documento. Lo si è,
dai suoi editori, con sorprendente unanimità, pensato della fine del I.
secolo di C., ma può dirsi che un argomento convincente a favore di
questa cronologia non esista. Si erano invocati la paleografia e lo
stile[129]. Ma, quasi non bastasse la nota scarsa sicurezza, che indici
del genere offrono, specie a proposito di documenti ufficiali, è
sopravvenuta la scoperta di un nuovo regolamento minerario della
stessa località — forse uno dei frammenti, che ancora si
attendevano, dell’epigrafe vipascense — in cui, non ostante l’identità
della grafia,[130] la datazione è sicura: il governo di Adriano.
Ma la Tabula Vipascensis non contiene l’originale di un contratto
intercesso tra il fisco e una compagnia di appaltatori; è invece la
forma generale, il tipo tradizionale dei capitolati dell’appalto delle
miniere[131]; per cui rimane esclusa ogni possibilità di assegnare a
quelle norme generiche una definitiva cronologia. Gli è per questi
motivi che noi non esitiamo a discorrere fin d’ora della epigrafe e
delle disposizioni, che vi si contenevano relative ai ludi magistri,
preferendo collegarle con tutta la materia delle immunità, di cui
abbiamo precedentemente trattato.
Il testo dunque è — verbalmente — chiarissimo: «ludi magistros a
procuratore metallorum immunes ess(e placet)». E che vi si trattasse
delle consuete immunità dai munera civilia e pubblica, o, almeno,
soltanto dai primi, era stato ammesso da tutti gli studiosi della
epigrafe[132]. Ne aveva dubitato uno solo, il quale aveva sospettato
si trattasse, non della immunità a muneribus, sibbene della sanzione
42. di una indipendenza dei ludi magistri dalla autorità straordinaria e
speciale del distretto minerario, il procurator metallorum, per cui i
primi non avrebbero potuto essere citati dinnanzi al tribunale del
procuratore, ma solo a quello dei giudici ordinarii. Tale significato
della frase della legge egli trovava eziandio in un passo di
un’orazione di Cicerone (Pro Font. 12, 27). E forse — aveva ancora
opinato — il fisco, redigendo il modulo di concessione, che
costituisce la materia dell’epigrafe, aveva voluto eccettuare
l’insegnamento elementare dal monopolio, cui erano soggette altre
professioni, esercitate nel distretto, quella di calzolaio, di barbiere, di
lavandaio, di banditore, di proprietario di bagni etc. etc.[133]
Noi dobbiamo dichiarare che, se anche tali sospetti e tale
interpretazione fossero legittimi, ci troveremmo del pari dinnanzi a
un atto notevole, compiuto dall’autorità imperiale nei riguardi degli
insegnanti elementari, atto, che, per gli scopi del nostro studio,
avrebbe importanza pari alla concessione della consueta immunità a
muneribus. Se non che, a chi ben guardi, quell’ipotesi non è la più
probabile.
Anzi tutto, i casi di analogie, citati dal nostro critico, non hanno il
valore che egli vi pretende. Nella orazione Pro Fonteio, Cicerone
esprime un concetto affatto diverso di quello che si richiederebbe,
giacchè ivi dice soltanto, e nei termini più generali, che la Gallia
vedeva nella rovina di Fonteio «quasi la propria immunità e la
propria libertà.»[134] Ma, come che sia, per la esenzione
dell’insegnamento elementare dal monopolio, cui altri impieghi
soggiacevano, non vi era punto bisogno di un capitolo speciale
dell’epigrafe. Bisognava soltanto non farne menzione, chè la lex
Vipascensis non istabiliva un monopolio universale, ma un monopolio
per mestieri e per professioni determinate.
Quanto poi alla supposta esenzione dall’autorità del procurator
imperiale, sfugge a noi ogni motivo del privilegio conferito ai ludi
magistri e — quel che più importa — soltanto ad essi. Il procurator
fa a Vipascum le veci dell’autorità municipale[135]. Perchè mai
43. dunque la esenzione dei ludi magistri, e di loro soltanto, dalla sua
giurisdizione?
Ci pare dunque assai preferibile l’interpretazione, più comune, di una
esenzione a muneribus. Ma si trattava di esenzione dai carichi
comunali o da tutti i carichi pubblici imposti dallo Stato? È probabile
che, su questo punto, una esenzione limitata ai primi risponda
maggiormente a verità.[136] Una immunitas a procuratore
metallorum deve più probabilmente riguardare soltanto i carichi
dipendenti dalla autorità del procuratore, e, in tal caso, solo i
munera civilia, i carichi comunali, che quegli imponeva in virtù degli
stessi diritti, per cui, nei municipii, li imponevano la curia e i
magistrati locali.
Noi veniamo intanto a sapere che una di quelle condizioni speciali,
che spingevano il governo ad accordare ai maestri la immunità dai
pubblici oneri, quella immunità, che ad essi di regola non si largiva,
era la singolarità dell’aggregato sociale, tra cui si sarebbe desiderato
si svolgesse l’opera loro. Nel distretto minerario di Vipascum, s’era
formata, o si sarebbe andata formando, una popolazione composta
dei minatori e delle loro famiglie, che il bisogno o l’allettamento del
guadagno avrebbe potuto stabilmente trattenervi. Per creare questa
condizione di cose, da cui appunto dipendeva la vita della miniera,
occorreva offrire, più che fosse possibile, sicuramente ed a buon
mercato, qualcuno dei più importanti servizii. Il desiderio di
raggiungere tale scopo avea fatto creare dei monopolii, che da un
lato garantivano la bontà del servizio, dall’altro la suscettibilità del
consumatore contro pretese eccessive.[137] Queste stesse cause e
queste stesse preoccupazioni davano origine al privilegio in favore
degli insegnanti elementari, i quali, in quella rara oasi, avrebbero
trovato quella esenzione a muneribus, che, soli fra i pubblici docenti
dell’impero, ignoravano, e che li avrebbe fatti accorrere numerosi a
diffondere l’istruzione, ciò che precisamente lo Stato mirava a
conseguire.
Quello che accadeva a Vipascum doveva accadere in tutti i distretti
minerarii, che si trovavano in pari condizioni territoriali; doveva
44. accadere in tutte quelle circostanze, in cui gli agglomeramenti di
sudditi dello impero, su cui il governo aveva interesse di rivolgere la
sua attenzione, presentavano analoghi caratteri. Le fonti non ci
hanno specificato tutti i casi, in cui il provvedimento ebbe a ripetersi,
ma noi abbiamo, ugualmente, il pieno diritto di non presumere
isolata la franchigia dei maestri di Vipascum.
XIV.
Ma la impronta caratteristica, che il governo di Nerone lasciò nella
storia dell’istruzione pubblica, non si rintraccia nelle scuole primarie
o in quelle di retorica o di filosofia.
L’originalità del suo governo consistette invece nella introduzione di
una nuova forma di educazione fisica nel piano generale
dell’istruzione e della vita romana, non che il decisivo trionfo del
culto dell’istruzione musicale: due fatti, che reagirono contro
tendenze tradizionali, subirono discussioni e contrasti vivaci, e furono
tutta opera personale del principe.
Lo spirito dell’educazione fisica romana era stato in categorico
contrasto con quello dell’educazione fisica greca, e il costume
ellenico, che aveva fatto schiava e prigione Roma in tutti i gradi e in
tutte le forme dell’istruzione e della educazione intellettuale, era
rimasto irrimediabilmente escluso dai termini dell’educazione fisica.
Un frammento del De Republica di Cicerone rivela tutto l’orrore
romano contro l’educazione fisica a tipo ellenico, arte ch’era fine a se
stessa, suscitata da un desiderio di bellezza, che, come l’arte
propriamente detta, prescindeva da ogni altra considerazione.
L’esercizio a corpo nudo è, per il buon romano, una lesione del
fondamento stesso della vita morale e civile[138]. «Quanto non è
assurda, scrive Cicerone, l’educazione fisica dei giovani nei
gymnasia, quanto fatua la milizia degli efebi greci! A quanti contatti
e a quanti liberi amori non dà essa luogo!»[139].
45. L’uso degli esercizii fisici a corpo nudo avrebbe tratto i Greci alla
mollezza e al servaggio. «Erano stati — si pensava — i gymnasia e le
palestre a portare in copia nelle città l’inerzia e l’ozio, cattivo
consigliero, e la consuetudine della omosessualità, e la corruzione
dei giovani. Tutti dediti a dormire, a passeggiare, a regolare la vita e
i movimenti, i Greci avevano poco a poco abbandonato l’uso delle
armi, e, senza avvedersene, preferito essere agili e bei ginnasti,
anzichè opliti e cavalieri valenti»[140].
E come, per il buon romano antico, l’educazione fisica doveva
limitarsi, e subordinarsi, ai ristretti scopi della milizia e alle modeste
esigenze della sanità del corpo[141], per il romano più intellettuale
dell’età dell’impero, essa poteva al più, oltre che a questo,[142]
tendere a completare le qualità del buon oratore, regolandone i gesti
e i movimenti, aggraziandone l’attitudine e il passo, tramutandosi in
una chironomia[143].
Le riforme augustee nell’educazione dei giovani non avevano
derogato da codesti criteri. Era riserbato a Nerone sconvolgere, o
iniziare lo sconvolgimento, di tanto salda ideologia e di tanta
tradizione. «Nel suo quarto consolato, narrano Tacito e Svetonio,
consoli lo stesso Nerone e Cornelio Cosso, egli istituiva in Roma, per
la prima volta, una festa quinquennale, le cui norme furono appunto
ricalcate su quelle della corrispondente solennità ellenica»[144].
Furono queste le Neronee. Si ebbe perciò, per la prima volta, in
Roma, una solennità con gare di corsa di carri e di ginnastica, da
rinnovarsi ogni cinque anni, a spese, non più dei magistrati preposti
a quell’ufficio, ma dello Stato. E a tali concorsi — qui appunto
risiedeva la innovazione, fonte di tanto scandalo — avrebbero dovuto
partecipare, come vi parteciparono in grande copia, cittadini
dell’aristocrazia romana, spettatrice tutta la loro classe, che avrebbe
assistito al grande agone in costume greco.
La rara, periodica solennità richiedeva — ed era naturale —
l’addestramento e l’allenamento dei partecipanti al concorso. E
Nerone provvide, ed edificò in Roma, insieme con le sue terme, un
gymnasium, l’edificio, presso i Greci, sacro all’educazione e
46. all’allenamento fisico dei giovani, dei cittadini, degli atleti. E,
nell’inaugurarlo, distribuì graeca facilitate l’olio ai senatori e ai
cavalieri, segno indubbio degli scopi dell’istituto e delle classi sociali,
a cui, nel suo pensiero, veniva destinato[145].
Erano i primi passi, ma passi decisivi, verso quella glorificazione
dell’educazione fisica greca, che altri imperatori continueranno. Ne
era anzi la consacrazione ufficiale, ed è facile, dalle lamentele degli
scrittori contemporanei, o immediatamente successivi, intravedere
tutta la efficacia di quel tentativo. L’amore dell’esercizio fisico viene
infatti all’ordine del giorno. Nelle case, in locali appositi, dei maestri,
dei palaestrici — gente grossolana, che gli intellettuali del tempo
disprezzavano cordialmente, giacchè, a loro dire, passavano tutto il
giorno a ingollare vino, a ungersi di olio e a riversar sudore —
impartivano, come i retori e i grammatici, lezioni di ginnastica ad
uomini, ed anche, fin d’allora, a donne[146].
L’educazione fisica entra così a parte dei programmi di educazione e
di istruzione generale, e l’opinione comune tenta di collocarla a
fianco delle arti liberali, insieme con la filosofia, la grammatica, la
retorica[147]. Perciò essa ridesta tutta l’avversione dei conservatori
romani e alimenta largamente la protesta delle persone così dette
autorevoli[148].
Ma anche questa volta, così come contro più antiche recriminazioni,
il nazionalismo ebbe la peggio. E, nonostante le lamentele dei circoli
conservatori romani, l’amore dell’educazione fisica, regolata secondo
i criterii, cui si era ispirata in Grecia, sia pure inclinando verso quelle
forme, che costituiscono la sua degenerazione, come l’atletica e
l’acrobatica[149], nessuno, per lungo tempo, ebbe più mezzo di
svellere.
XV.
47. Quello che è a dirsi delle sorti dell’istruzione fisica, sotto l’ultimo
degli imperatori Claudii, non differisce — lo accennammo — gran
fatto da ciò che sarebbe a dire dell’istruzione musicale.
È noto come, già fin dal II. secolo a. C., la musica greca fosse
prevalsa assolutamente sulla romana, e come, fin da quel tempo,
lentamente, ma tenacemente, l’amore della sua cultura si
diffondesse per l’Italia romana[150]. È evidente in che alta misura il
nuovo regime imperiale dovesse favorire l’amore degli spettacoli
musicali e l’apprendimento delle discipline che vi si riferiscono. La
cresciuta ricchezza, la pace interna, lo sfarzo naturale delle corti
principesche, che le classi aristocratiche, avrebbero voluto imitare, il
contatto con nuove e antichissime civiltà e con società,
squisitamente dotate di senso musicale, tutto contribuiva a tale
risultato.
Come invero la conquista della Grecia aveva, nella società romana,
portato la diffusione della musica greca, così la conquista dell’Egitto
determinò in Occidente l’invasione del ballo e della musica
istrumentale alessandrina.
L’età di Augusto inaugura infatti l’êra delle pantomine, genere di
spettacolo ancora ignoto ai Romani, costituito da una schiera di
ballerini e da accompagnamento di canti corali e di musica
orchestrale, che di lì a poco occuperà nella vita antica lo stesso
posto, che nella nostra occupa l’opera[151]. Cotali orchestre dettero
man mano luogo a veri e propri concerti — pubblici e privati —
indipendenti da ogni rappresentazione teatrale, e fu questa una delle
grandi manìe della corte e delle case aristocratiche sin dai primi anni
dell’impero[152].
Alle rappresentazioni filodrammatiche ed ai concerti, gli imperatori
aggiunsero i concorsi musicali. A perpetuare il ricordo di Azio,
Augusto istituì a Nicopoli — nella Città della vittoria — gare di
musica, che presero regolarmente posto accanto ai quattro agoni
tradizionali. Lo stesso egli fece a Pergamo;[153] e a Roma, nel 17 a.
C., la celebrazione di quei ludi saeculares, dei quali — nel suo
pensiero — nulla più grande l’umanità aveva veduto e mai più
48. doveva rivedere[154], fu coronata da uno spettacolo prettamente
musicale, il Carmen saeculare, dettato da Orazio e cantato da un
coro di 27 fanciulli e 27 fanciulle romane[155].
Degli imperatori, che succedettero ad Augusto e dei principi di casa
Giulio-Claudia, parecchi protessero, e coltivarono apertamente, l’arte
musicale: Caligola, Tito, Britannico[156], Claudio; e i ludi saeculares,
celebrati da quest’ultimo, ebbero anche i trattenimenti musicali, che
avevano allietato quelli di Augusto[157]. Ma chi dà il maggiore degli
impulsi a quell’arte e alla sua cultura fu, come per altre cose,
Nerone.
Nerone non amava passare per dilettante, pretendeva essere un
artista di valore. Appena sul trono, chiamò il famoso citaredo Terpino
e studiò disperatamente canto e musica. Nel 59 si produce, come
poeta e come citaredo, nelle feste Iuvenalia, da lui istituite;[158] nel
60, bandisce i giuochi neroniani, le cui gare musicali formavano uno
dei punti più importanti del programma;[159] nel 64, a Napoli,
debutta in teatro, cantando sulla cetra una melodia greca, e il suo
entusiasmo, quel giorno, è tale da non fargli interrompere la festa,
neanche al sopravvenire di un terremoto[160]; nel 65, si produce in
Roma, nel teatro di Pompeo, nell’agone quinquennale da lui stesso
istituito[161]; nel 66, intraprende la sua grande tournée artistica in
Grecia, ove allieta, e onora, del suo canto Olimpia, Delfo, i giuochi
istmici[162]. E già, in fin di vita, fa voto di celebrare la vittoria contro
Galba con giuochi, in cui avrebbe suonato l’organo, la cornamusa,
cantato in coro e rappresentato per ultimo, in pantomima, il Turnus
di Virgilio.[163].
Quale fosse l’impulso, che Nerone e i suoi predecessori erano così
venuti a dare alla musica e alla istruzione musicale della gioventù,
noi lo possiamo constatare fin da questo tempo. Ci limiteremo a
fornire, fra le tante, qualche prova.
Nerone volle che i componenti l’aristocrazia partecipassero alle
rappresentazioni teatrali, come attori, e allorquando — narra un
contemporaneo alquanto misoneista — Nerone istituì i suoi
49. Iuvenalia, «tutti i cittadini indistintamente vi si inscrissero. Nè la
nascita, nè l’età, nè il riguardo di antichi onori rivestiti impedirono ad
alcuno di esercitare il mestiere di istrione greco o latino, e di
imitarne i gesti e i canti meno degni di uomini. Perfino delle donne
illustri per nascita si compiacquero esercitarsi in simili sconcezze».
«Di là si diffusero la sregolatezza e l’infamia, nè mai altra volta i già
corrotti costumi furono più gravemente sommersi in tanta vergogna.
[164]» E meditando, e rimpiangendo, sulla decadenza effettiva degli
studii filosofici, uno stoico, e non dei più rigidi, esclama: «Ma quante
cure invece perchè il nome di un qualunque pantomimo non perisca!
La dinastia dei Pilade e dei Batillo sta salda nei successori. Di queste
arti sono numerosi i cultori, numerosi i maestri. Ogni casa ha un
palcoscenico, e questo risuona continuamente di danze, a cui
partecipano, e in cui gareggiano, individui di ambo i sessi».[165]
Roma è già in questi anni invasa di frenesia per l’apprendimento
della musica, della danza, del canto, e ad essa, da ogni angolo della
Grecia e dell’Asia ellenizzata, affluiscono musici e virtuosi. Le scuole
di musica sono tra le più frequentate[166]. Eccellono per zelo le
signore dell’aristocrazia, e, allorquando l’autore dell’Apocalisse vorrà,
in quel tempo, lanciare, come il suo angelo, la peggiore delle
qualifiche contro la città maledetta, la definirà senz’altro città di
musicanti, di citaredi, di suonatori di flauti e di trombettieri.[167]
XVI.
Col nuovo grandioso impulso, dato da Nerone alla consuetudine della
ginnastica e alla passione della musica, si lega la sua riforma di
quelle associazioni giovanili, che erano state la gloria del governo di
Augusto, e di cui Nerone fu, tra i Claudii, il più felice diffonditore.
[168] È sopra tutto per loro mezzo che l’istruzione musicale e
l’educazione fisica, improntata ai criteri greci, hanno presa sulla
gioventù e penetrano vittoriose nel programma generale dei suoi
studi.
50. Noi abbiamo elementi per assicurare che l’organizzazione, fondata da
Augusto, era continuata non ingloriosamente sotto i successori fino a
Claudio. Caligola anzi aggiunge alle feste dei Saturnali un giorno, che
disse Iuvenalis, nel quale, naturalmente, dovevano aver luogo i ludi
iuventutis,[169] e dà giuochi, ai quali partecipava specialmente la
gioventù senatoria, con le note cacce, con il lusus Troiae.[170].
Altri dati, e non meno significativi, si riferiscono al governo di
Claudio.[171] L’istituzione, voluta da Augusto, è dunque salva. E noi
siamo anche sicuri che fin da questo tempo le associazioni giovanili
erano già uscite da Roma e penetrate in altre cittadine italiche,
specie nel Lazio.[172]
Ma in Nerone — vedemmo — all’amore per le gare ginniche si
accompagnava l’altro, ancora più ardente, per la musica e per le
rappresentazioni sceniche. I suoi esercizi fisici furono quindi tosto
sopraffatti dalla frequenza delle rappresentazioni musicali, e a
queste, cui egli partecipò direttamente, volle, per amore o per forza,
partecipassero anche quei iuvenes augustiani, quella guardia del
corpo, che, seguendo l’esempio delle corti ellenistiche, l’imperatore si
era formata tra i giovani tirones provenienti dalle due classi della
nobiltà romana[173]. Fu la circostanza, in cui si determinò il nuovo
indirizzo delle associazioni giovanili. E nel 53, cioè a dire nel giorno
della sua assunzione della toga virile, egli inaugurava i Iuvenalia. Il
loro nome rammenta Caligola e l’interesse di lui per l’antica
istituzione. In quello stesso tempo, nei municipii italici, il culmine
delle feste giovanili era precisamente il lusus iuvenalis, consistente in
cacce di fiere, gare di scherma e lotte nell’arena[174]. Nerone non
poteva fare, e non sembra abbia fatto, a meno di ciò;[175] ma per lui
gli esercizii sportivi non bastarono, ed egli vi aggiunse danze, canti a
solo, canti corali, non che rappresentazioni sceniche[176]. Nessuna di
queste cose poteva darsi senza un precedente tirocinio, e sorsero
quindi all’uopo apposite scuole preparatorie — scuole di musica e di
ginnastica — con speciali maestri[177]. Anche Nerone ebbe i suoi,
Seneca e Burro, che dovettero accompagnarlo sulla scena[178].
51. Com’è palese, l’indirizzo militare e civico, con iscopo patriottico e
contenuto religioso, della educazione augustea aveva deviato. E noi
ora veniamo invece a trovarci di fronte ad una educazione, tra
sportiva e teatrale, con contenuto e pura forma greca.
Più grave appare la deviazione dall’antico, pel fatto stesso che
Nerone, come abbiamo accennato, si formò, della organizzata
gioventù romana, una vera e propria guardia del corpo: se nella
prima parte della sua riforma può ben dirsi che egli seguisse un suo
più largo e nuovo ideale di educazione, nella seconda, egli realmente
indirizzava ad altri scopi le antiche associazioni giovanili, e questi non
costituivano più un organico sviluppo degli intendimenti della riforma
di Augusto.
XVII.
Innanzi di lasciare per sempre il governo di Nerone, è nostro debito
di storici rivendicare a lui alcuni altri atti, concernenti le sorti della
pubblica istruzione in Roma, che si sogliono in genere attribuire a
merito dell’ultimo imperatore Flavio, Domiziano, la ricostruzione cioè
e la ricomposizione di talune delle biblioteche, fondate dai precedenti
imperatori e perite nel terribile incendio del 64. Ed invero, se il così
detto Tempio nuovo di Augusto è già restaurato nel gennaio del
69[179], è quasi certo che codesta cronologia sia stata preceduta
dalla restaurazione della biblioteca, di cui Tiberio l’aveva
arricchito[180]. Anche anteriore è la riattazione del tempio ad Apollo,
[181] ed è probabilissimo che con esso Nerone abbia ricomposto
l’ancor più gloriosa biblioteca, che Augusto vi aveva aggregata. Ma
poichè gli istituti di tal genere, periti nel 64, non dovettero essere
quelli soltanto — la Biblioteca della Domus tiberiana, che sorgeva
anch’essa sul Palatino[182], non potè certamente sfuggire alla quasi
universale rovina — e, poichè questi ed altri accenni tendono a
dimostrare come Nerone abbia mirato a restaurare tutto quanto
l’incendio aveva distrutto, è lecito supporre che i suoi restauri non si
52. limitarono alla Palatina e alla Biblioteca del Tempio nuovo, ma
sovvennero anche le altre, che, nell’incendio del 64, avevano subito
una sorte egualmente infelice. Cosicchè Domiziano, di cui un
biografo[183] dirà avere egli avuto il grande merito di restituire le
biblioteche precedentemente distrutte, dovette esercitare la sua
liberalità verso quelle sole tra esse ch’erano perite negli incendi
avvenuti tra la fine del regno di Nerone e l’esordio del suo
governo[184].
XVIII.
Ci rimane a dire qualcosa dei rapporti intercessi, sotto gli imperatori
di casa Giulio-Claudia, tra lo stato e l’insegnamento della
giurisprudenza, già così evoluto e così prossimo alla ufficialità in sullo
scorcio della repubblica[185].
Secondo i più autorevoli storici del medesimo, l’impero avrebbe
compiuto, nel campo dell’istruzione giuridica, una vera e propria
rivoluzione. Esso, cioè, sarebbe riuscito a possedere quello che la
repubblica non aveva mai conosciuto, delle vere e proprie scuole
giuridiche di stato, e tale rivolgimento sarebbe, a loro dire,
interamente palese sotto Antonino Pio, o fors’anco sotto Adriano,
come proverebbe un classico passo di Gellio, nel quale si accenna
esplicitamente, come a fatto ovvio ed universale, a scuole, numerose
in Roma, di ius pubblice docentium[186].
Ma la misura di codesto rivolgimento, nel campo dell’istruzione
giuridica in Roma, è assolutamente esagerata, e la sua importanza
viene attenuata da quanto più recenti studi han potuto ricostruire
circa i limiti e la natura dell’istruzione giuridica nell’età repubblicana.
[187] È perciò più esatto asserire che, da questo tempo a quello degli
Antonini, si rileva solo un notevole crescendo dell’istruzione giuridica,
un regolarizzarsi e un perfezionarsi delle forme, in cui essa veniva
impartita, senza che questo nulla abbia a vedere con una vera e
53. propria rivoluzione, più che con un naturale svolgimento di condizioni
preesistenti. Il nostro compito deve quindi limitarsi a indagare la
parte, che, in codesto incremento e svolgimento, abbiano avuto gli
imperatori di casa Giulio-Claudia.
Come narra l’unico antico sistematico espositore della storia e
dell’insegnamento del diritto nella repubblica e nell’impero romano,
Pomponio, uno dei principali doveri dei Pontefici, e poi dei
giureconsulti romani, era stato, fin dall’età repubblicana, quello dei
responsa, cioè a dire delle consultazioni giuridiche a magistrati e a
privati, che fossero venuti a richiederneli.
Tale ufficio aveva una grande, e grave, ingerenza nelle controversie
giudiziarie. Il compito di giudice, nella vita sociale romana, era stato
facile finchè gli atti giuridici si erano apprezzati, dirò così
materialmente, senza alcuna ricerca delle intenzioni delle parti, e
fino al giorno, in cui il diritto non era divenuto una scienza
indipendente, la quale, oltre alla pratica del foro, reclamava uno
studio speciale. Ma più tardi, in mancanza di una apposita classe di
giudici professionisti, era invalsa man mano la consuetudine che essi
si circondassero di un consiglio di gente sperimentata e che le parti
comunicassero loro, quale argomento decisivo, l’avviso, il
responsum, di giureconsulti autorevoli, per quanto legalmente
estranei alla causa[188].
Ma se, fino ad Augusto, il dare responsa dipendeva dal buon volere
dei giureconsulti, dalla loro capacità, dalla fiducia che altri riponeva
in loro, da Augusto invece si ebbero dei ius respondentes
patentati[189].
Sotto questo imperatore, venne stabilita una differenza tra i
responsa e il loro valore effettivo, sì che, mentre, fin allora, dei
pareri, esibiti dalle parti, poteva non tenersi alcun conto, il giudice,
adesso, qualora il responso fosse opera di un giurista, specialmente
patentato, era moralmente tenuto a riconoscerlo, perchè esso era
stato formulato in nome del principe; costituiva cioè delle
emanazioni della di lui sovrana autorità.
54. Tale innovazione non subì alcuna interruzione sotto i successori di
Augusto — patentarono giuristi Tiberio, Caligola, e altri[190] — ed
essa, col rialzare notevolmente il prestigio di questa classe di
studiosi, era fatale avesse delle ripercussioni sull’insegnamento e
sulla diffusione della cultura giuridica. Darsi agli studi del diritto,
praticarne l’insegnamento era adesso un mezzo con cui raccogliere
la fiducia dei principi; respondere populo, con tanta efficacia pratica,
era anche fonte di lucro. Massurio Sabino ne aveva dato l’esempio e
provato i beneficii: egli, consultore pubblico, patentato da Tiberio,
inaugurò la serie dei professori di giurisprudenza retribuiti di regolare
onorario dai loro auditores[191].
È possibile che gli imperatori della casa Giulio-Claudia abbiano fatto
anche qualcosa di più. Come il governo repubblicano aveva, ad un
pontefice, assegnato un alloggio sulla Via Sacra per le sue pubbliche
consultazioni,[192] sembra che analogo provvedimento si sia ora
adottato a vantaggio delle nuove scuole dei giuristi. La cosa può dirsi
fuori dubbio per l’età di Adriano,[193] ed è probabile anche per
quella immediatamente precedente. Allora gli auditoria dei giuristi e
dei loro scolari avranno sede nelle biblioteche di fondazione
imperiale[194]. Ma è legittimo supporre che l’usanza fosse cominciata
anche prima. Le biblioteche dell’età di Traiano e di Adriano non sono
che ricostruzioni di istituti rispondenti a l’idea, che Augusto ne aveva
avuta, e, come, nella prima metà del II. secolo di C., erano in esse
delle intere sezioni giuridiche[195], altre analoghe ne avevano
contenute le biblioteche augustee, sì che, secondo l’esagerazione di
uno scoliasta di Giovenale, Augusto avrebbe, nel tempio di Apollo
Palatino, inaugurato un’intera biblioteca di diritto civile.[196] Perchè
dunque l’ipotesi che qualcuna delle sale di tali biblioteche fosse
ritrovo dei giuristi e dei loro discepoli, non dovrebbe convenire anche
alla prima metà del I. secolo di C.? Perchè non riconoscerla legittima
se la ufficialità è nell’intima essenza dell’istruzione giuridica romana
e se la sua pubblicità è perciò, non solo da intendere nel senso che
tutti potevano goderne, ma in quello ch’essa veniva impartita col
consenso, o con la sottintesa iniziativa, del potere centrale?[197].
55. Fu questa l’opera e furono questi gli atti, con cui,
inconsapevolmente, e consapevolmente, gli imperatori della casa
Giulio-Claudia promossero l’istruzione giuridica. Pur troppo, la natura
stessa del nuovo potere assoluto era tale da ridurre di parecchio gli
effetti di così benevoli intendimenti.
XIX.
Noi abbiamo ora sott’occhio tutto il quadro della politica degli
imperatori di casa Giulio-Claudia, nei rispetti dell’istruzione nazionale.
E possiamo senza esitazione affermare ch’esso occupa un posto
eminente nella storia della civiltà umana. Noi vi notiamo da un canto
il grande impulso dato allo studio di talune discipline, la inestimabile
iniziativa della fondazione di pubbliche biblioteche, lo stabilirsi di una
condizione privilegiata ai precettori delle arti liberali. Noi vi notiamo
l’introduzione di elementi fin ora ignorati e trascurati: l’educazione
fisica a tipo greco, l’istruzione musicale, e — ciò che è assai più
importante — fin da Augusto, un piano sufficientemente completo di
educazione ufficiale della gioventù.
Assai strano è intanto constatare come i maggiori propulsori
dell’istruzione pubblica romana, in questa età, siano stati due
uomini, due principi, le mille miglia lontani l’uno dall’altro per indole
e per politica: Augusto e Nerone, sì che, nel I. secolo dell’impero, la
istruzione e l’educazione delle classi elevate ondeggino tra questi
due poli: l’indirizzo Augusteo e l’indirizzo Neroniano.
Ma più importante è un’altra constatazione, che ci è imposta dalle
vicende della storia politica dell’impero romano e che dà la chiave
dell’enigma delle strane sorti della produzione intellettuale nei secoli
venturi. L’impero perfeziona e moltiplica gli strumenti esteriori e
materiali del progresso, ma fin d’adesso — ugualmente — la scuola
comincia ad essere vuotata della sua anima, della sua libertà
formatrice d’intelletti e di coscienze e cessa di produrre tutti i suoi
frutti. Le scuole di retorica moltiplicano sin da Nerone, ma non
56. formano più oratori, formano dei retori. Le scuole di filosofia
dilagano, ma il filosofare diviene d’ora innanzi un pericolo, e sola
filosofia possibile non è più quella che scandaglia per tutti i recessi
dell’abisso profondo, dove, come s’esprimeva Seneca, giace la verità,
ma l’altra, che si cristallizza in una secca e vuota ermeneutica dei più
celebri autori dei secoli trascorsi o che si deforma in una sofistica
arguta e sottile, che insegna meno a vivere, a sentire, a pensare, di
quello che a disputare e a schermagliare.[198] La stessa educazione
fisica va man mano smarrendo il proprio scopo e cede il posto
all’atletica e all’acrobatica. La cultura e la scienza divengono così
ornamento mnemonico o intellettuale, non creano, nè ricreano
l’uomo. Questo non fu per certo conseguenza di volontà colpevole di
individui; fu bensì effetto di tempi mutati, fu derivazione necessaria
di istituti politici, che svolgevano tutte le deleterie influenze, a cui
l’intima capacità li costringeva, e sospingeva, ma di cui non meno
gravi saranno le fatali ripercussioni.
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