Rapidi e digitali: ma saremo più informati?

Rapidi e digitali: ma saremo più informati?

La storica rivista Nuova Antologia, per il numero speciale dedicato ai propri 150 anni, ha chiesto a personalità ed esperti vari di immaginare le sfide dei prossimi anni nei rispettivi ambiti. Mi è stata chiesta una riflessione sul futuro dell'informazione nell'era digitale, che ripropongo qui:

George Orwell avrebbe amato WhatsApp. Nel 1944 lo scrittore si lamentava di quanto fosse formale l’inglese scritto e sognava l’avvento di uno stile più simile al linguaggio della gente comune, “ricco di slang, pieno quando possibile di abbreviazioni”. I messaggi che oggi si scambiano gli adolescenti sugli smartphone lo avrebbero deliziato.

Facebook invece avrebbe conquistato Hannah Arendt. “Ogni essere umano, nella sua unicità – scriveva -, desidera ricevere da un altro il racconto della propria storia”. Chissà che riflessioni avrebbe tratto guardando un miliardo di persone condividere in tempo reale foto di matrimoni, vacanze e compleanni. E che dire di John Dos Passos, che nel 1930 sorprendeva il mondo con un romanzo, Il 42° Parallelo (tradotto da Cesare Pavese), dove la narrazione era continuamente interrotta da spezzoni di messaggi provenienti da vari media: leggendolo oggi, sembra di navigare tra i flussi di Twitter.

I social media, la frontiera più avanzata e caotica della nostra era digitale, in fondo sono una riproposizione di desideri e bisogni antichi quanto l’uomo. Facebook è basato su una dinamica affettiva, quando si condivide qualcosa si dice “mi piace” e tutto ruota intorno agli “amici”. Twitter vive sulla logica del “seguire” (follow) un altro perché lo si stima e si pensa che abbia qualcosa di importante da dirci. O semplicemente perché è famoso.

Se come è probabile l’informazione di domani passerà sempre più attraverso canali social come questi, allora vanno indagate le loro caratteristiche per cercare di intuire come faremo a sapere cosa accade nel mondo senza naufragare in un mare di chiacchiere. E il punto di partenza, spesso trascurato nei dibattiti sul futuro della comunicazione, è che anche il rapido e travolgente mondo digitale non si può ridurre solo a una questione di tecnologia. Occorre far scendere in campo anche l’antropologia. Per scoprire così che non siamo di fronte a fenomeni tanto diversi da quelli che documentavano gli scrittori del secolo scorso. E quelli dei secoli precedenti.

Internet, i social media, tutto l’apparato digitale che stiamo costruendo da qualche decennio, vengono generalmente considerati come un nuovo medium. Come i giornali, la radio e la Tv prima di loro. E se fosse un approccio sbagliato? Il dubbio viene quando si prova a seguire il punto di vista proposto da studiosi come il cyberteologo padre Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà Cattolica, che invita a considerare il mondo digitale non come un mezzo, ma come un luogo. Aprendo così la strada alla necessità di “vivere” la casa comune della Rete usando la categoria dell’esperienza.

Qui sta il possibile punto di svolta, che potrebbe fare la differenza tra un futuro sovraccarico di informazioni in cui sarà impossibile orientarsi (e quindi definirsi “informati”) e invece un nuovo scenario di condivisione delle news nel quale a guidarci sarà l’esperienza. L’insieme delle nostre conoscenze e dei nostri affetti, le tappe e le scoperte che abbiamo fatto nella vita, la comunità a cui apparteniamo: tutto contribuirà a darci i criteri di giudizio per scegliere chi seguire, quali informazioni ritenere attendibili, cosa condividere con gli altri. In sintesi: come essere persone informate nel XXI secolo.

E’ la morte dei giornali o dei Tg? Non necessariamente. Nel mare in tempesta del mondo digitale, il rischio più grosso sarà la frammentazione delle informazioni disponibili. Servirà sempre di più qualcuno credibile e autorevole a cui affidarsi per rimettere insieme i frammenti e avere chiavi di lettura. Serviranno testimoni esperti, che sulla base del loro bagaglio professionale si siano guadagnati la stima di essere gli influencers a cui guardare per capire meglio le cose. E serviranno grandi organizzazioni, brand storici (o di legacy come dicono gli americani) che siano riusciti a stare al passo con i tempi senza aver perso l’autorevolezza conquistata già a partire dal XX o anche XIX secolo. Si chiamino New York Times o Corriere della Sera. Ma dovranno essere pronti a un vaglio continuo da parte della comunità dei loro lettori, che sceglieranno l’informazione di cui fidarsi come oggi scelgono l’autista di Uber, l’appartamento su Airbnb e il ristorante su Tripadvisor sulla base anche delle esperienze e dei consigli degli altri.

Sarà un mondo meno broadcast, cioè con l’informazione a senso unico a cui ci aveva abituato il secolo scorso, e più sharing, basato sulla condivisione.

Le parole-chiave per definire questo nuovo scenario potrebbero ancora essere le 6 C che con Massimo Gaggi avevamo proposto – un po’ per gioco – già nel 2010 nel saggio L’Ultima Notizia (Rizzoli): comunità, condivisione, conversazione, credibilità, contenuti, creatività. A queste si potrebbe aggiungere la contaminazione, diventata sempre più importante in un mondo dove sembrano emergere figure che rappresentano un mix di approccio umanistico e conoscenza scientifica: Steve Jobs è l’esempio sicuramente più noto.

Non ci si può però illudere che non ci sia nel mondo dell’informazione il rischio che alla fine a prevalere sia un’altra C: caos. Gli interrogativi irrisolti sono ancora molti. I modelli di business per sostenere un giornalismo versione sharing restano incerti. La frammentazione potrebbe rivelarsi impossibile da ricomporre in una narrazione coerente, lasciandoci alla deriva in un mare di tweets nel quale non riusciremo a costruirci un giudizio sulla realtà. L’esperienza ti può aiutare a nuotare, ma non basta se sei sovraccarico di indumenti e la corrente ti trascina sott’acqua.

Per non parlare del rischio-nicchia. I social e la rete in generale tendono a farci chiudere nel nostro microcosmo. Rischiamo di ascoltare solo chi la pensa come noi e di non essere più esposti a informazioni casuali che ci aprano nuove prospettive. Già oggi consumiamo informazione a buffet, scegliendo quello che ci pare. Non sfogliamo più il giornale seguendo una gerarchia decisa da altri e stiamo mandando in soffitta anche i palinsesti televisivi, preferendo l’on-demand come Netflix.

Gli esiti della rivoluzione in corso non sono scontati. Ma il web non è buono o cattivo, sarà come noi vorremo che sia. Siamo i custodi della casa comune digitale e solo abitandola facendoci guidare dalla categoria dell’esperienza troveremo la strada giusta. Servono le cose che sono sempre servite fin dall’inizio del mondo. L’educazione, per avere gli strumenti di conoscenza necessari a capire questa nuova realtà. I maestri da seguire. Una rete di amicizie e di rapporti significativi che ci aiuti a decifrare il reale e a darci un metodo per condividere e giudicare.

Chi produce informazione, da parte sua, dovrà impegnarsi sempre più sulla qualità perché sarà in concorrenza con tanti altri protagonisti, tra cui le aziende che stanno diventando anche media company. In un mondo in cui le news sono ormai una commodity a disposizione di tutti, la vera sfida sarà nel catturare l’unica cosa di cui ci sarà scarsità: l’attenzione delle persone. Un processo che richiede di dedicarsi in modo particolare anche al design, all’estetica di ciò che si propone. In una parola alla bellezza, che resta un desiderio profondo di ogni uomo e donna sul pianeta.

L’errore più grosso sarebbe cadere in un dualismo senza sbocchi: da una parte c’è il mondo “reale”, in cui valgono alcune regole consolidate; dall’altra c’è la rete, che è “virtuale”. No, il popolo del web non esiste. E’ lo stesso popolo delle code al supermercato, delle vacanze al mare e delle sere in tribuna allo stadio. Se ci sdoppiamo quando siamo su Facebook, perdiamo il senso della realtà. Solo l’avere a cuore l’unità della persona, con tutti i suoi bisogni, limiti e desideri, darà la garanzia che il luogo digitale che abbiamo costruito non si riveli un inferno nel quale scoprirsi non solo meno informati, ma soprattutto più soli.  

Antonio Parisi

Head of Procurement

9 anni

Un articolo davvero interessante ed attuale. La credibilità e l'autorevolezza di chi scrive, saranno (forse) l'unica arma contro l'informazione manipolata.

Domenico Tavaglione

Economic and Social Analysis Lead, Public Affairs Department, presso Eni

9 anni

Non c'è dubbio. La sfida del futuro (prossimo) dell'informazione sarà la ricomposizione "armonica e indipendente" della frammentazione delle voci. Ben venga questa sfida. Come scrivi nella tua lucidissima analisi, il vaglio della comunità dei lettori decreterà e sceglierà il nuovo palinsesto dell'informazione. Certo i rischi non mancano. Caos e nicchia sono porte pericolose che non sarà possibile eludere. Come in tutte le discontinuità (la parola "evoluzione" richiederebbe evidenze al momento non disponibili) attraverseremo fasi di adattamento, apprendimento, discernimento. Sono fiducioso. Sono fiducioso in un futuro della comunicazione e dell'informazione più diversificato, glocal e vigile. La mia fiducia riposa soprattutto su un'altra C: il Coraggio. I nativi digitali sono pressoché naturalmente predisposti all'unicum (e non dualismo) reale/virtuale e alla "genuina" condivisione on the spot. Resisterà questo coraggio al noto consiglio popolare “per campare cent'anni..?" Gruppi, cerchie, microcosmi, riusciranno ad affrancarsi dal rischio dell'autoreferenzialismo in modalità, tecnologie e forme nuove? Io punto un chip sul si, su una rinascimentale resistenza e consapevolezza worldwide. Grazie per la riflessione. “In ogni caos c'è un cosmo, in ogni disordine un ordine segreto” (C.G. Jung).

Marianna Mollica

Project manager ambito marketing e comunicazione | Consulente in Brand management, Social media & email marketing | Sostenibilità e innovazione culturale | ISIPM-Base Certification in Project Management

9 anni

Nelle ultime settimane ho riflettuto su questi aspetti e credo che la sfida ora (ora che i linguaggi dell'online sono familiari a tanti) nei diversi ambiti, dall'informazione all' istruzione, è quella di guidare alla consapevolezza degli strumenti del web, alla creazione di mappe per orientare. Per questo, ho trovato interessante la ricerca etnografica realizzata della University College London "Why We Post: the Anthropology of Social Media"-Analizza come vengono utilizzati gli strumenti social in diversi paesi (dal Cile alla Cina) e afferma che sono gli usi, e non le piattaforme, la vera causa di quello che sono le conseguenze dei social media. "What is Twitter?’ has to be that it is whatever people decide to use it for" . Quindi, è necessario avere consapevolezza di ciò che si usa. .

Virginia Fiume

Researcher | Advocacy Projects Coordinator | Coalition and Network Manager | Facilitator of Deliberative Processes

9 anni

Grazie Marco Bardazzi. Questa tua riflessione è un dono prezioso. Anche perchè si tratta del frutto della tua esperienza di giornalista e responsabile di un progetto di branded media. Traspare, credo in maniera volontaria. Apprezzo molto il fatto che utilizzi alcune categorie dell'antropologia: familiaritá e ritualitá mi paiono le principali. Se non lo conosci giá ti segnalo un progetto dell'universitá inglese UCL che è stato presentato settimana scorsa. Si chiama "Why We Post". È una ricerca antropologica basata sul lavoro di 9 studiosi. https://www.ucl.ac.uk/why-we-post Sono interessanti i temi, ma anche le modalitá in cui la ricerca stessa viene presentata per essere accessibile a un pubblico più vasto (ebook, corso MOOC, blog, ...). Uno dei concetti piú interessanti elaborati dal gruppo di ricercatori è quello di "scalable sociality", che si basa su due parametri: sull'asse delle ascisse si va da "piccolo" a "grande" (comunitá di dialogo), su quello delle ordinate si va da "privato" a "pubblico". All'interno si gioca il movimento di ogni individuo, che sceglie quali piattaforme usare - idealmente consapevole degli elementi di privacy e pubblico. Il tutto inserito nel suo contesto "glocal" fatto di norme e socialitá. Un'analisi che secondo me si sposa bene con la tua.

Elisabetta Seratoni

Communication | Marketing | Events

9 anni

grazie!

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