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Nella “nuova” concezione di bisogno educativo
speciale trovano spazio tutti quegli alunni, con o
senza diagnosi clinica, che per qualche aspetto
problematico del loro funzionamento bio-psico-
sociale, su base ICF, in modo permanente o
transitorio incontrano maggiori difficoltà nel
soddisfare i loro normali bisogni educativi, che per
presto diventano bisogni educativi speciali. Dunque il
punto di partenza non sono le diagnosi cliniche, ma
una concezione globale su base ICF del
funzionamento umano, che può leggere e
comprendere tutte le situazioni di difficoltà, dalle
disabilità classiche, fino alle difficoltà di integrazione
linguistica e culturale, fino alle problematiche
comportamentali, relazionali e affettive.
Questa macro categoria su base ICF
evidentemente non ha alcun valore clinico - per
questo ci sono le diagnosi basate sui sistemi di
classificazione internazionale - ed il suo
significato e la sua utilità sono strettamente
politici, nel senso dell’eguaglianza e delle pari
opportunità, perché aprono la possibilità di
attivare prassi eque di riconoscimento di tutte le
condizioni di difficoltà e non soltanto di quelle
certificate secondo la Legge n. 104/1992.
A tutt’oggi, infatti, secondo Dario Ianes, rimane una
condizione di non equità: un alunno che ha una
certificazione di disabilità gode di fatto di maggior diritto
ad avere risorse aggiuntive rispetto all’alunno che non ha
una certificazione sanitaria, anche se le sue condizioni
reali di funzionamento sono molto complesse e
richiederebbero interventi specifici (non a caso alcuni
autori propongono una modificazione della Legge
n.104/1992 nella direzione di una concezione più equa e
globale della disabilità e delle varie condizioni di salute e
funzionamento in situazioni sfavorevoli, superando il
modello rigidamente bio-strutturale medico verso una
visione bio-psicosociale).
Si tratta, dunque, di introdurre il concetto di bisogno
educativo speciale nelle prassi scolastiche di lettura dei
bisogni reali e di conseguenza attribuire risorse
aggiuntive La parte più larga dello schema, secondo
Dario Ianes, è la piena inclusione: una scuola che sa
rispondere adeguatamente a tutte le diversità individuali
di ogni alunno, non soltanto quelle degli allievi con
bisogni educativi speciali. Una scuola che non pone
barriere, ma anzi valorizza le differenze individuali di
ognuno e facilita la partecipazione sociale e
l’apprendimento di tutti. Una scuola davvero fattore
efficace di promozione sociale e attenta alle
caratteristiche individuali, sia nei casi delle difficoltà che
nei casi delle variabilità “normali”, fino alle eccellenze.
Questo livello comprende dentro di sé
integrazione e inclusione In conclusione, a
parere di Ianes, l’importante è condividere la
visione di fondo dei diritti di ogni alunno
all’apprendimento e alla piena partecipazione
sociale nelle scuole e nelle occasioni formative
normali, a prescindere dalla sua condizione
biopsicosociale Alla luce di quanto fin detto si
può cogliere come la dicotomia
integrazione/inclusione, messa ben in risalto da
un approccio inclusivo “radicale”, si sia
attenuata di molto.
Anzi possa essere addirittura superata percependo il
gruppo classe come un’unica realtà dinamica in continua
evoluzione nella quale si pongono i vari allievi con le loro
specificità e le loro differenze. La piena partecipazione
ed il massimo apprendimento, in effetti, sono gli obiettivi
per tutti, e questa identica visione di fondo valida per
ognuno non ripropone distinzioni in base ad una
presunta “norma”, esterna alla persona, valida solo per
qualcuno con certe caratteristiche bio-mediche
specifiche. Resta vero, però, che nel modello proposto
da Dario Ianes per qualcuno (alunni disabili) c’è
l’integrazione e per qualcun altro (alunni con “bisogni
educativi speciali” e senza di essi) c’è l’inclusione.
E se il processo evolutivo che coinvolge tutti gli
allievi di una classe è lo stesso, e se lo scenario di
riferimento per ciascun studente è l’apprendimento
massimo possibile e la più piena partecipazione
sociale nelle scuole e nelle occasioni formative,
perché si dovrebbero utilizzare due termini diversi
(integrazione e inclusione)? E’ indubbio, però, che il
modello prefigurato da D. Ianes, al di la degli aspetti
semantici, ha il pregio di sottolineare l’importanza,
cosa per nulla scontata ed ovvia nelle scuole
italiane, di uno sguardo specifico rivolto a tutti gli
allievi che possono avere “bisogni” particolari
(“speciali”) e che occorre fare realmente qualcosa di
specifico per loro.
E’ questa un’attenzione che va certamente
sempre più valorizzata dagli insegnanti in
quanto non è frequente l’utilizzo dell’ICF nel
contesto scolastico e soprattutto è ancora
molto diffusa l’abitudine di delegare agli
specialisti uno “sguardo osservativo” delle
caratteristiche di una persona, come se non
fosse un compito dell’insegnante anche quello
di capire in prima persona i “talenti” e le
eventuali difficoltà degli alunni che si hanno di
fronte.
Questo magari giustificato dal pregiudizio,
non ancora definitivamente tramontato tra i
docenti, che una scuola giusta “non deve
fare differenze” e quindi, in assenza di una
certificazione specialistica, bisogna trattare
tutti allo stesso modo, quando invece, come
diceva già don Lorenzo Milani, non c’è nulla
che sia ingiusto quanto far le parti eguali fra
disuguali. Inclusione: un concetto
polisemico?
La parola inclusione sta prendendo sempre più piede in
Italia, tanto da mettere in ombra, in una sorta di “eclissi
terminologica”, quello di interazione. Se però il concetto
di integrazione, da quanto è apparso in Italia negli anni
Settanta del XX secolo, è stato tendenzialmente univoco,
non si può dire la stessa cosa per il concetto di
inclusione, almeno per l’uso che ne è stato fatto fino ad
ora. Il termine inclusione, infatti, essendo di derivazione
anglosassone (inclusion) è stato tradotto letteralmente in
italiano, ma è stato anche collegato a visioni
paradigmatiche diverse, tra loro persino discordanti,
tanto da correre il rischio di assumere una valenza
polisemica.
A tutt’oggi, infatti, secondo Dario Ianes, rimane una
condizione di non equità: un alunno che ha una
certificazione di disabilità gode di fatto di maggior diritto
ad avere risorse aggiuntive rispetto all’alunno che non ha
una certificazione sanitaria, anche se le sue condizioni
reali di funzionamento sono molto complesse e
richiederebbero interventi specifici (non a caso alcuni
autori propongono una modificazione della Legge
n.104/1992 nella direzione di una concezione più equa e
globale della disabilità e delle varie condizioni di salute e
funzionamento in situazioni sfavorevoli, superando il
modello rigidamente bio-strutturale medico verso una
visione bio-psicosociale).
Un altro conto ancora è collegare, come ha fatto
Dario Ianes, l’inclusione ai bisogni educativi speciali
(intesi alla luce dell’ICF dell’OMS) di alcuni allievi,
per poi prefigurare la piena inclusione riferita a tutti
gli alunni di una classe. E’ inevitabile che di fronte ad
impostazioni così divergenti ci sia il rischio di fare
confusione e di non avere le idee chiare. Questo
rischio del resto è confermato oggi da diversi
insegnanti, i quali nel quotidiano contesto scolastico
non sempre hanno piena consapevolezza delle
valenze in gioco quando utilizzano il vocabolo
integrazione e quando impiegano il termine
inclusione.
E’ questo un segnale che vale la pena di
non trascurare, anche perché non si tratta
solo di adottare un termine “alla moda”, ma
di agire in modo qualificato nel quotidiano
educativo alla luce di presupposti teorico-
concettuali ben precisi e coerenti. In questo
senso il pericolo è, utilizzando le parole di
Ludwing Wittgenstein, che i limiti del mio
linguaggio significano i limiti del mio mondo
Dato che la piena inclusione, nella prospettiva di Dario
Ianes, coincide con le integrazioni di tutti gli allievi di una
scuola - integrazioni come esito e come processo della
piena valorizzazione delle potenzialità e delle differenze
di ciascuno in vista della partecipazione - e dato che le
integrazioni così intese sono la cornice all’interno della
quale si colloca anche la prospettiva inclusiva più
“radicale”, forse potrebbe essere logico decidere di
impiegare il termine integrazioni al posto di integrazione
o inclusione, termine che tra l’altro semanticamente
sottolinea maggiormente la pluralità delle persone e
l’esito di un processo evolutivo valido per tutti senza
comportare una categorizzazione delle diversità
interpersonali.
Certo bisognerà tenere presente che con il suo
utilizzo non ci si collega ad un’integrazione “di
vecchio stampo”, ma si fa riferimento ai nuovi
scenari messi in gioco proprio dall’inclusione e dalle
logiche di valorizzazione delle differenze personali
tanto care anche alla personalizzazione. Il termine
integrazioni, dunque, per la sua capacità di
sottolineare l’importanza di uno sviluppo personale
non standardizzato e di evidenziare la necessità di
“fare differenze” in vista del protagonismo di tutti,
potrebbe essere utile per evitare il rischio della
deriva polisemica del concetto di inclusione.
In ogni caso merita di essere sottolineato il
fatto che, al di là del termine utilizzato, quando
si vuole adoperare un’espressione anziché
un’altra (integrazione o inclusione) è importante
essere consapevoli degli scenari di riferimento
e delle dinamiche teoriche in questione, perché
c’è sempre il pericolo di non intendersi e di
creare le distanze - che sono l’opposto di
qualsiasi logica integrativa o inclusiva - proprio
nel momento in cui si impiega una parola. E
sicuramente l’unica cosa di cui oggi non c’è
bisogno, soprattutto nella scuola, è la
confusione.
Lo sviluppo non standardizzato a scuola: le
integrazioni Come poc’anzi visto il tema
delle differenze è molto sottolineato dalla
prospettiva inclusiva, ma è anche rimarcato
dalla prospettiva delle integrazioni. La
differenza non presuppone l’opposizione, è
vero piuttosto che l’opposizione presuppone
la differenza.
Così si è espresso Gilles Deleuze ed il suo
pensiero si presta a porre in risalto come la
differenza sia il modo di esprimersi della
realtà e sia la condizione che emerge
dall’identità stessa della vita e delle persone
umane. La diversità, in effetti, non è un
problema, ma è una risorsa. Per questo
soprattutto a scuola bisognerebbe “fare
differenze”, così da dare peso e valore
all’originalità personale di ciascuno.
Di tutti senza distinzioni. Il “fare differenze” collima perfettamente
con un’educazione personalizzata (personalizzazione), che per
sua natura vuole riconoscere e valorizzare le differenze
individuali e vuole anche cogliere gli allievi nella loro specificità,
per non incasellarli in un astratto concetto di “omogeneità
formativa”. Una scuola capace di “fare differenze” non può
limitarsi alle “etichette”, perché, come ha evidenziato Giuseppe
Bertagna, le etichette (superdotato, disabile, spastico, normale,
psicotico, maniaco depressivo, schizofrenico ecc.) tradiscono
spesso i contenuti dei barattoli; la teoria non riesce a descrivere
l’intero della realtà a cui pur intende riferirsi o, peggio, che
pretende di esaurire; le persone umane sono sorprendenti,
sempre, mai determinate e crocifisse a un ruolo insuperabile:
mai «normali del tutto» o «disabili del tutto» o «superdotate in
tutto» […].
Si tratta, dunque, di introdurre il concetto di bisogno
educativo speciale nelle prassi scolastiche di lettura dei
bisogni reali e di conseguenza attribuire risorse
aggiuntive La parte più larga dello schema, secondo
Dario Ianes, è la piena inclusione: una scuola che sa
rispondere adeguatamente a tutte le diversità individuali
di ogni alunno, non soltanto quelle degli allievi con
bisogni educativi speciali. Una scuola che non pone
barriere, ma anzi valorizza le differenze individuali di
ognuno e facilita la partecipazione sociale e
l’apprendimento di tutti. Una scuola davvero fattore
efficace di promozione sociale e attenta alle
caratteristiche individuali, sia nei casi delle difficoltà che
nei casi delle variabilità “normali”, fino alle eccellenze.
Nella prospettiva della persona umana, in
effetti, ogni azione educativa intenzionale
dovrebbe avere il compito di valorizzare la
specificità e la singolarità di ciascun allievo,
perché queste caratteristiche rendono ogni
studente unico, impossibile da omologare ad
un modello standard di riferimento
(exemplar).
Seguendo il pensiero di Giuseppe Bertagna si può dire che non esiste
la persona umana come exemplar, non esiste cioè un modello statico di
persona a cui tutti saremmo chiamati ad aderire, magari attraverso un
percorso progressivo di avvicinamento lineare, per sua natura quindi
escludente e nevrotizzante. Ogni persona, al contrario, è sempre un
unitario ed unico exemplum dinamico - un “chi”, un soggetto, un
“qualcuno” - di cui va colta a volta a volta la specificità, l’originalità, la
creatività che varia nel tempo, nello spazio, nelle circostanze, nei
contesti, nei prodotti. Riuscire in questa impresa ed essere in grado di
valorizzare ogni volta la specificità, l’originalità e la creatività di
ciascuno con opportune occasioni di esercizio, significa concretizzare
sul piano esistenziale e sociale l’ottica pedagogica e dare sostanza a
una pedagogia del pieno sviluppo della persona umana (Costituzione
italiana) Proprio perché unico e unitario exemplum dinamico, ogni
persona, a parere di G. Bertagna, non si può mai cogliere e dichiarare
per un suo aspetto soltanto (per esempio la dimensione intellettuale,
sociale, espressiva, motoria, biologica, morale, ecc.).
Bisogna, invece, avere sempre presenti tutti insieme
gli aspetti che caratterizzano la persona umana.
Fissare chiunque a un sintomo positivo o negativo,
oppure a una o più dimensioni che pure lo
contraddistinguono in determinati tempi, spazi e
contesti, significa soltanto scotomizzarlo e “non
vedere mai l’altra faccia della luna”. La persona
umana in quanto tale non solo non è qualche sua
parte più o meno importante, ma non è nemmeno la
somma di tutti gli elementi analitici che la
compongono. Ogni “tutto” è sempre qualcosa in più
e di diverso dalla somma delle sue parti.
La sintesi delle parti non potrà mai essere e dire il “tutto” a cui si
riferisce, pertanto il “tutto” della persona per essere colto esige la
prospettiva dell’integralità, della globalità e dell’olismo, non
quella della sintesi delle sue parti Inoltre, secondo di Giuseppe
Bertagna, essendo la persona relazionale, si ha sempre a che
fare anche con la totalità del contesto ambientale e sociale con
cui essa si trova in relazione. Cioè non è possibile pensare alla
persona umana come exemplum unico, unitario, dinamico e
valorizzare l’integralità personale senza passare, allo stesso
tempo, dalla valorizzazione dell’integralità sociale. Relazionalità
non significa soltanto rapporto a due (tra educatore e educando,
tra adulto e bambino, tra malato e terapeuta, tra disabile e
riabilitatore ecc.).
Significa anche riconoscere che ogni persona è tale
perché e se inserita nella rete reale e possibile di tutte le
persone esistenti. Singolarità e socialità stanno, perciò,
per forza, sempre insieme. La famiglia, il gruppo, la
chiesa, la cooperativa, il sindacato, i partiti, la politica, la
società, la nazione, il mondo, l’umanità non sono cose
astratte, sono la rete delle relazioni tra le persone
all’interno delle quali i rapporti interpersonali individuali
trovano il loro senso e la loro possibilità di sviluppo Alla
luce di queste considerazioni risulta chiaro come nei
confronti della persona umana non si possano
intraprendere percorsi educativi se non nella specificità
del suo essere exemplum, ossia se non nella le
specificità del suo modo di apprendere e di costruire
l’apprendimento.
In questo senso la decisione di come
progettare e realizzare i percorsi educativi
intenzionali nei confronti di questo
exemplum-allievo non è altro che la scelta
metodologica e strumentale tramite la quale
l’insegnante modella in base alla situazione
personale e contingente di ciascuno la
propria intenzionalità educativa.
Le scelte metodologiche, le strategie, le situazioni educative,
l’organizzazione dei contenuti, in una parola tutti gli aspetti
didattici sono in funzione della crescita e dello sviluppo massimo
delle potenzialità di ogni allievo, ossia in vista del suo sviluppo
personale, e si collocano all’interno del principio-guida generale
della crescita completa ed integrale della persona, che è uguale
per tutti e non cambia in base a variare degli studenti. Per
contribuire allo sviluppo personale di ciascuno, per focalizzare le
competenze già manifestate e quelle ancora da esplicitare, per
sollecitare le possibilità di crescita di ogni allievo non serve una
didattica “speciale”, basta solo una didattica “generale”
contraddistinta, a seconda delle situazioni contingenti, da tratti di
specificità e tale da consentire la gestione competente della
classe.
Se quello che serve è saper gestire e condurre
responsabilmente e consapevolmente un
gruppo classe, allora quello che è in gioco è
una “didattica generale” in grado di rispondere
ai bisogni formativi di tutti gli allievi in base alla
loro specificità ed alle differenze di ciascuno. E’
proprio la “specificità” di ciascun studente,
collegata al massimo sviluppo di tutte le
possibilità della persona umana, che spinge
ogni insegnante a vivere la pedagogia generale
in modo “speciale”. Questo vale per tutti, non
solo per qualcuno.
Questo livello comprende dentro di sé
integrazione e inclusione In conclusione, a
parere di Ianes, l’importante è condividere la
visione di fondo dei diritti di ogni alunno
all’apprendimento e alla piena partecipazione
sociale nelle scuole e nelle occasioni formative
normali, a prescindere dalla sua condizione
biopsicosociale Alla luce di quanto fin detto si
può cogliere come la dicotomia
integrazione/inclusione, messa ben in risalto da
un approccio inclusivo “radicale”, si sia
attenuata di molto.
Ossia possa riuscire ad utilizzare le conoscenze e le
abilità disciplinari come strumenti per affrontare
efficacemente le situazioni e i problemi che si
presentano a scuola e fuori di essa. Nella
prospettiva delle integrazioni ed in vista dello
sviluppo non standardizzato della persona, non è in
campo una didattica “speciale” per qualcuno, ma è in
scena una consapevole scelta didattica per tutti, al
fine di rispondere ai bisogni formativi di ognuno e per
mettere a disposizione di ciascuno quello di cui ha
bisogno per sviluppare al massimo le sue
potenzialità.
Ciò che è davvero strategico è che tutto il team docente
si ponga l’interrogativo a proposito di quali possano
essere i percorsi migliori da proporre ad ogni studente,
nella sua specifica situazione, in vista del suo massimo
sviluppo personale ed in vista della costruzione della sua
identità individuale. Questo vale per tutti gli allievi e non
solo per gli studenti disabili, a proposito dei quali è
certamente indispensabile padroneggiare, da parte di
tutti i docenti, le necessarie conoscenze a riguardo
dell’eziologia e della fenomenologia della loro disabilità,
ma senza chiamare in causa una didattica “speciale”
valida soltanto per loro. Basta una didattica arricchita di
tecniche, di strumenti e di strategie di tipo specifico,
esattamente come in una logica di valorizzazione di tutte
le differenze presenti nel gruppo.
E’ in gioco, quindi, una didattica all’interno di un criterio di
riferimento (lo sviluppo della persona) capace di essere specifica
rispetto alle situazioni personali, proprio perché ogni persona è
“specifica” (differente), è un exemplum unico, unitario, dinamico,
originale, relazionale. Allora se non è in campo una didattica
“speciale” rivolta solo a qualcuno, ma è in gioco una didattica
volta al massimo sviluppo di ognuno, ciò significa che è in scena
l’integrazione di ciascuno. Meglio sono in scena le integrazioni di
tutti e non solo quella dell’alunno disabile. Se in effetti ciò che
conta è lo sviluppo non standardizzato di ognuno, la posta in
gioco è l’effettiva integrazione di ciascuno nelle scuole di tutti.
Nella prospettiva delle integrazioni, dunque, si tratta di tratta di
“fare differenze” per “fare integrazioni”.

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Copia di PROGETTO VIOLENZA sulle donne PCTO

MIILIV_M4C5 Appendice 2 parte 2

  • 1. Nella “nuova” concezione di bisogno educativo speciale trovano spazio tutti quegli alunni, con o senza diagnosi clinica, che per qualche aspetto problematico del loro funzionamento bio-psico- sociale, su base ICF, in modo permanente o transitorio incontrano maggiori difficoltà nel soddisfare i loro normali bisogni educativi, che per presto diventano bisogni educativi speciali. Dunque il punto di partenza non sono le diagnosi cliniche, ma una concezione globale su base ICF del funzionamento umano, che può leggere e comprendere tutte le situazioni di difficoltà, dalle disabilità classiche, fino alle difficoltà di integrazione linguistica e culturale, fino alle problematiche comportamentali, relazionali e affettive.
  • 2. Questa macro categoria su base ICF evidentemente non ha alcun valore clinico - per questo ci sono le diagnosi basate sui sistemi di classificazione internazionale - ed il suo significato e la sua utilità sono strettamente politici, nel senso dell’eguaglianza e delle pari opportunità, perché aprono la possibilità di attivare prassi eque di riconoscimento di tutte le condizioni di difficoltà e non soltanto di quelle certificate secondo la Legge n. 104/1992.
  • 3. A tutt’oggi, infatti, secondo Dario Ianes, rimane una condizione di non equità: un alunno che ha una certificazione di disabilità gode di fatto di maggior diritto ad avere risorse aggiuntive rispetto all’alunno che non ha una certificazione sanitaria, anche se le sue condizioni reali di funzionamento sono molto complesse e richiederebbero interventi specifici (non a caso alcuni autori propongono una modificazione della Legge n.104/1992 nella direzione di una concezione più equa e globale della disabilità e delle varie condizioni di salute e funzionamento in situazioni sfavorevoli, superando il modello rigidamente bio-strutturale medico verso una visione bio-psicosociale).
  • 4. Si tratta, dunque, di introdurre il concetto di bisogno educativo speciale nelle prassi scolastiche di lettura dei bisogni reali e di conseguenza attribuire risorse aggiuntive La parte più larga dello schema, secondo Dario Ianes, è la piena inclusione: una scuola che sa rispondere adeguatamente a tutte le diversità individuali di ogni alunno, non soltanto quelle degli allievi con bisogni educativi speciali. Una scuola che non pone barriere, ma anzi valorizza le differenze individuali di ognuno e facilita la partecipazione sociale e l’apprendimento di tutti. Una scuola davvero fattore efficace di promozione sociale e attenta alle caratteristiche individuali, sia nei casi delle difficoltà che nei casi delle variabilità “normali”, fino alle eccellenze.
  • 5. Questo livello comprende dentro di sé integrazione e inclusione In conclusione, a parere di Ianes, l’importante è condividere la visione di fondo dei diritti di ogni alunno all’apprendimento e alla piena partecipazione sociale nelle scuole e nelle occasioni formative normali, a prescindere dalla sua condizione biopsicosociale Alla luce di quanto fin detto si può cogliere come la dicotomia integrazione/inclusione, messa ben in risalto da un approccio inclusivo “radicale”, si sia attenuata di molto.
  • 6. Anzi possa essere addirittura superata percependo il gruppo classe come un’unica realtà dinamica in continua evoluzione nella quale si pongono i vari allievi con le loro specificità e le loro differenze. La piena partecipazione ed il massimo apprendimento, in effetti, sono gli obiettivi per tutti, e questa identica visione di fondo valida per ognuno non ripropone distinzioni in base ad una presunta “norma”, esterna alla persona, valida solo per qualcuno con certe caratteristiche bio-mediche specifiche. Resta vero, però, che nel modello proposto da Dario Ianes per qualcuno (alunni disabili) c’è l’integrazione e per qualcun altro (alunni con “bisogni educativi speciali” e senza di essi) c’è l’inclusione.
  • 7. E se il processo evolutivo che coinvolge tutti gli allievi di una classe è lo stesso, e se lo scenario di riferimento per ciascun studente è l’apprendimento massimo possibile e la più piena partecipazione sociale nelle scuole e nelle occasioni formative, perché si dovrebbero utilizzare due termini diversi (integrazione e inclusione)? E’ indubbio, però, che il modello prefigurato da D. Ianes, al di la degli aspetti semantici, ha il pregio di sottolineare l’importanza, cosa per nulla scontata ed ovvia nelle scuole italiane, di uno sguardo specifico rivolto a tutti gli allievi che possono avere “bisogni” particolari (“speciali”) e che occorre fare realmente qualcosa di specifico per loro.
  • 8. E’ questa un’attenzione che va certamente sempre più valorizzata dagli insegnanti in quanto non è frequente l’utilizzo dell’ICF nel contesto scolastico e soprattutto è ancora molto diffusa l’abitudine di delegare agli specialisti uno “sguardo osservativo” delle caratteristiche di una persona, come se non fosse un compito dell’insegnante anche quello di capire in prima persona i “talenti” e le eventuali difficoltà degli alunni che si hanno di fronte.
  • 9. Questo magari giustificato dal pregiudizio, non ancora definitivamente tramontato tra i docenti, che una scuola giusta “non deve fare differenze” e quindi, in assenza di una certificazione specialistica, bisogna trattare tutti allo stesso modo, quando invece, come diceva già don Lorenzo Milani, non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti eguali fra disuguali. Inclusione: un concetto polisemico?
  • 10. La parola inclusione sta prendendo sempre più piede in Italia, tanto da mettere in ombra, in una sorta di “eclissi terminologica”, quello di interazione. Se però il concetto di integrazione, da quanto è apparso in Italia negli anni Settanta del XX secolo, è stato tendenzialmente univoco, non si può dire la stessa cosa per il concetto di inclusione, almeno per l’uso che ne è stato fatto fino ad ora. Il termine inclusione, infatti, essendo di derivazione anglosassone (inclusion) è stato tradotto letteralmente in italiano, ma è stato anche collegato a visioni paradigmatiche diverse, tra loro persino discordanti, tanto da correre il rischio di assumere una valenza polisemica.
  • 11. A tutt’oggi, infatti, secondo Dario Ianes, rimane una condizione di non equità: un alunno che ha una certificazione di disabilità gode di fatto di maggior diritto ad avere risorse aggiuntive rispetto all’alunno che non ha una certificazione sanitaria, anche se le sue condizioni reali di funzionamento sono molto complesse e richiederebbero interventi specifici (non a caso alcuni autori propongono una modificazione della Legge n.104/1992 nella direzione di una concezione più equa e globale della disabilità e delle varie condizioni di salute e funzionamento in situazioni sfavorevoli, superando il modello rigidamente bio-strutturale medico verso una visione bio-psicosociale).
  • 12. Un altro conto ancora è collegare, come ha fatto Dario Ianes, l’inclusione ai bisogni educativi speciali (intesi alla luce dell’ICF dell’OMS) di alcuni allievi, per poi prefigurare la piena inclusione riferita a tutti gli alunni di una classe. E’ inevitabile che di fronte ad impostazioni così divergenti ci sia il rischio di fare confusione e di non avere le idee chiare. Questo rischio del resto è confermato oggi da diversi insegnanti, i quali nel quotidiano contesto scolastico non sempre hanno piena consapevolezza delle valenze in gioco quando utilizzano il vocabolo integrazione e quando impiegano il termine inclusione.
  • 13. E’ questo un segnale che vale la pena di non trascurare, anche perché non si tratta solo di adottare un termine “alla moda”, ma di agire in modo qualificato nel quotidiano educativo alla luce di presupposti teorico- concettuali ben precisi e coerenti. In questo senso il pericolo è, utilizzando le parole di Ludwing Wittgenstein, che i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo
  • 14. Dato che la piena inclusione, nella prospettiva di Dario Ianes, coincide con le integrazioni di tutti gli allievi di una scuola - integrazioni come esito e come processo della piena valorizzazione delle potenzialità e delle differenze di ciascuno in vista della partecipazione - e dato che le integrazioni così intese sono la cornice all’interno della quale si colloca anche la prospettiva inclusiva più “radicale”, forse potrebbe essere logico decidere di impiegare il termine integrazioni al posto di integrazione o inclusione, termine che tra l’altro semanticamente sottolinea maggiormente la pluralità delle persone e l’esito di un processo evolutivo valido per tutti senza comportare una categorizzazione delle diversità interpersonali.
  • 15. Certo bisognerà tenere presente che con il suo utilizzo non ci si collega ad un’integrazione “di vecchio stampo”, ma si fa riferimento ai nuovi scenari messi in gioco proprio dall’inclusione e dalle logiche di valorizzazione delle differenze personali tanto care anche alla personalizzazione. Il termine integrazioni, dunque, per la sua capacità di sottolineare l’importanza di uno sviluppo personale non standardizzato e di evidenziare la necessità di “fare differenze” in vista del protagonismo di tutti, potrebbe essere utile per evitare il rischio della deriva polisemica del concetto di inclusione.
  • 16. In ogni caso merita di essere sottolineato il fatto che, al di là del termine utilizzato, quando si vuole adoperare un’espressione anziché un’altra (integrazione o inclusione) è importante essere consapevoli degli scenari di riferimento e delle dinamiche teoriche in questione, perché c’è sempre il pericolo di non intendersi e di creare le distanze - che sono l’opposto di qualsiasi logica integrativa o inclusiva - proprio nel momento in cui si impiega una parola. E sicuramente l’unica cosa di cui oggi non c’è bisogno, soprattutto nella scuola, è la confusione.
  • 17. Lo sviluppo non standardizzato a scuola: le integrazioni Come poc’anzi visto il tema delle differenze è molto sottolineato dalla prospettiva inclusiva, ma è anche rimarcato dalla prospettiva delle integrazioni. La differenza non presuppone l’opposizione, è vero piuttosto che l’opposizione presuppone la differenza.
  • 18. Così si è espresso Gilles Deleuze ed il suo pensiero si presta a porre in risalto come la differenza sia il modo di esprimersi della realtà e sia la condizione che emerge dall’identità stessa della vita e delle persone umane. La diversità, in effetti, non è un problema, ma è una risorsa. Per questo soprattutto a scuola bisognerebbe “fare differenze”, così da dare peso e valore all’originalità personale di ciascuno.
  • 19. Di tutti senza distinzioni. Il “fare differenze” collima perfettamente con un’educazione personalizzata (personalizzazione), che per sua natura vuole riconoscere e valorizzare le differenze individuali e vuole anche cogliere gli allievi nella loro specificità, per non incasellarli in un astratto concetto di “omogeneità formativa”. Una scuola capace di “fare differenze” non può limitarsi alle “etichette”, perché, come ha evidenziato Giuseppe Bertagna, le etichette (superdotato, disabile, spastico, normale, psicotico, maniaco depressivo, schizofrenico ecc.) tradiscono spesso i contenuti dei barattoli; la teoria non riesce a descrivere l’intero della realtà a cui pur intende riferirsi o, peggio, che pretende di esaurire; le persone umane sono sorprendenti, sempre, mai determinate e crocifisse a un ruolo insuperabile: mai «normali del tutto» o «disabili del tutto» o «superdotate in tutto» […].
  • 20. Si tratta, dunque, di introdurre il concetto di bisogno educativo speciale nelle prassi scolastiche di lettura dei bisogni reali e di conseguenza attribuire risorse aggiuntive La parte più larga dello schema, secondo Dario Ianes, è la piena inclusione: una scuola che sa rispondere adeguatamente a tutte le diversità individuali di ogni alunno, non soltanto quelle degli allievi con bisogni educativi speciali. Una scuola che non pone barriere, ma anzi valorizza le differenze individuali di ognuno e facilita la partecipazione sociale e l’apprendimento di tutti. Una scuola davvero fattore efficace di promozione sociale e attenta alle caratteristiche individuali, sia nei casi delle difficoltà che nei casi delle variabilità “normali”, fino alle eccellenze.
  • 21. Nella prospettiva della persona umana, in effetti, ogni azione educativa intenzionale dovrebbe avere il compito di valorizzare la specificità e la singolarità di ciascun allievo, perché queste caratteristiche rendono ogni studente unico, impossibile da omologare ad un modello standard di riferimento (exemplar).
  • 22. Seguendo il pensiero di Giuseppe Bertagna si può dire che non esiste la persona umana come exemplar, non esiste cioè un modello statico di persona a cui tutti saremmo chiamati ad aderire, magari attraverso un percorso progressivo di avvicinamento lineare, per sua natura quindi escludente e nevrotizzante. Ogni persona, al contrario, è sempre un unitario ed unico exemplum dinamico - un “chi”, un soggetto, un “qualcuno” - di cui va colta a volta a volta la specificità, l’originalità, la creatività che varia nel tempo, nello spazio, nelle circostanze, nei contesti, nei prodotti. Riuscire in questa impresa ed essere in grado di valorizzare ogni volta la specificità, l’originalità e la creatività di ciascuno con opportune occasioni di esercizio, significa concretizzare sul piano esistenziale e sociale l’ottica pedagogica e dare sostanza a una pedagogia del pieno sviluppo della persona umana (Costituzione italiana) Proprio perché unico e unitario exemplum dinamico, ogni persona, a parere di G. Bertagna, non si può mai cogliere e dichiarare per un suo aspetto soltanto (per esempio la dimensione intellettuale, sociale, espressiva, motoria, biologica, morale, ecc.).
  • 23. Bisogna, invece, avere sempre presenti tutti insieme gli aspetti che caratterizzano la persona umana. Fissare chiunque a un sintomo positivo o negativo, oppure a una o più dimensioni che pure lo contraddistinguono in determinati tempi, spazi e contesti, significa soltanto scotomizzarlo e “non vedere mai l’altra faccia della luna”. La persona umana in quanto tale non solo non è qualche sua parte più o meno importante, ma non è nemmeno la somma di tutti gli elementi analitici che la compongono. Ogni “tutto” è sempre qualcosa in più e di diverso dalla somma delle sue parti.
  • 24. La sintesi delle parti non potrà mai essere e dire il “tutto” a cui si riferisce, pertanto il “tutto” della persona per essere colto esige la prospettiva dell’integralità, della globalità e dell’olismo, non quella della sintesi delle sue parti Inoltre, secondo di Giuseppe Bertagna, essendo la persona relazionale, si ha sempre a che fare anche con la totalità del contesto ambientale e sociale con cui essa si trova in relazione. Cioè non è possibile pensare alla persona umana come exemplum unico, unitario, dinamico e valorizzare l’integralità personale senza passare, allo stesso tempo, dalla valorizzazione dell’integralità sociale. Relazionalità non significa soltanto rapporto a due (tra educatore e educando, tra adulto e bambino, tra malato e terapeuta, tra disabile e riabilitatore ecc.).
  • 25. Significa anche riconoscere che ogni persona è tale perché e se inserita nella rete reale e possibile di tutte le persone esistenti. Singolarità e socialità stanno, perciò, per forza, sempre insieme. La famiglia, il gruppo, la chiesa, la cooperativa, il sindacato, i partiti, la politica, la società, la nazione, il mondo, l’umanità non sono cose astratte, sono la rete delle relazioni tra le persone all’interno delle quali i rapporti interpersonali individuali trovano il loro senso e la loro possibilità di sviluppo Alla luce di queste considerazioni risulta chiaro come nei confronti della persona umana non si possano intraprendere percorsi educativi se non nella specificità del suo essere exemplum, ossia se non nella le specificità del suo modo di apprendere e di costruire l’apprendimento.
  • 26. In questo senso la decisione di come progettare e realizzare i percorsi educativi intenzionali nei confronti di questo exemplum-allievo non è altro che la scelta metodologica e strumentale tramite la quale l’insegnante modella in base alla situazione personale e contingente di ciascuno la propria intenzionalità educativa.
  • 27. Le scelte metodologiche, le strategie, le situazioni educative, l’organizzazione dei contenuti, in una parola tutti gli aspetti didattici sono in funzione della crescita e dello sviluppo massimo delle potenzialità di ogni allievo, ossia in vista del suo sviluppo personale, e si collocano all’interno del principio-guida generale della crescita completa ed integrale della persona, che è uguale per tutti e non cambia in base a variare degli studenti. Per contribuire allo sviluppo personale di ciascuno, per focalizzare le competenze già manifestate e quelle ancora da esplicitare, per sollecitare le possibilità di crescita di ogni allievo non serve una didattica “speciale”, basta solo una didattica “generale” contraddistinta, a seconda delle situazioni contingenti, da tratti di specificità e tale da consentire la gestione competente della classe.
  • 28. Se quello che serve è saper gestire e condurre responsabilmente e consapevolmente un gruppo classe, allora quello che è in gioco è una “didattica generale” in grado di rispondere ai bisogni formativi di tutti gli allievi in base alla loro specificità ed alle differenze di ciascuno. E’ proprio la “specificità” di ciascun studente, collegata al massimo sviluppo di tutte le possibilità della persona umana, che spinge ogni insegnante a vivere la pedagogia generale in modo “speciale”. Questo vale per tutti, non solo per qualcuno.
  • 29. Questo livello comprende dentro di sé integrazione e inclusione In conclusione, a parere di Ianes, l’importante è condividere la visione di fondo dei diritti di ogni alunno all’apprendimento e alla piena partecipazione sociale nelle scuole e nelle occasioni formative normali, a prescindere dalla sua condizione biopsicosociale Alla luce di quanto fin detto si può cogliere come la dicotomia integrazione/inclusione, messa ben in risalto da un approccio inclusivo “radicale”, si sia attenuata di molto.
  • 30. Ossia possa riuscire ad utilizzare le conoscenze e le abilità disciplinari come strumenti per affrontare efficacemente le situazioni e i problemi che si presentano a scuola e fuori di essa. Nella prospettiva delle integrazioni ed in vista dello sviluppo non standardizzato della persona, non è in campo una didattica “speciale” per qualcuno, ma è in scena una consapevole scelta didattica per tutti, al fine di rispondere ai bisogni formativi di ognuno e per mettere a disposizione di ciascuno quello di cui ha bisogno per sviluppare al massimo le sue potenzialità.
  • 31. Ciò che è davvero strategico è che tutto il team docente si ponga l’interrogativo a proposito di quali possano essere i percorsi migliori da proporre ad ogni studente, nella sua specifica situazione, in vista del suo massimo sviluppo personale ed in vista della costruzione della sua identità individuale. Questo vale per tutti gli allievi e non solo per gli studenti disabili, a proposito dei quali è certamente indispensabile padroneggiare, da parte di tutti i docenti, le necessarie conoscenze a riguardo dell’eziologia e della fenomenologia della loro disabilità, ma senza chiamare in causa una didattica “speciale” valida soltanto per loro. Basta una didattica arricchita di tecniche, di strumenti e di strategie di tipo specifico, esattamente come in una logica di valorizzazione di tutte le differenze presenti nel gruppo.
  • 32. E’ in gioco, quindi, una didattica all’interno di un criterio di riferimento (lo sviluppo della persona) capace di essere specifica rispetto alle situazioni personali, proprio perché ogni persona è “specifica” (differente), è un exemplum unico, unitario, dinamico, originale, relazionale. Allora se non è in campo una didattica “speciale” rivolta solo a qualcuno, ma è in gioco una didattica volta al massimo sviluppo di ognuno, ciò significa che è in scena l’integrazione di ciascuno. Meglio sono in scena le integrazioni di tutti e non solo quella dell’alunno disabile. Se in effetti ciò che conta è lo sviluppo non standardizzato di ognuno, la posta in gioco è l’effettiva integrazione di ciascuno nelle scuole di tutti. Nella prospettiva delle integrazioni, dunque, si tratta di tratta di “fare differenze” per “fare integrazioni”.