La Vita è interactiva
In Italia si continuano a pubblicare tantissimi libri, eppure ci sono in circolazione sempre meno lettori. Leggere è importante, ha a che fare con la libertà, lo ha detto anche Mattarella. Tra i libri meno letti ci sono i saggi, quelli seri, puri e veri, non quelli che solitamente vediamo inseriti negli elenchi dei più venduti (libri sulla Bibbia, su Francesco, ecc. ecc.). Parlo di libri come quello di Pietro Montani (Vita interactiva) che mi è capitato (in realtà ho scelto) di leggere su una spiaggia deserta di un’isola greca. Lettura non facile, impegnativa, ricca però di spunti e suggestioni che hanno soddisfatto una curiosità insaziabile, l’urgenza di allargare in modo transdisciplinare conoscenze e conoscenza, per continuare a svolgere il ruolo culturale e intellettuale che mi sono regalato nella mia vita post-professionale. Il Professor Pietro Montani (Professore di Estetica presso la Sapienza Università di Roma) mi aveva in passato onorato di una bella intervista (Il cervello non viene modificato dalla tecnica ma da essa plasmato) nell’ambito dell’iniziativa Filosofia e Tecnologia legata al mio progetto online SoloTablet. Oggi mi ha dato l’opportunità di dialogare con lui su argomenti che ho tratto, di mia scelta, dal suo ultimo libro.
“Riferita alla rete l’interattività esibisce in primo luogo la sua natura impersonale; prima ancora di un rapporto tra due agenti, si tratta di uno spazio, o campo di forze (la rete) nel quale la reversibilità si dispiega e si delimita” (Vita Interactiva di Pietro Montani)
In questa intervista Carlo Mazzucchelli dialoga con Pietro Montani, autore del libro Vita interattiva, pubblicato da Einaudi.
L'intervista è disponibile nella sua versione completa, anche estetica e originale qui:
Buongiorno Professor Montani e ben (ri)trovato. Dopo aver apprezzato i suoi libri precedenti non potevo evitare di leggere Vita interactiva, cogliendo il riferimento ad Hanna Arendt, ma soprattutto incuriosito dalla parola “interactiva” da me sempre riferita alla pratica diffusa della interazione binaria oggi prevalente online. Una pratica che non lascia spazio al pensiero (critico), alla riflessione, alla lentezza del ragionamento e alla scelta. Forse non a caso nella premessa del suo libro mi sono soffermato subito sul riferimento all’interazione, interattività il termine da lei usato, come uno spazio che definisce un campo di forze, in azione prima ancora che l’interazione stessa abbia luogo, decidendo il ruolo e le funzioni, i vincoli e le libertà degli agenti coinvolti. In che modo questo campo di forze, oggi rappresentato dalla tecnologia, dalle sue infrastrutture e piattaforme, istruisce oggi il gioco di relazioni che rende possibili? Sono queste relazioni dinamiche, reali e autentiche o passive, subite e simulate?
Per inquadrare il fenomeno dell’interattività nella sua natura più genuina bisogna cominciare col riferirlo al mondo biologico, dove accade – per dirla con le parole di due grandi genetisti, Richard Levins e Richard Lewontin – che «un organismo influenza la propria evoluzione costituendosi al tempo stesso come oggetto di selezione naturale e creatore delle condizioni di tale selezione». In altre parole, e semplificando un po’: il fatto che i viventi si adattino all’ambiente e speculare al fatto che l’ambiente si adatta ai viventi.
L’interattività è un processo ricorsivo di cui occorre assumere criticamente l’intero range, comprese naturalmente le due polarità estreme – la completa passività nei confronti delle regole del gioco e l’iniziativa che arriva a modificare le regole – che tuttavia, a mio modo di vedere, sono le meno interessanti a fronte della grande varietà di proporzioni tra passività e attività che il gioco interattivo implementa. Inoltre, non è sempre un’iniziativa nel senso antropomorfo della parola a modificare le regole: basta pensare al fenomeno che oggi definiamo exaptation, cioè allo sviluppo ‘irregolare’ grazie al quale un organo selezionato per determinate funzioni (il caso canonico è quello delle piume e delle penne inizialmente selezionate con finalità di termoregolazione) viene successivamente reclutato per svolgere compiti del tutto diversi e imprevedibili (nella fattispecie il volo) che si sono manifestati proprio e solo grazie all’apertura di un campo interattivo.
È un esempio della straordinaria creatività interattiva del mondo biologico a fronte della quale quella di noi umani è ben povera cosa. Voglio dire che solo sradicando il fenomeno dell’interattività dalla sua dimensione soggettivistica se ne può comprendere la più autentica natura impersonale e se ne possono esaminare criticamente le ricadute sulla «condizione umana» (che è poi il titolo originale di Vita activa, il saggio di Hannah Arendt che il titolo del mio parafrasa).
“L’interattività è una condizione relazionale che precede le entità interagenti e ne prepara il gioco”
Ho sempre pensato che noi siamo le nostre relazioni, che la relazione sia parte costitutiva e il fondamento dell’essere umano, che la vita stessa sia relazione, che l’Altro (il NOI) sia più importante dell’Io (si esiste solo “in alio” diceva Spinoza). Tutto questo cozza però contro una realtà nella quale prevalgono individualismo e narcisismo, interazioni superficiali e veloci, esperite come più importanti della relazione, ritenuta dai più faticosa perché da coltivare nel tempo. Non conoscendo l’autore, le citazioni del pensiero di Malafouris sulle affordances delle cose (l’argilla umida concorre all’emergenza del manufatto così come le mani del vasaio) e sul nostro “essere tra” (between properties”) mi hanno portato a riconsiderare “l’evento cognitivo” (termine da lei usato) che sempre si concretizza nelle nostre interazioni online e che raramente si manifestano sotto l’aspetto del “controllo riflessivo” dell’azione o della scelta che viene fatta. Tutto questo però sfugge a moltitudini di persone che sembrano avere delegato alle macchine la modellazione dei loro processi di pensiero, decisionali, immaginativi, ecc. Lei cosa ne pensa? E che effetti ha tutto questo interagire online sul fare, sull’agire (il concetto è riferito a Miguel Benasayag), sul pensare delle persone?
Anche in questo caso muoverei da uno schietto approccio antropologico.
Un pregiudizio umanistico profondamente radicato in noi (e come potrebbe essere altrimenti visto che siamo umani?) ci induce a pensare all’essere umano come a un ente dotato di alcune proprietà caratterizzanti che le tecnologie avrebbero il potere di modificare, nel bene e nel male. Un esame più accurato, tuttavia, ci porta a deporre questa visione ingenua e ad accettare il fatto che l’essere umano ha un rapporto costitutivo con le tecnologie di cui si è via via dotato e con le quali co-evolve potendo esercitare su questo processo un controllo solo parziale.
È un modo non sostanzialista (cioè non metafisico) di intendere l’umanità dell’essere umano: l’essere umano è preso in un inarrestabile processo epigenetico, non finisce di co-evolvere con le sue tecnologie. Il mio esempio canonico su questo punto è il linguaggio verbale, una tecnologia molto ‘recente’ (meno di centomila anni sui circa trecentomila coperti dall’evoluzione di Homo sapiens) che ha avuto conseguenze di portata incomparabile.
Ora, è del tutto evidente e intuitivo che il linguaggio verbale co-evolve con noi umani sia sotto il profilo ontogenetico sia sotto quello filogenetico e che questa co-evoluzione ha una genuina natura interattiva sulla quale sarebbe completamente inadeguato porre la questione se siamo noi a usare il linguaggio e se non sia piuttosto il linguaggio a usare noi. Si tratta, anche in questo caso, di un gioco di proporzionamenti sui quali un’indagine critica può gettare luce solo assumendoli in quanto tali e non misurandoli in base alla loro relativa vicinanza o lontananza da un modello ottimale.
Nessuno è padrone del linguaggio. È vero invece che ciascuno di noi può assumersi la responsabilità del suo, a cominciare dalla franca ammissione che non ne è padrone. Il discorso non cambia se lo riferiamo alla tecnologie digitali e al loro ambiente mediale canonico, cioè alla rete. A proposito della quale, da un punto di vista evolutivo e co-evolutivo, non potremmo nemmeno dire che siamo ancora ai primi balbettamenti se la confrontiamo con i centomila anni della nostra storia linguistica. Certo sarebbe preferibile che in questa primissima alfabetizzazione avessimo le idee chiare su quali sono le logiche, implicite o esplicite, della rete e su come potremmo amministrale.
Tutto il quarto capitolo del mio libro è costruito su questo aspetto, che ho affidato a un personaggio di fantasia, una «nativa digitale» della generazione zeta di cui descrivo i progressi nell’acquisizione di una consapevolezza critica nelle interazioni con la rete. Che, sia ben chiaro, sono alla portata di chiunque voglia cimentarcisi.
Nessuno è padrone del linguaggio. È vero invece che ciascuno di noi può assumersi la responsabilità del suo, a cominciare dalla franca ammissione che non ne è padrone.
Il linguaggio è una tecnica che caratterizza l’evoluzione del genere umano (noi siamo ζῷον λόγον ἔχον ) da migliaia di anni, prima ancora che trovasse una sua forma vocale. Oggi il linguaggio articolato è il principale medium dell’interazione umana, come tale ha un ruolo fondamentale e critico nell’istruire, orientare e normare l’interazione, anche quella online. Come tale il linguaggio è servito da sempre alla “messa a punto di strategie operative e cooperative particolarmente feconde” per l’Homo sapiens. È ancora così, da un punto di vista simbolico, semantico, cognitivo, di articolazione e forme del linguaggio, di utilizzo diffuso? E cosa dire di esperienze interattive online, nelle quali il linguaggio gioca un ruolo fondamentale, sempre più distanti da esperienze direttamente sperimentate? Nella realtà egolatrica ed egocentrata attuale non crede che sia oggi venuto meno il ruolo pragmatico (Watzlavick), comunitario, cooperativo e sociale del linguaggio? E infine se considerassimo l’interattività corrente come “malata”, che effetti potrebbe avere il linguaggio dominante attuale nel nostro sviluppo psichico futuro (Lev S. Vygostky)?
Come ho già detto, noi oggi siamo alle prese con quella che molti autorevoli specialisti hanno definito una seconda alfabetizzazione. Nulla è in via di principio compromesso quanto allo sviluppo che conoscerà. È vero, inoltre, che esattamente come è accaduto con il linguaggio verbale e, successivamente con la scrittura, questa nuova alfabetizzazione istruisce e orienta le nostre performance espressive e tende a monopolizzarle con una potenza sconosciuta alle alfabetizzazioni precedenti servendosi, tra le altre cose, delle spettacolari prestazioni delle intelligenze artificiali generative e di forme espressive intimamente sincretiche.
C’è un disegno ‘oggettivo’ in questo specifico fenomeno interattivo?
Secondo la tesi che argomento nel libro questo disegno oggettivo c’è e mirerebbe a una tendenziale sostituzione del mondo reale con un immane aggregato di dati, cioè sostanzialmente il «mondo» di cui si nutrono i chatbot.
Questa direttrice ‘sostitutiva’, tuttavia, si dimostra capace di produrre potenti anticorpi spontanei – una direttrice ‘integrativa’ che nel libro esamino in modo sistematico –, secondo una logica squisitamente darwiniana. A fronte di una situazione del genere, il nostro compito dev’essere duplice: come singoli dovremmo prestare una particolare attenzione all’insorgere di questi anticorpi e adoperarci per incrementarne la prestazione integrativa a detrimento di quella sostitutiva; ma è anche indispensabile, ecco il secondo aspetto, che l’istituzione scolastica si faccia carico al più presto, e in modo adeguato, di questo particolare compito didattico.
Lei scrive che “[…] ai chatbot è preclusa (almeno per il momento) l’esperienza dello “stato nascente” dei significati linguistici, […] la capacità di riferire i significati al mondo esterno, “a contesti non verbali, ma suscettibili di verbalizzazione”. Lo penso anche io, riflettendo sul fatto che i chatbot hanno a che fare con dati, testi, archivi, documenti, registrazioni e mai con la vita reale delle persone. Questi dati e queste informazioni sono peraltro (de)limitate da chi le ha collezionate (database) per alimentare e coltivare le capacità di “apprendimento” delle macchine. Nella realtà attuale però questa elementare conoscenza e consapevolezza manca ai più. È con i chatbot che milioni di persone parlano, a loro si confidano, a loro chiedono consulenze umane e professionali (ci sono psicoterapeuti che usano ChatGPT per assistere i loro pazienti). Con quali effetti? Lei cosa ne pensa? Se ho capito bene il suo pensiero per lei non serve demonizzare e tantomeno sottovalutare, ma cosa crede possa succedere quando il cosiddetto “prompting” si sarà affermato come pratica di alfabetizzazione digitale e di pratiche comportamentali quotidiane?
Se si si guarda all’umanità dell’essere umano sotto il profilo epigenetico che ho tratteggiato prima c’è poco da demonizzare, ma anche poco da esaltare o addirittura sacralizzare.
Torniamo al linguaggio articolato. Una cosa su cui in genere non riflettiamo abbastanza è che con la sua emergenza per la prima volta la comunicazione degli umani si emancipò da ogni dipendenza vincolante dal contesto dell’esperienza hic et nunc e si rese idonea a produrre e condividere enunciati sensati a proposito cose assenti, immaginarie o false. Il linguaggio inoltre istituì l’illusione di potersi sostituire senza sforzo e con molti vantaggi al mondo ‘là fuori’, essendo dotato, tra le altre cose, della capacità di assumere se stesso come oggetto di discorso.
I Large Language Models, in ultima analisi, non fanno altro che costituirsi come una realizzazione (asintotica) di questa originaria aspirazione del linguaggio verbale.
Qualche anno fa, in un articolo in difesa delle risorse inutilizzate della cosiddetta «didattica a distanza» ho immaginato questa scena, che ho ambientato circa cinquantamila anni fa nella zona del Circeo, dove è provato che convissero il bianco Neanderthal e il nero Sapiens. Un piccolo nucleo familiare neanderthaliano è riunito intorno al fuoco, di sera. A loro piace commentare la giornata appena trascorsa, anche se il linguaggio di cui dispongono è prevalentemente mimico-gestuale, accompagnato forse da un’approssimativa modulazione fonica. Un giovane maschio sta raccontando del suo incontro mattutino con un gruppo di sapiens intenti alla caccia: «Certo, il livello di efficacia cooperativa di questi neri è pazzesco, incomparabile col nostro» – dice – «Ma con questa nuova tecnica per comunicare tra loro con la voce e tirandone fuori tutte quelle espressioni così diverse l’una dall’altra, con quel loro inventarsene ogni giorno una nuova anche per riferirsi a cose immaginate, è certo che prima o poi finiranno per perdere del tutto il contatto con la realtà materiale». Una femmina sta accudendo amorevolmente l’ultimo nato intonando per lui una dolce nenia, ma lo sguardo che rivolge al giovane esprime un forte dubbio nei confronti delle sue certezze. Con buone ragioni, come poi si vide, dato che bastò una manciata di millenni perché i neanderthaliani si estinguessero. E fu una grande perdita per la biodiversità, perché erano una specie umana fiera e industriosa, pacifica e coraggiosa. Il punto in questione, dunque, non è quello di demonizzare o sacralizzare il linguaggio (umano o macchinico) ma di rispondere alla domanda se, in ultima analisi il suo vantaggio evolutivo sia (stato) davvero tale. In fondo i Neandterthal ci misero quattrocentomila anni per estinguersi.
Siamo certi che lo ζῷον λόγον ἔχον possa aspirare a fare almeno altrettanto?
Secondo Simondon (da lei citato nel capitolo quarto del libro), “gli oggetti tecnici dispongono di un particolare modo di esistenza nell’ambito del quale il coinvolgimento dell’essere umano va sottratto sia all’idea che egli ne sia il principale responsabile sia a quella, opposta, che lo vedrebbe come una sorta di prodotto”. La tecnologia non è più neutrale, forse non lo è mai stata neppure come tecnica. Oggi la tecnologia è “mondo” (Galimberti), un involucro (Floridi), un acquario (Mazzucchelli), un processo capace di plasmare in modo dinamico ed ecosistemico i contesti nei quali esseri umani tecnologicamente ibridati si muovono e di generare una nuova realtà. Tutto questo ci suggerisce di riflettere sugli effetti e sulle ripercussioni, derivanti dalla interazione crescente con i dispositivi digitali, sul nostro essere umani, esseri sensibili e incarnati. Se ho ben compreso per lei l’opportunità sta nello scarto, negli spazi di gioco e nelle differenze che noi sare(m)mo in grado di sviluppare per resistere agli schemi rigidi nei quali la tecnologia sembra oggi volerci rinchiudere. Facile a dirsi, difficile a farsi, almeno per le moltitudini dei nostri tempi di crisi. Le tecnologie attuali tendono a costruire caverne, labirinti senza vie di uscita, capaci di annichilire qualsiasi volontà di lavoro (pensiero) critico. Probabilmente l’evoluzione sta nel co-evolvere, ma come si fa se si continua a delegare alle machine? Cosa ne pensa?
Se si prende sul serio il fenomeno della co-evoluzione, l’dea di volerla programmare per sapere ‘come va finire’ è un’idea tipicamente macchinica. Evoluzione e co-evoluzioni si danno le regole da sole, e tra queste c’è anche quella magnifica fonte di nuove regole che è l’exaptation, una fonte che contiene l’im-pre-vedibilità tra i suoi requisiti e l’interattività tra le sue condizioni.
Il problema che lei pone ha senso solo sullo sfondo di una concezione sostanzialista (cioè metafisica) dell’umano. La metafisica vuole rispondere alla domanda: che cos’è questo ente? La filosofia critica risponde alla domanda: in che modo questo ente – nella fattispecie l’umano – fa esperienza e in che modo è capace di assicurare un controllo – sempre da riscoprire e da riaggiustare, mai dato una volta per tutte – sull’esperienza che fa?
La «continuità» dell’essere umano non è sostanziale e metafisica, ma epigenetica e critica, ciò che la garantisce non può che avere una natura etica e riflessiva, nel senso antico della parola ethos – che Heidegger, ad esempio, traduceva con «portamento», il nostro condur-ci consapevole in un ambiente che è sempre solo in parte antropizzato (un’interazione dinamica, una lotta tra «mondo» e «terra», per dirlo con le sue parole).
Ora, come ci insegnano l’etologia e la psicologia sperimentale contemporanee, pertiene alle condotte caratterizzanti dell’essere umano la possibilità – sempre da riscoprire – di implementare una distanza da se stesso in grado di garantirgli quel controllo riflessivo – sempre da rigenerare – di cui ho appena detto. Di garantirglielo a cose fatte, tuttavia, après coup: è per questo, come ben sapevano Freud e Derrida, che l’essere umano inizia da una ripetizione, o da un’interazione con «se stesso come un altro», per dirla con Paul Ricoeur (nel mio libro tocco questo tema nelle pagine dedicate al concetto freudiano di ripetizione come elaborazione e nuovo inizio).
Che il digitale abbia ridotto o addirittura cancellato questa capacità di distanziamento critico è tutto da dimostrare. È certo, invece, che l’ambiente digitale offre una enorme quantità di affordances integrative e interattive specifiche e che ci dobbiamo solo addestrare a riconoscerle e valorizzarle.
"Non è chiaro se gli attuali sviluppi si muoveranno verso una direttrice che mira alla sostituzione del mondo reale con mondi virtuali[...] e se la direttrice prevalente sia quella di produrre nuovi mondi misti [...] e non è chiaro se questa alternativa si stia già costituendo [nella forma di enormi interessi economici con rilevanti ricadute politiche"
Infine, se ha tempo per un’altra domanda, mi piacerebbe se condividesse con i naviganti della STULTIFERANAVIS una sua prima impressione sul progetto. Stanchi delle piattaforme, nostalgici del WEB dei suoi inizi, convinti del disincanto crescente verso la tecnologia (e non solo), noi siamo convinti che la soluzione sia nell’investire sulla lettura e sulla scrittura, sulla conoscenza (basta con la semplice informazione!), sulla (tecno)consapevolezza e sulla responsabilità, senza visioni apocalittiche ma puntando sul principio speranza. Per noi un modo per contrastare l’individualismo e l’egoismo imperanti sta nel riscoprire la comunità, la cooperazione e la solidarietà. A oggi la nave contiene già mille contributi. Se della nave ha una buona percezione, la invito a salire a bordo. Grazie per questa opportunità offertami per questa intervista.
Grazie a lei e alla Nave, sulla quale mi imbarco volentieri come mozzo tuttofare, non digiuno, come lei sa, del governo (minimale) delle rande e dei fiocchi, delle scotte e dei terzaroli…
Biografia
Pietro Montani è professore onorario alla «Sapienza» Università di Roma, dove ha insegnato Estetica per molti anni. La sua riflessione verte sui rapporti tra tecnologie, sensibilità e immaginazione. È coordinatore scientifico dell’edizione italiana delle Opere scelte di Sergej M. Ejzenštejn (Marsilio, Venezia 1981-2020, 9 voll.) Tra i suoi ultimi libri: Emozioni dell'intelligenza, Meltemi 2020; Destini tecnologici dell'immaginazione, Mimesis 2022; Immagini sincretiche, Meltemi 2024. Per Einaudi ha pubblicato Vita interactiva. Da Homo sapiens all'universo digitale (2025).
Organic Philosophy for sustainability and wise climate action
2 giorniCondivido il tono riflessivo dello scambio e credo che leggerò il libro, ma mi chiedo: siamo proprio sicuri che il linguaggio umano sia una tecnica? Ci sono due evidenze che mi portano a negare questa assunzione: 1) il linguaggio umano permette la formulazione di paradossi e nessun'altra "tecnica" lo fa almeno che non si basi sul linguaggio umano 2) il linguaggio umano verbale non getta calore nell'ambiente come le tecnologie e non rompe catene chimiche più di quanto le rompa il vivere respirando senza linguaggio. Mi piacerebbe avere un confronto su questi due punti, per non sentirmi proprio sola in un tentativo "ingenuo" di invitare a prenderci responsabilità per quel poco che è esclusivamente umano. A maggior ragione, perché a ben vedere ogni specie ha qualcosa in comune con le altre specie e qualcosa di esclusivamente specifico. Altrimenti non riusciremmo a distinguere una specie dall'altra. Non si tratta di antropocentrismo ma di specie-specismo che risale ad Aristotele. E naturalmente è ancora nel linguaggio umano che possiamo dissolvere le differenze e non assolvere l'antropocentrismo, che non è sinonimo di umanesimo, come il post-umanesimo ci induce a credere. Susanna Di Vincenzo