1Paolo Donati
Copia non vendibile
2Dedicato a…
a tutti quelli che amano l’Italia e la pasta, alla mia famiglia e ai miei colleghi di Barilla
Paolo Donati
“Storie di Pasta”
© Giugno 2018
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“STORIE DI PASTA”
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“Premessa dello chef”
1. MUGABI – Dove c’è pasta c’è speranza (pag.7)
2. CEDRIC – Gli spaghetti di mezzanotte (pag.20)
3. MENG – Pasticcio di maccheroni (pag.36)
4. SUSAN – Un ditalino è per sempre (pag.44)
5. KIRAN – Le farfalle nel turbante (pag.53)
6. JOHN – Non è mai troppo pesto (pag.61)
7. MANUELA – I ravioli di Nonna Anna (pag.67)
8. NOI DUE – L’incontro (pag.73)
9. TU - La “mia” Storia di Pasta (pag.75)
“La scarpetta” (Appendice)
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“PREMESSA DELLO CHEF”
L’Italia è un Paese meraviglioso.
E la pasta lo è ancora di più. Soprattutto se vista dagli occhi di chi l’Italia, pur essendo
lontana, la sente vicina anche attraverso l’irresistibile profumo di un buon piatto di pasta
semplicemente condito con olio, pomodoro e basilico.
Quelli freschi, naturalmente. Perché avere davanti un piatto di pasta è da sempre nella
tradizione del nostro Paese l’occasione per colorare di verde, bianco e rosso i mille sapori
che ancora ci sono nel territorio. Quelli che, anche di fronte a una giornata andata storta,
sono in grado di insaporire un qualsiasi piatto di pasta e così far tornare il sole al nostro
umore.
La pasta così come oggi la intendiamo è intimamente connessa al mondo Mediterraneo.
Prima del big bang industriale, quello che ha portato la pasta alle nostre tavole, l’universo
della pasta era in principio un modello cosmologico semplice: un ammasso di farina,
acqua, lievito e sale che oggi chiamiamo “gnocco”. Questo perchè nell’antichità si faceva
prima il pane e poi la pasta: di più, quest’ultima di fatto era usata in funzione di supplenza
al pane.
A parte i riferimenti sulla pasta presenti nella Bibbia e nel Talmud, esiste ancora oggi una vecchia parola greca “Laganon” che rimanda al
concetto di “gnocco”: quello dal cui impasto venivano poi tagliuzzati dei sottili pezzi di pasta che in latino – grazie ad uno dei primi “food
influencers” di nome Marco Gavio Apicio – erano chiamati “Laganum”. Avrete forse già capito che è da questa parola che deriva l’attuale
termine “Lasagna”.
Ma a Roma la pasta era “sfoglia”: Orazio, Cicerone e Catone parlano spesso del pane e della pasta "tracta" (dal verbo "trahere", tirare).
E’ probabile che questi tipi di pasta fossero però arrivati in Occidente dalla Persia e dal mondo arabo grazie al fatto che – un po' più a Est - in
Cina da tempo venivano usati i “noodles”, quelli che la tradizione dice che vennero portati poi in Italia da Marco Polo e quindi chiamati
5“spaghetti”. Altre fonti però dicono che il termine di “spago” derivi da una parola araba “itria”, che rimanda alle stringhe delle scarpe. Un tipo
di pasta che venne appunto importato in Sicilia dagli arabi: prova ne è che esiste una val d’Ittria e una varietà di spaghetti che ancora oggi a
Palermo vengono chiamati “trii”.
Quale che sia la vera storia antica degli “spaghetti”, come tutti sappiamo però è alla città di Napoli che dobbiamo la nascita della pasta
moderna.
Uno dei primi documenti in cui quest’ultima viene ufficialmente citata è del 1509, quando il vicerè e conte Ripa Curisa intimò in un bando del
regno napoletano che "quando la farina saglie per guerra o carestia o per indisposizione de stagione de cinque carlini in su il tumulo, non si
debiano fare taralli, susamelli, ceppule, Maccarune, trii, vermicelli, ne altra cosa de pasta excepto in caso di necessità de malati".
Negli anni la pasta diventa un piatto talmente popolare tanto che nel 1546 viene creata a Napoli l'arte dei "vermicellari": distinti dai panettieri,
questi ultimi diventano poi "maccaronari" nel 1699 contribuendo a trasformare i napoletani da "mangiafoglia" a "mangia-maccheroni" e
quindi a incentrare la loro dieta sui carboidrati, spesso unico ingrediente economicamente raggiungibile da tutto il popolo.
E' in quei tempi che le strade di Gragnano e Torre Annunziata si trasformano in enormi stenditoi all'aperto. Da un lato, grazie al sole e ai caldi
venti della zona vicina al Vesuvio. Dall’altro grazie ai primi meccanismi di trafilatura in bronzo che - inventati dallo scienziato Cesare Spadaccini
– permettono alla pasta di essere prodotta in maniera industriale. Anche se all’epoca restava ancora un po' di artigianalità, in particolare
quella legata all’esperto movimento dello "spannatore", la persona che prendeva la pasta dal torchio e poi la stendeva sulle lunghe canne per
essere essiccata.
Con il tempo e il progresso della tecnica, la produzione industriale di pasta arriva a trasformare la dieta degli italiani rendendola anche più
economica: l'uso del sugo unito al profumo dei vari caci paesani rese poi il piatto completo anche dal punto di vista nutrizionale.
Ma contrariamente a quanto si possa pensare, il passaggio all'uso quotidiano di "pastasciutta" non è stato così immediato: fino agli anni '50 la
maggior parte della popolazione pensava ancora alla pasta come “pasto della domenica” o ingrediente secondario di ben più sostanziose
minestre di legumi, di verdure o di carne.
Alla fine è solo grazie al diffuso benessere degli anni '70 e alle moderne tecniche di conservazione e packaging che la pasta – grazie anche
all’uso sapiente della pubblicità - è arrivata su tutte le tavole degli italiani.
6Ma la cosa più affascinante è che la produzione industriale non ha fatto venire meno l’espansione quantistica dell’ “universo pasta”: basti
pensare al fatto che ancora oggi abbiamo più di 1.000 tipi di pasta non solo a livello regionale ma spesso anche a distanza di qualche km da un
paese all'altro!
E questo è sicuramente un patrimonio che innegabilmente dobbiamo tutelare. Perché, in fondo, da qualunque lato la si guardi, c’è sempre un
posto per la pasta in ognuno di noi e in qualunque parte del mondo.
Una cosa incredibilmente bella se si pensa che questa ricchezza alla fine è prodotta solo da pochi ingredienti naturali
come acqua e semola!!
Buon appetito!
7Buttiamo la pasta… buona lettura!
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Credits: Repubblica.it
91. MOGABI – Dove c’è pasta c’è speranza.
E’ sera.
Anche oggi abbiamo camminato a lungo.
In questo deserto spietato, quello su cui appoggiamo i nostri piedi, la vita è un miraggio appiccicato al sudore.
E’ un deserto duro questo, proprio come la vita che ho lasciato. Ma certamente un deserto meno arido e duro del volto – quello senza pietà - di
queste persone che, ormai da giorni, ci stanno guidano verso la nostra meta comodamente seduti a bordo di un furgoncino malandato. Quello da
cui, davanti alla nostra colonna di disperati, sembrano quasi prendersi ancor più gioco di noi sputandoci addosso non solo i loro insulti e le loro
risate ma anche il fumo dei gas di scarico della camionetta.
Le pietre e la sabbia sono ovunque in questa pista disseminata di sole, sudore e lacrime. Forse sono quelle di chi, venuto qui prima di noi, ha dovuto
lasciare ai margini di un cammino infuocato la mano di un parente o di un amico che, vinto dalla fatica fisica, ha passato a questa terra il testimone
della Speranza.
Un ultimo minuto di cammino poi ecco che il furgoncino si ferma come sempre per la sosta notturna.
Ci sediamo per terra, stravolti di fatica, sparsi in cerchio in mezzo al pietrisco che tutt’attorno arreda questa nostra dura sosta.
Accanto a me c’è Abu, mio fratello.
E’ lui che, quando sento di non avere la forza di fare il prossimo passo, mi prende da dietro con le sue mani e mi spinge avanti.
Proprio come facevamo al villaggio, quando correvamo a chi arrivava per primo al pozzo d’acqua. Non c’era mai gara: avendo le gambe più lunghe
delle mie lui alla fine vinceva sempre. Forse spinto da amore fraterno, Abu mi lasciava sempre correre davanti a lui fino agli ultimi 100 metri, poi mi
sorpassava spingendomi come per dire “avanti”.
Abu mi ha sempre incitato a correre in tutti i momenti difficili.
Al villaggio la nostra vita – quella spesa nei campi a coltivare banane – è sempre stata dura.
La miseria non mancava mai.
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Ma anche dentro le nostre capanne ogni tanto arrivava il vento del mondo moderno, con il suono delle notizie che uscivano dalla nostra radio e
dalle immagini della televisione che il nostro vicino – in una più lussuosa baracca di lamiere – aveva comprato non si sa come assieme al generatore
che, con orgoglio, usava anche per far andare la luce in casa. Almeno finché aveva benzina.
Ad Abu piaceva ogni tanto cercare il mondo, quello lontano, andando via qualche giorno con il nostro vicino che trasportava le banane in città con il
suo piccolo furgoncino. Abu lo aiutava a caricare la merce e lui gli regalava il viaggio e, tra le altre piccole cose, anche qualche rivista colorata che,
non sapendo nessuno di noi leggere, guardavamo avidamente concentrandoci solo sulle fotografie.
Abu teneva tutte queste riviste avvolte in una coperta accanto al giaciglio su cui dormiva.
Ed è stato lui un giorno a parlarmi di quel sogno che, qualche anno fa, un altro suo amico (o forse un lontano parente, non ricordo) aveva realizzato
pagando le persone giuste: lasciare tutto, andare via da qua e arrivare in terre in cui l’acqua non era solo nei fiumi e nella poca pioggia, ma dentro le
case, dentro le cucine, quelle piene di cibo e di tavole mai vuote.
E’ stato sempre Abu a convincere papà che anche noi dovevamo provarci.
Aveva messo da parte qualche dollaro, ma aveva bisogno ancora di una mano. Per questo papà, che in fondo era un po' sognatore come lui, aveva
deciso un giorno di vendere le nostre capre. Ma ad una condizione: che in quel viaggio Abu portasse anche me.
Papà non aveva detto nulla alla mamma. Qualche settimana dopo era tornato a casa con in mano un mazzo di dollari in più che, con la forza di un
padre e senza spendere inutili parole, aveva dato ad Abu dicendogli “và”.
Il giorno dopo, a metà pomeriggio, eravamo sul furgoncino del vicino, diretti in città: noi due, le banane e tutti i nostri sogni di libertà.
- “Mogabi, tieni” sento bisbigliare al mio orecchio.
Rieccoci qua, in questo deserto. Mi ero assorto di nuovo nei ricordi.
Mentre stavo pensando a tutte quelle cose Abu aveva aperto un pacchetto di biscotti, quelli che aveva trovato per caso ieri lungo il cammino.
Buono per noi, male per chi li aveva persi…
- “Fratello, adesso cerca di dormire, guarda che domani ci attende ancora un lungo cammino. Ma non ne avremo ancora per molto, sai? quel nostro
amico – seduto là - poco fa mi ha detto che ha sentito parlare al telefono uno di quei quattro sul furgoncino. Capisce un po' l’arabo e ha sentito dire
che domani ci daranno in mano ad altri uomini, quelli che ci porteranno al mare”.
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Il mare. La nostra meta. L’inizio di quella traversata che avrebbe dato il senso a questa fatica, a questo caldo, a questo deserto.
Dopo aver mangiato un po' di quei biscotti e bevuto un sorso d’acqua, abbraccio Abu ed insieme ci addormentiamo, non prima di aver guardato
lassù, ancora per qualche minuto, il cielo buio pieno di stelle.
Accucciati vicini non sentiamo il freddo della notte.
Ma i passi di quei due bastardi con la pistola che si avvicinano ad una ragazza del gruppo sì.
Eccoli, come l’altra sera, arrivare senza farsi troppi scrupoli e prendere la donna. La portano a forza verso il furgoncino mentre lei urlando cerca di
liberarsi.
Facciamo tutti finta di non vedere nulla e di non sentire le grida della ragazza che, con un pianto singhiozzante, li prega di lasciarla andare. Ma loro
ridono, puntandole sempre il pugnale sulla gola…
Ridono mentre la trascinano sotto il telone che hanno messo sul retro del furgoncino. E poi godono. Violare le leggi che non ci sono, così come il
corpo di una donna, per loro non fa differenza!
- “La loro condanna arriverà fratello, Allah si ricorderà delle loro malefatte” mi bisbiglia Abu. Rattristati ci stringiamo ancora e poi senza neanche
accorgerci ci addormentiamo lì per terra.
Nel deserto il sole sorge presto.
Ed ecco ancora il caldo tornare a scandire i nostri passi: noi tutti, saremo forse una cinquantina, siamo di nuovo un gruppo senza parole che si
muove muto verso l’orizzonte. E verso una meta.
Non cambia nulla attorno. Solo qualche arbusto in più. Solo qualche roccia in più. Solo qualche sputo in più.
Dopo alcune ore di cammino, ecco avvicinarsi una nuvola di polvere.
- “Fratello, guarda” dico ad Abu.
- “Hai una buona vista, Mogabi: è un’auto… vedi che aveva ragione il nostro amico?! dai, forza che ci siamo!”
Tre notti dopo eravamo di nuovo sdraiati per terra, sotto lo stesso cielo pieno di stelle.
Ma accanto a noi adesso, c’era finalmente quello che avevamo aspettato a lungo.
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Quello che molti di noi avevano visto solo nei racconti di chi l’aveva visto prima o magari anche solo alla televisione.
Eccolo, finalmente, qui vicino a noi il mare, dietro le dune, con i suoi respiri profondi e il bisbiglio delle sue onde.
Sono così affascinato da questo spettacolo da dimenticarmi di mangiare l’ultimo biscotto. Quello che Abu mi spinge per scherzo in bocca ridendo:
- “Ancora qualche giorno fratello, ancora qualche giorno…”.
Di giorni ne passano invece altri due. E arriva altra gente. Tutti poveracci come noi. Alcuni della nostra terra, altri di posti che non conosco.
Ma loro, i bastardi, sono sempre lì. Non sono più quattro ma otto. Hanno cambiato solo il volto ma non i loro occhi, i loro modi sprezzanti, la loro
rabbia. Ieri ci hanno chiesto altri 20 dollari a testa: “Servono per il cibo da darvi” dicono. Ma quel cibo è solo qualche bottiglietta d’acqua e delle
briciole di pane in più che non sfameranno nessuno. Neanche quei cinque bambini che adesso intravedo nell’altro gruppo.
Come era calata dietro le dune ecco la luce del giorno tornare sopra di noi.
E con essa eccoli tutti e otto arrivare in gran fretta.
- “Avanti, prendete tutto, veloci, andate in quella radura!” ci dice uno urlando e brandendo un fucile.
- “Dove ci portate?” chiediamo.
- “Al paradiso!!!” risponde ridendo quello.
Abbiamo paura, non ci fidiamo di loro.
Anche ieri sera un paio di loro sono venuti in mezzo a noi per prendere una giovane ragazza dall’altro gruppo. L’hanno portata via dopo che uno di
loro aveva stordito con il calcio del fucile quello che, presumo, fosse un suo parente. Sono bestie, non esseri umani. Ci maltrattano, ci deridono, ci
derubano non solo di quel nulla che abbiamo ma anche della nostra dignità.
Dopo poco finalmente arriviamo alla radura dietro le dune, lì accanto alla spiaggia.
- “Sedetevi qui e aspettate” dice il più magro degli otto.
Non mi importa di avere di nuovo le labbra secche: forse perché noi tutti abbiamo una sete diversa, quella di un sogno, di una speranza. Quella che
– dopo qualche minuto – vediamo arrivare dal mare.
Spinta a riva da quattro di loro, ecco apparire una barca.
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- “Voi là, avanti, salite a bordo, veloci, veloci!” dice il capo dei nostri aguzzini.
“Prima però di salire mettete tutti 5 dollari qui! Avanti, tirateli fuori e metteteli qui su questa scatola, coraggio!”.
Ci guardiamo attorno spiazzati non tanto dalla somma richiesta ma da quel loro modo di taglieggiare della povera gente.
- “Ma io non ho più nulla” dice una donna.
- “…ci avete già chiesto soldi, non potete, vi abbiamo già pagato!” grida un altro.
- “Zitti, pezzenti, chi non paga non parte!” urla uno di loro. E per far capire che comanda lui, spara in aria una raffica dal suo fucile.
Abu ed io ci guardiamo negli occhi e nelle tasche. Sono gli ultimi 20 dollari. Senza guardarci attorno, li mettiamo nella scatola, poi – dimenticandoci
che non sappiamo nuotare - entriamo velocemente in acqua e saliamo sul gommone trascinato dalle onde che si infrangono sulla riva.
Siamo fra i primi a salire.
Il gommone – di colore verdastro - non è grande: è piuttosto lungo, un po' sgonfio su uno dei due lati. Dietro, vicino al motore, due di loro
armeggiano con una tanica di benzina.
Fra spintoni, uomini che cadono in acqua e donne che arrancano con i loro bambini in mano, ci mettiamo un po' a far salire tutti a bordo. Saremo
forse un centinaio, tutti ammassati gli uni agli altri, un po' come tutte quelle banane che qualche settimana fa caricavamo sul furgoncino del vicino.
L’odore di tutta quella gente ammassata in poco spazio è molto forte. Alcuni, pur di avere un po' più di spazio, si mettono seduti in bilico sopra il
bordo del gommone.
- “Voialtri, ascoltatemi bene” – dice a un certo punto il loro capo reggendosi in piedi sul retro del gommone – “questa manopola qui lungo il motore
serve per far andare le eliche. Se girate il motore, gira anche la barca. Qui, in questa tanica, c’è la benzina. Lì accanto avete una piccola bussola. Ma
non vi servirà: andate sempre dritti, dopo qualche ora, verso il tardo pomeriggio, troverete la vostra terra!”.
Detto questo, fa un salto e scende in acqua. Assieme ad altri quattro suoi compagni gira il gommone verso il mare. Poi, urlando, fa cenno di andare
ad uno dei nostri compagni che si era messo alla guida.
Dopo qualche secondo prendiamo velocità, saltiamo sopra qualche onda che spruzza tutti quelli davanti e usciamo pian piano dalla baia in cui
eravamo.
Alcuni di noi ridono, sono felici. Altri cantano, altri ancora stanno zitti. Tutti siamo bagnati.
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Mentre andiamo sento anch’io un po' di felicità: ce l’abbiamo fatta, ora abbiamo per davvero lasciato la nostra Africa!
Senza accorgermi prendo la mano di Abu e la stringo. Vedo scendere una lacrima dai suoi occhi, poi senza dirci altro, ci abbracciamo ancora e ci
teniamo stretti lungo il bordo della barca.
Adesso il mare è diventato là fuori il nostro nuovo deserto: a parte le piccole increspature delle onde tutt’attorno, tanta acqua, null’altro che acqua,
soltanto acqua. Già, quella che da noi spesso mancava e si cercava nel fiume, nei pozzi o nelle nuvole all’orizzonte…
La nostra barca continua ad andare. Ma adesso quasi nessuno parla: si sente solo il rumore del motore e di tanto in tanto qualcuno che si lamenta
del vicino che spinge. Pigiati come siamo non c’è molto spazio per muoversi. E nemmeno per respirare.
Anche in questo viaggio il tempo sembra non passare mai. Ormai non si vede più la terra: né quella vecchia che abbiamo lasciato dietro il gommone,
nè quella nuova che tutti noi stiamo aspettando all’orizzonte.
Forse è per questo che, ad un certo punto, qualcuno comincia a chiedere:
- “Ma siamo sicuri di dove stiamo andando? Forse ci siamo persi!”
- “No, dobbiamo andare dove ci hanno detto, vedrete che presto arriveremo a terra!”
Mentre alcuni di noi cominciano a parlottare, alcuni bambini cominciano a piangere. Le madri sono ora un po' impaurite.
Alcuni – forse stanchi di stare accovacciati nel poco spazio – provano a stirarsi le gambe. Uno vicino a me si mette addirittura a orinare, fra le urla
dei vicini che cercando di non farlo muovere troppo fanno piegare un po' lo scafo, lì nella parte che già alla partenza era un po' sgonfia.
- “Fermi, state fermi, se vi muovete la barca si capovolge, non lo capite!!” dice urlando un giovane lungo e dai pochi capelli.
- “Ha ragione, dategli retta, non agitatevi” aggiunge quello che ha in mano il motore.
Poi, d’improvviso, dopo aver preso un’ondata secca, un ragazzo seduto ai bordi del gommone cade in acqua.
C’è un attimo di silenzio: che fare?
Ci accorgiamo che il poveretto non sa nuotare: si agita in acqua, cerca di stare a galla ma, quello al motore, tira dritto e continua ad andare avanti.
- “Aiutatelo, fermate la barca, che fate?!” gridano in molti.
Ma il nostro naufrago rimane lì.
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Pochi istanti dopo, in mezzo alle onde, vediamo solo la sua mano uscire dall’acqua, come se ci salutasse...
Siamo tutti spaventati. E ora il mare, come se volesse protestare anche lui, comincia leggermente ad alzarsi.
La nostra barca, saltellando, piegandosi nelle parti un po' sgonfie, regge nonostante tutto e va avanti. Ma il silenzio dura poco e si sente ora
chiaramente il panico alzarsi assieme alle onde.
Vicino a me, alcune donne cominciano a recitare quelle che penso siano delle preghiere. Qualcun altro, lì vicino, invece recita il Corano.
Anch’io ed Abu ci uniamo alla loro, alla nostra, speranza.
Quella che, forse grazie alla forza di tutte quelle diverse preghiere, ancora una volta emerge lentamente da lontano, con un rumore che man mano
che si avvicina vola nel cielo.
- “Un elicottero!” gridano alcuni.
Eccolo laggiù alla nostra destra!
Anche se distante si vede che è grande: se non fosse per un lungo tubo dietro, sembrerebbe aver la forma di una nave che vola.
- “Siamo qui, siamo qui” urliamo tutti, agitando le braccia verso l’alto.
La barca comincia di nuovo ad ondulare.
Alcuni si alzano in piedi cercando di farsi vedere dall’elicottero.
Le onde, il rollio della barca e quello delle urla di molti compagni, ci fanno inclinare pericolosamente sul fianco afflosciato del gommone imbarcando
acqua.
Poco dopo arriva un’onda, breve ma piuttosto alta.
La sentiamo schiaffeggiare lo scafo che fa un sobbalzo secco. Questa volta a finire in acqua sono almeno cinque!
L’elicottero continua a volare, si avvicina e si mette accanto a noi gettando in acqua dei salvagenti. Poi si allontana.
- “Non andate via, non andate via!!” gridano tutti.
Il panico dilaga. Le onde si alzano assieme alla disperazione dei molti.
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Poi - di nuovo – alcuni si mettono ancora in piedi per richiamare l’attenzione dell’elicottero. Questa volta però arriva un’altra onda secca e la barca
si inclina di molto su un lato. La gente si spaventa, grida ancora. E’ un attimo. Poi tutti ci troviamo in acqua.
La barca si è ribaltata.
-“Abu, Abu” grido cercando di tenermi a galla.
Mentre tento di spingermi con le gambe e le braccia verso il gommone che ancora galleggia immobile sull’acqua, alzo la testa per respirare. Faccio
tanta fatica a nuotare, le onde mi fanno entrare molta acqua in bocca: tossisco e sento tossire, grido e sento gridare ma con tutto il fiato che ho
grido mille volte il nome di mio fratello, sperando di ritrovarlo accanto a me.
Non so come riesco a raggiungere il gommone: cerco di prendere il suo bordo con la mano ma tutto scivola. Lotto ancora, non voglio morire qui
come quel poveretto. Poi, mentre cerco ancora una volta di avvicinarmi con un ultimo sforzo, sento da dietro una mano che mi spinge forte verso il
bordo della barca. Eccolo, lo prendo, lo afferro con tutta la forza che mi è restata. Sono ben aggrappato. Adesso non devo più cercare di nuotare.
D’istinto guardo indietro per cercare quella mano che mi ha spinto: eccolo, lo vedo, Abu è lì, che mi guarda un istante in silenzio, come per dirmi
ancora qualcosa prima di scivolare esausto sott’acqua.
Non ho più il tempo di urlare il suo nome.
Non ho il tempo nemmeno per piangere o buttarmi in suo soccorso. Un secondo dopo uno dei tanti naufraghi che nuotano attorno disperati cerca
di aggrapparsi alla mia gamba. E dimenandosi mi strappa i pantaloni mentre salgo sul dorso del gommone rovesciato.
Non mi arrendo ancora e cerco di vedere se Abu è ancora lì vicino. Ma le grida e le urla di chi è in acqua sono ancora molte. Vedo un bambino che è
in bilico sul bordo mentre la madre lo cerca di trattenere con tutte le sue forze. Senza pensarci allungo la mano e li porto su con me. Anche loro
sono salvi. Ma per quanto?
Tutto attorno a noi il mare è pieno di schiuma. Sono le onde che ormai allontanano gli ultimi che – non sapendo nuotare – affogano uno dietro
l’altro cercando di avvicinarsi a noi.
Alla fine, su quello scafo rovesciato, restiamo solo una ventina. Siamo tutti affaticati e distrutti non solo dalla fatica, ma soprattutto da quello che
abbiamo visto passare sotto i nostri occhi.
Ma non c’è tempo per piangere. E neanche per morire.
Perché ecco arrivare di nuovo l’elicottero.
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Questa volta è più in alto, si avvicina e resta sopra di noi.
Mentre cerco di pulirmi gli occhi che bruciano, vedo alla nostra destra una grande nave che si avvicina.
E’ lunga e grande, con una scritta rossa davanti. Rallenta, si avvicina, poi da uno dei suoi lati, esce un gommone con dentro delle persone.
E’ piccolo e si dirige velocemente verso di noi.
Si avvicina al nostro relitto: ci lanciano delle funi.
Il viaggio a bordo della nostra barca è finito. Ne inizia ora un altro, molto più grande.
Adesso, finalmente a bordo della nave, siamo finalmente all’asciutto: niente più vento in faccia, onde e grida tutt’attorno. Alcuni dei nostri
soccorritori passano e ci danno subito delle coperte per asciugarci. Poi ci danno dell’acqua calda da bere.
Sono quasi tutti ragazzi come noi. Fra di loro parlano una lingua che non avevo mai sentito. Li vedo passare veloci, mentre provano a sistemarci in
alcune delle stanze della nave. Noto che fra loro ci sono anche delle donne: non ero abituato a vederne in divisa. Vestono tutti delle tute e un
cappellino blu. Sul braccio portano tutti uno stemma. Deve essere la loro bandiera. Ha tre colori uno accanto all’altro: verde, bianco e rosso.
Sono ancora un po' confuso. Faccio fatica a realizzare se tutto questo sia vero o solo un brutto sogno. E poi sono ancora incapace di pensare al fatto
che qui, in mezzo a noi, non c’è più Abu. Chiedo ad alcuni nostri compagni se si ricordano di lui, se lo hanno visto quando ci siamo rovesciati, se
magari anche l’hanno incontrato qui a bordo.
Ma nulla.
Adesso nessuno mi può aiutare. Il mio cuore batte ma è morto. Anche se ancora sento quella mano che mi aiuta ad andare verso il bordo del
gommone: ancora una volta è stato lui a spingermi avanti, ma per salvarmi, per farmi vincere la gara più importante, quella con la vita.
Il tempo adesso non so cos’è.
Bevo e mangio qualcosa senza farci caso, come un automa. Poi mi metto addosso una coperta e senza rendermene conto mi addormento sfinito.
Il tragitto questa volta però è breve.
Arriviamo in un porto verso sera, ancora confusi e senza sapere bene cosa succederà.
Ci fanno scendere.
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Vedo che a terra ci sono altre persone in divisa, alcune indossano delle tute bianche, altre sono dei dottori con la croce rossa e altri ancora fanno
delle foto.
Veniamo identificati, ci chiedono (ma l’inglese lo capisco ancora poco) il nome, il paese da cui veniamo e tutto quanto ricordiamo del nostro viaggio,
poi i nomi dei parenti e tante altre cose che uno di loro scrive in un registro.
Alla fine mi danno un documento e mi mettono in un’altra fila lì accanto.
Aspetto il mio turno. Quando tocca a me entro in una stanza dove ci sono dei dottori. Mi fanno una visita, scrivono anche loro delle cose, poi mi
dicono di prendere dei vestiti nuovi che ci sono lì accanto. Non sono proprio della mia taglia ma sono nuovi e in più sono puliti.
Facciamo un’altra fila. Un’altra attesa poi finalmente veniamo portati con un grande autobus in un villaggio fatto di case simili a quelle del nostro
vicino. Qui però possiamo accendere la luce a ogni ora, possiamo andare in bagno senza fatica e lavarci con acqua fredda e calda che esce dai
rubinetti.
Qui passiamo alcune settimane, parlando del nostro viaggio, di chi è restato là in mare, delle nostre speranze e di come raggiungere qualche amico
o parente partendo da questo paese che – ora imparo – si chiama Italia.
Alcuni dicono di voler andare in altre città in Francia, Germania, Belgio: solo che per arrivarci capisco che servono altri soldi. Altri dicono che invece
si può decidere di restare qui.
Io non lo so, ci devo riflettere: dopo quanto mi è successo ho bisogno forse di ritrovare per prima me stesso.
Passano i giorni, poi i mesi e adesso, a qualche anno di distanza, eccomi qui, di fronte a voi, in questa bella sala. Nel tempo che è passato in questo
paese che prima mi ha salvato poi accolto, non voglio dire che sono mancate le difficoltà. Sono state tante in verità. La fortuna, le preghiere, il
destino mi hanno però fatto rialzare. Anche grazie a chi ora è qui, accanto a me.
La ricorderà anche lui: questa parte della storia ce la siamo raccontata tante volte.
Era stata una lunga giornata di lavoro quella che avevo passato lì al sole, sui campi, a raccogliere pomodori. Fu lui che mi vide mentre tornavo a
piedi alla nostra baracca, passando con il suo furgoncino.
- “Ehi tu, salta dietro che ti do’ un passaggio” mi disse.
Stanco com’ero non ci pensai su molto.
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Pensavo fosse un altro di quei soliti “caporali”. A un certo punto, lungo la strada si fermò e, aprendo il finestrino che c’era dietro l’abitacolo, mi
disse:
- “Ce la fai ad aiutarmi a scaricare quelle “due” casse là? Dai, se mi aiuti ti offro la cena!”.
Un’ora dopo, con venti casse in meno di pomodori sul furgoncino, eravamo tutti e due seduti a un tavolo di un bar a mangiare un buon piatto di
pasta. E poi, solo due giorni dopo, eravamo diventati colleghi: lui guidava e io lo aiutavo ogni volta a caricare e scaricare la merce su e giù per i
mercati della zona.
Poi, la storia la conoscete: un giorno lui mi presentò a Dario, che poi mi portò da Giorgio e alla fine, eccomi qua in fabbrica a lavorare al magazzino
con voi!
A lui, ma anche a voi tutti che mi avete accolto qui e che oggi siete in questa sala, assieme al nostro direttore, a sentire la mia testimonianza voglio
sinceramente dire che - in questa azienda – voi non mi avete dato solo un lavoro, ma anche la possibilità di vivere una nuova vita. Non dimenticando
però quella di prima, vissuta lontano da qui, con altre persone, amici e parenti.
E adesso, se avete ancora un attimo, vorrei ringraziarvi… donandovi per pranzo un piatto che ho preparato per voi!
E’ un piatto questo che, come potete vedere, viene dall’Africa.
Parla della mia terra, dei suoi colori, dei suoi animali e delle sue genti.
Ma sopra – ecco qua – voglio ora metterci questa pasta, il simbolo della vostra terra, del vostro sole e della vostra tradizione. In altre parole, della
mia nuova vita. Che, adesso posso dirlo, è ripartita anche grazie a questo cibo così buono che da tempo mangio assieme a voi ogni giorno.
La pasta che ho preparato – eccola - come potete vedere è semplice: un po' come me...
Ci sono i Fusilli, che hanno la forma delle eliche che su quel gommone mi hanno portato qui da voi.
Poi ci sono questi pomodori, quelli che ho iniziato a raccogliere nei campi quando sono arrivato in Italia.
Poi c’è l’olio, quello “di gomito” - come dite voi - che vuole simboleggiare il Lavoro, quello duro che però porta tutti noi a casa ogni sera assieme alla
dignità e al rispetto, permettendoci anche di cucinare questa pasta e arricchirla magari con tante altre cose buone.
Ecco, tutto è ricominciato da qui, da questa pasta e da questi ingredienti.
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Manca Abu.
Ma lui sarà sempre per me quello che ora, ecco, metto qui nel piatto: il sale. Quello del mare che l’ha portato via da me ma che, ancora oggi, con
questi piccoli granelli, me lo riporta accanto ogni volta che mangio questa pasta. Ridando sapore e senso a questa mia nuova vita.
Perché, ora lo so, dove c’è pasta c’è davvero speranza…
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Credits: Aboutumbria.it2. CEDRIC – GLI SPAGHETTI
DI MEZZANOTTE
222. CEDRIC – Gli spaghetti di Mezzanotte
Lo sapevo che dovevo andare in aeroporto prima!
E invece adesso eccomi qui in fila imbottigliato nel traffico.
Il navigatore dice che arriverò a Roissy fra 45 minuti.
Dunque, adesso sono le 18.00, l’aereo parte alle 19.30 quindi vuol dire che ti imbarcano alle 19.10 al massimo. Forse, se riesco a lasciare l’auto al
parcheggio sotto e poi correre veloce al Terminal 2F, dovrei riuscire a passare i controlli di sicurezza usando la mia Priority card.
- “Pronto? sì sono Cedric Dubois… mi dica… no, no, confermo: arriverò stasera alle 20.30… sì, a Linate… sì sì, certo, come al solito, merci, grazie!”
E’ da tre settimane che il mercoledì prendo quest’aereo per andare a Milano. Io non volevo, avevo chiesto di seguire quell’altro progetto in Belgio, a
Bruxelles, ma niente, loro – quelli del Personale – non capiscono mai nulla. Per quelli spostare una persona in un team di progetto è come spostare
una cella di excel in un file: tanto chi si muove non sono di certo loro!
E adesso, se dovessi perdere quest’aereo, non ne voglio proprio sapere. E’ stato Pierre, quel genio degli Acquisti, a tenermi due ore con il fornitore.
Lui e le sue procedure! Tanto che gliene frega se noi siamo in ritardo di un mese con il cliente. Una banda di matti, ecco cosa sono, una banda di
matti scatenati…
…e adesso chi è?
- “Sì, pronto? Ah buonasera Signor Rossi, come va, tutto bene? Sono felice di sentirla! … Come? No no no, tutto procede al meglio, dica pure al suo
Direttore Generale che andremo live nei prossimi giorni, c’è stato solo un piccolo ritardo nel caricamento dei files sulla piattaforma, ma ci stanno
lavorando sopra tutti i nostri colleghi dalla Sede con l’aiuto di un team di supporto… ci conti, certo…. La richiamo io appena possibile per un
aggiornamento! … d’accordo… ci sentiamo, a presto, buonasera e… forza Italia per stasera… come? Non si può dire? Ah già, no no no, abbia
pazienza, dimenticavo, eh eh eh… d’accordo, certo, la chiamo domani, buonasera, sì, buonasera…”.
…stronzo! Adesso chiamo Anne, mi deve dare una mano. No, mi deve dare altre 5, no dico 7 persone come minimo! E’ lei che ha fatto questo casino
con quelli dell’IT.
Mmh, ah ecco, finalmente si va: il traffico davanti si muove, super!
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Ora di arrivo… 18,43: forse ce la faccio!!
- “Anne? Cedric… indovina con chi ho appena finito di parlare? … sì, già, proprio lui… e indovina cosa gli ho detto? … eh già, 3 giorni… tu sai cosa vuol
dire, vero?? 5, no dico 7, 7 persone di supporto al mio team di Milano, e da domattina!! … no no cara, io adesso prendo l’aereo, vado in ufficio a
Milano e aspetto domattina con il mio team. Se non ci date quelle 7 persone noi ci fermiamo! … non ne voglio sapere, parlaci tu con loro… il ritardo
è vostro! Punto! E adesso scusami ma devo chiamare subito Sergio perché dobbiamo preparare assieme la riunione di domani con Rossi. Ciao,
ciao….”.
Un altro paio di telefonate, un altro rallentamento, poi ecco là, su nel cielo, un aereo appena decollato! Ci siamo ci siamo! Ora d’arrivo 18,42. Sono
due minuti!
- “Sì, pronto… sì, sono io… salve… come? No no no, non sono mie… non ho proprio idea di chi le abbia lasciate lì… no no, non lo conosco. Ho visto
che ha traslocato la scorsa settimana ma non ho proprio idea di chi sia… d’accordo, grazie, sì… arrivederci”.
Il portinaio, che rottura! Cosa vuoi che ne sappia della vita del nostro palazzo, non ci sono quasi mai…
E poi secondo lui io sono uno che lascia uno scatolone sul pianerottolo?
Ma tu guarda. Sarà ovviamente il nuovo vicino che ha preso il posto degli Oliviers…
Ah, ecco, per fortuna che qui si passa veloci!
Laggiù, ecco il terminal, dai, devo solo riuscire a parcheggiare veloce sperando che questo qui che è davanti non abbia fretta… ecco, ci starei proprio
là… no!!!
Mi ha fregato, maledetto, anzi no… maledetta, lo sapevo che era una donna… ma guarda, che fa? dai muoviti, che ci vuole ad entrare là? Oh,
finalmente…
Ecco là un altro posto, che fortuna, solo venti metri più in là… ho però perso il minuto guadagnato!
Vabbè, ecco qua, parcheggiato!!!
Adesso devo solo prendere il mio trolley, la giacca e… accidenti, il cellulare!
Per un pelo, eccolo, lo stavo lasciando attaccato lì davanti a quel gingillo sul parabrezza.
Chiavi, eccole: chiudiamo e via!
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Per fortuna che qui siamo solo al meno 2. Ah, ehi, guardala, eccola lì, quella che mi ha fregato il parcheggio… ma dove pensa di andare con quel
trolley rosso??
Vabbè, lasciamo perdere, ecco l’ascensore: fantastico, è già qua. Pulsante “Partenze”, “chiudi porte” e vai bello, su, su, veloce.
Ore 19 esatte. Dunque, a sinistra, banco Priority, eccolo là… andiamo andiamo…
- “Buonasera Signorina, ho il volo per Linate delle 19,30: mi perdoni, posso chiederle di passare?” dico ad una ragazza che mi precede in coda.
- “…ah, oui, d’accordo, prego…” mi risponde.
Grande, grande!!
Passo il cellulare all’addetta:
- “Linate, 19,30” le dico.
Lei mi guarda senza dir nulla poi bippa il codice sul cellulare e mi dice di andare avanti. Ora devo fare veloce ai controlli della Sicurezza.
Vaschetta, giacca, cintura, orologio, trolley, busta liquidi…
- “Signore, la sua carta d’imbarco” mi fa l’addetto.
Ecco, ho messo in giacca il cellulare: accidenti, ma me l’hanno appena bippata, che storia questa dei controlli!!
- “Scusi… aspetti che gliela passo, è lì nel cellulare sulla giacca… ecco… grazie mi scusi ma ho l’aereo che sta per imbarcare…”
Ore 19,15. Ce la faccio, entrerò per ultimo, non importa e pazienza se non riuscirò a mettere il trolley sulla cappelliera sopra il mio posto.
Dunque, uscita 22C, uguale giù di là, dopo “Paul” e il “Caffè Illy”.
Oh no, il cellulare squilla! No, adesso non posso!!
Mi precipito al gate, eccolo là, appena in tempo…
Sono proprio l’ultimo. Per un pelo, è andata bene.
L’addetto prende la mia carta d’identità, il cellulare, bippa… ok adesso via dentro il finger vetrato che mi porta all’aereo.
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Arrivo giù, ci sono ancora delle persone che stanno aspettando per entrare. Solita coda di chi non ha fretta…
Ah, ecco, mi ero dimenticato di vedere il posto: 6C, corridoio!
Come al solito l’aereo è pieno.
Accanto a me per fortuna non c’è però nessuno: meglio, così potrò stare comodo e finire di lavorare al mio report sul computer. In questi casi
l’aereo – a parte il decollo e l’atterraggio – è comodo per lavorare senza interruzioni di chiamate. A proposito! La chiamata di prima… vediamo chi
era… ah, è quello dell’IT, lo richiamo dopo quando atterro.
Fa caldo ora, non capisco perché non accendano l’aria condizionata.
- “Mi scusi signorina, perché non partiamo?” chiedo alla hostess che passa un secondo sul corridoio
- “Ancora un attimo di pazienza signore, stiamo aspettando forse ancora un passeggero”
Ecco, lo sapevo. Uno si catapulta come un tornado per venire qui, poi c’è sempre il ritardatario di turno!
- “Mi scusi ancora signorina… può intanto chiedere però se è possibile accendere l’aria, qui fa caldo!”
- “Vediamo cosa possiamo fare signore, grazie”
Beh, speriamo, sembra che oggi sia scoppiata l’estate africana…
Ah, ecco, forse è arrivato il ritardatario!
No!
Non ci posso credere…
Lei!!
Quella con il trolley rosso!!!
- “Prego signorina, che posto ha? … da quella parte...” sento che le dice la hostess di prima
Ma tu guarda!
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Vabbè, sì sarà carina, avrà anche qualche anno meno di me, ma, dico io, come si fa, dico, come si fa ad avere un trolley rosso come quello, con… no
ti prego… anche la borsa rossa coordinata di peluche!
Eccola che passa…
Si ferma… no eh… ti prego…
- “Mi scusi, sono seduta qua” mi dice (in italiano!!) indicando con il dito il posto vuoto accanto a me.
Eh no!!
Anche questo no!!
Me la devo tenere accanto per tutto il viaggio!!!
Mi alzo e la faccio entrare.
- “Assistenti di volo ai propri posti… signori e signore benvenuti a bordo…”
Ecco che chiudono le porte mentre inizia la solita scenetta sulla sicurezza degli assistenti di volo.
Per fortuna la mia vicina è magra: mi ricordo ancora di quel viaggio che avevo fatto al suo posto in mezzo a due lottatori di sumo la scorsa
settimana… che incubo….
Mentre mette il suo trolley rosso sotto il sedile, noto l’altra passeggera che ha accanto, una cinese. La guarda tutta sorridente. Bah, ridono sempre…
anche se gli dici una cosa che non capiscono, che tipi pure loro…
Ci spingono indietro verso la pista. Il comandante fa il suo discorso, poi accendono i motori e ci avviamo verso il decollo mentre gli assistenti di volo
passano velocemente per un ultimo controllo ai passeggeri.
La mia vicina, intanto, apre la sua rossa borsa di peluche.
Avrà almeno tre braccialetti pieni di ciondoli sul braccio… ecco, uno ovviamente ha il cornetto rosso… doveva essere coordinato anche quello!!
Cosa starà cercando??
No, ecco, lo sapevo…
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Il trucco!!
Apre una scatoletta color oro, tira fuori una spugnetta bianca e si mette a imbellettarsi.
La cinese accanto la guarda con complicità, lei le fa un sorriso mentre continua e l’altra, ovviamente, ricambia e poi… ride…
Donne…
E adesso?
No, il profumo no!!
Ci mancava pure quello.
Mi giro verso il corridoio, poi dopo pochi istanti l’aereo decolla.
Dai finestrini della fila accanto entra una luce quasi estiva: si preannuncia un volo calmo senza nuvole.
Finita la salita, dopo che le hostess ci offrono il solito succo e i soliti salatini, apro la borsa e appoggio sul tavolino il computer.
Devo portarmi avanti, domani si preannuncia una giornata dura.
La mia compagna di viaggio invece legge una rivista di moda.
Guarda un pò lo smalto sulle unghie. Di che colore sarà? Ma rosso, non poteva essere altrimenti…
Vabbè… comincio a lavorare… dunque devo fare tre mail da girare in sede e poi il report. Rossi sarà con il fucile puntato, meglio avere già pronte
tutte le risposte alle sue domande!
Ding: “Signori e Signore il comandante informa che abbiamo iniziato la nostra discesa verso l’aeroporto…”.
Veloce, il tempo è passato veloce. E ho solo risposto alle tre mail!
Il report: adesso quando arrivo in albergo mi devo concentrare solo su quello, poi metterlo nella presentazione, chiamare l’IT per vedere se si sono
mossi e capire dai colleghi di Milano se domattina riescono a venire presso la hall per un veloce brief prima di andare da Rossi tutti assieme.
- “Mi scusi, permette?”
La mia vicina mi guarda indicando che deve alzarsi.
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Mi alzo e la faccio passare, poi, mentre lei si dirige verso il retro della cabina, richiudo il tavolino e spengo il PC.
I motori ora calano di potenza: iniziamo a scendere.
La tipa dov’è finita?
Ding: “Signori e Signore, vi preghiamo di allacciare le cinture di sicurezza, richiudere i tavolini e spegnere gli apparati elettronici”.
Boh, nessuna traccia della nostra.
Le hostess passano su e giù preparandosi per l’atterraggio.
- “Pardon?”
Alla buon’ora, eccola…
Mi alzo e la faccio passare alla mia destra.
Ecco perché c’è stata tre ore: la scia di profumo che si è messa di nuovo dice tutto!
Si è anche legata all’indietro i capelli.
Beh, bisogna dire, non male…
- “Assistenti di volo prepararsi all’atterraggio”
La voce del pilota e l’uscita del carrello, seguita dal solito “ding”, avvertono che ancora qualche minuto e atterreremo.
Mi volto verso destra per guardare dal finestrino: e lei prende dalla borsa i suoi occhiali e li indossa come un cerchietto sulla testa.
Si gira verso l’oblò e poi verso di me sorridendo.
Ricambio. Poi, bump, ecco che tocchiamo terra, l’aereo frena e infine girando a destra si avvia verso il parcheggio.
Facendo finta di guardare dal finestrino mi soffermo qualche istante ancora sulla mia vicina.
Il suo profumo mi arriva ancora mentre si mette le mani sui capelli, sistemandosi la piega.
Ding. Le hostess si alzano. E subito dopo tutti i passeggeri.
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Non avevo notato che stasera siamo al finger: attaccati al terminal faremo prima a scendere senza aspettare l’autobus.
Mi alzo, apro la cappelliera, poi prendo il mio trolley. Lei si alza e mi viene accanto.
Abbozzo un mezzo sorriso poi mentre mi metto al centro del corridoio la saluto con un cenno del capo.
- “Buonasera”.
Lei mi sorride e mentre fa per rispondermi le suona il cellulare. Lo prende e comincia a parlare con qualcuno.
Mentre mi fermo a guardarla sento che la persona dietro di me spinge per passare: stanno scendendo tutti, non mi ero accorto.
Spinto dalla marea frettolosa dei passeggeri mi avvio verso l’uscita dell’aereo, poi lungo il corridoio di vetro che porta al terminal.
Siamo al piano di sopra, dunque devo andare verso l’edicola a sinistra e poi prendere le scale mobili. Per fortuna che Linate è piccolo.
Mi volto per vedere se lei è restata dietro.
Non la vedo. Pazienza.
Appena al piano sotto mi dirigo verso le porte automatiche dell’uscita passando accanto ad alcuni poliziotti che tengono al guinzaglio un cane lupo
marroncino. Appena fuori, invece ecco la solita folla delle persone in attesa di parenti ed amici. Stasera sembra siano una marea!
Mi dirigo verso l’uscita del terminal per prendere un taxi e andare in hotel: sento una persona tornare indietro furente. Cos’è che succede?
Eh no, perché non ci sono i taxi qui fuori??
- “Scusi, ma com’è che non c’è nessuno?” chiedo a un altro passeggero che era nel mio volo.
- “Non lo so” mi risponde, poi vedo che prende il cellulare e chiama una persona.
Aspetto: magari i taxi sono nel parcheggio. A volte capita che poi arrivino tutti d’un colpo!
Nulla…
Torno dentro, giro verso il corridoio e mi avvio verso il bar, magari sanno qualcosa.
- “Mi scusi signorina, ma com’è che non ci sono taxi qui fuori?” chiedo alla barista alla cassa.
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- “Ah ma non lo sa? Stasera c’è sciopero!” mi dice un po' annoiata…
Lo sciopero!!
Me ne ero dimenticato, è vero, Cecile prima di uscire me lo aveva detto!
E adesso??
- “Guardi che se vuole c’è un bus dell’ATM, quando esce da quella porta laggiù lo vede…” aggiunge la barista.
Fantastico: ci mancava lo sciopero. Adesso con il mezzo pubblico ci metterò un’ora a raggiungere il Centro. E poi un’altra mezz’ora per arrivare con
la metropolitana in albergo.
- “Mi scusi Signorina, non sono di qua: ma per il biglietto come faccio?” chiedo alla barista.
- “C’è la macchinetta laggiù” mi risponde.
La ringrazio e mi avvio lungo il corridoio. Prendo della monetina e poi con le istruzioni in francese prendo il biglietto ed esco.
Vedo una signora che corre verso il bus: mi volto e, accidenti, mi accorgo che sta per partire!!
Corro anch’io verso l’entrata sul retro: conviene fare presto, prima che passi il prossimo è sicuro che farà notte!!!
Bip-bip-bip: suona già il cicalino delle porte che si chiudono. Entro. Fatta! Appena in tempo…
Le porte chiudono.
- “Aspetti, aspetti” urla un ragazzo dietro di me all’autista!
Le porte riaprono.
Il solito ritardatario!
Ehi, aspetta.
La solita ritardataria!!!
E’ lei, eccola di nuovo, con il suo trolley rosso, la sua borsa rossa coordinata di peluche e, sì lo sento, il suo profumo…
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Il bus comincia ad andare mentre gli altri passeggeri accanto si sistemano.
E’ un attimo.
I nostri trolley si incontrano.
E poi anche i nostri sguardi.
Un sorriso. Il mio. Poi lei mi guarda ed ecco arrivare anche il suo.
- “Sembra che faremo ancora un altro viaggio assieme” le dico cercando di fare una battuta.
- “Già” mi dice lei ridendo.
- “Io sono Cedric” le faccio.
- “Tiziana…” mi risponde. “Dal suo nome mi sembra che lei non sia italiano, vero?”
E così parliamo di noi due.
Non mi accorgo dei minuti che passano.
E neanche dell’arrivo in Centro del nostro bus.
Abbiamo chiaccherato come due ragazzini di ritorno dalle vacanze.
E io forse ho capito che lei, con i suoi capelli raccolti, il suo smalto rosso, la sua borsa di peluche e (adesso le noto) le sue ballerine argentate è come
la brezza di profumo che adesso sento entrare dentro di me.
Il bus apre le porte.
Scendiamo.
Tutto intorno a noi si apre la città.
Ci guardiamo per un attimo negli occhi.
Poi, un secondo dopo, ecco di nuovo squillare il suo cellulare!
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Accidenti…
Ecco lo sapevo: deve essere per forza il fidanzato, marito o compagno… - “Ciao, sì sono in San Babila, al capolinea della 73… sì, va bene… ok… però
aspetta solo un secondo che saluto una persona…”.
Poi alza lo sguardo verso di me, mi sorride, e porgendo la mano mi dice:
- “Beh Cedric, io devo andare… grazie della compagnia…”
- “Oui, certo… d’accordo…”, le rispondo mentre ci scambiamo la mano.
- “…allora… ci vediamo al prossimo sciopero qui o a Parigi…” aggiungo guardandola ancora un attimo prima di perderla nuovamente.
- “Ci può contare… qui in Italia di scioperi ce ne sono sempre molti… un po' come a Parigi…” mi dice. Poi si volta sorridendomi ancora e si avvia verso
il semaforo accanto, riprendendo il suo cellulare in mano.
Il cellulare!!
Il mio, mannaggia, mi sono dimenticato di riaccenderlo!!!
Merde merde merde…
Ecco… dieci messaggi in segreteria… quattro whatsapp e… oh no… una mail di Rossi!!!
Scendo in metropolitana correndo veloce sulle scale
Il biglietto… oh cavoli, non lo avevo timbrato prima sul bus…
Beh, meglio così, qui adesso serve ancora.
In hotel arrivo dopo venti minuti. La sera passa veloce fra mail, power point e poi, prima che arrivi notte fonda, la lunga telefonata di preparazione
con Sergio. Domani Rossi non ci deve fregare!
E invece, dopo una lunga notte al computer, una veloce colazione (ma perché gli italiani si ostinano a chiamare brioche il croissant? non sanno che
la brioche è il pane al cioccolato?!!), il solito delirio della tangenziale alle 8 e la lunga anticamera alla reception del nostro caro cliente, Rossi ci frega
ancora una volta.
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Non solo non presentandosi, ma facendoci trovare in sala riunioni i suoi legali. Dieci minuti ci hanno tenuto. Il tempo di leggere la lista dei nostri
ritardi, dei loro innumerevoli tentativi di venirci incontro, poi la scena finale. Il loro Avvocato che si alza, apre la borsa e tira fuori una lettera: quella
di recesso dal contratto. Non ci hanno dato il tempo di renderci conto di quello che era successo. Hanno chiamato subito dopo la segretaria, sono
usciti e ci hanno fatto accompagnare all’uscita.
Di nuovo in Sede a Parigi, eccoci pronti per lo scontro finale.
Quello in cui, come presumevo, siamo stati noi la cella del foglio excel da spostare. Questa volta però non in un nuovo team di progetto, ma
nell’altro foglio di un file di progetto chiamato “costi diversi del personale”.
Licenziati. Pierre, Cecile ed io questa volta non ci siamo neanche battuti. Era già scritto all’ingresso della sala riunioni che quello sarebbe stato
l’ultimo atto di una farsa iniziata un anno prima.
Prendo l’ascensore e mentre scendo metto sul mio trolley quelle poche cose che avevo lasciato sulla scrivania. Passo a lasciare il mio badge poi
riprendo l’ascensore e saluto i ragazzi, prima Pierre e poi Cecile, che dopo una lunga stretta di mano, mi chiede se voglio un passaggio a casa.
- “Grazie Cecile, stasera vado a casa da solo”.
Esco dall’ufficio ed entro nel puntino in basso di un altro punto, quello interrogativo. Quello che metto ora alla fine di una frase che inizia: e ora?
Vaffanculo a loro, a quel maledetto che mi ha fatto lasciare l’azienda precedente per questa banda di matti.
Metto le mani in tasca. Cerco il cellulare.
L’abitudine. Che scemo. L’ho lasciato prima a loro, dopotutto era quello aziendale.
Mi sembra strano uscire a quest’ora, alle cinque di sera, con la luce fuori, la città ancora viva e i primi impiegati che tornano a casa.
Prendo la metropolitana senza pensare a nulla.
La rabbia voglio lasciarla dietro a quelle porte.
Eccoci. Dove ho messo le chiavi di casa?
Voilà: per un attimo mi era venuto il terrore di averle lasciate nel cassetto in ufficio!
- “Buonasera Sig.Dubois!”
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Il portinaio… oh no, è ancora qua!
- “ma…che piacere vederla… tutto bene?”
Fa strano. Forse sono io il più imbarazzato. E’ la prima volta che mi vede rientrare a quest’ora.
- “Sì, certo, grazie… buonasera…” gli dico aprendo il cancelletto dell’ascensore facendo finta di avere fretta.
Mentre salgo provo a pianificare qualcosa per la serata: lascerò su la roba per andare subito al supermercato, non ho molto in frigo…
Eccomi, terzo piano. Riapro il cancelletto dell’ascensore e mi dirigo verso la porta bianca del mio appartamento.
Toh, ecco lì lo scatolone che diceva il portinaio. Beh, in effetti, non è poi così ingombrante… ma mollarlo lì non è proprio educato...
Prendo le chiavi e apro la porta. Entro, lascio all’ingresso il mio trolley, poi faccio un salto in cucina per controllare se c’è qualcosa da mangiare.
Nulla. Vabbè andrò giù al supermercato come avevo pensato. Spengo la luce, apro le imposte in sala poi vado alla porta e infine all’ascensore.
Occupato.
Mentre aspetto mi accorgo di avere una stringa delle scarpe slacciata. Non me ne ero accorto…
Mi piego, la allaccio poi sento che l’ascensore si ferma davanti a me.
Mi alzo e mi sposto di lato: non sarebbe il caso di finire questa serata con il cancelletto in faccia!
Ma… aspetta… forse la porta di ferro dell’ascensore mi è davvero arrivata addosso!
Quelle scarpe che vedo… quel profumo che sento…
Alzo lo sguardo.
- “Cedric?”
- “Tiziana?”
- “Ma… tu che ci fai qui?”
- “No” le dico io “tu che ci fai qui?”
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- “Abito lì” mi dice indicando la porta accanto alla mia.
- “Allora sei tu quella del pacco…”
Scoppiamo a ridere.
- “Dove stai andando?” mi chiede
- “La domanda in effetti è quella giusta…”
Come nel bus, ci mettiamo lì nel pianerottolo e… ri-cominciamo a parlare.
Le racconto quanto successo, il viaggio di andata e quello di ritorno. Di quel progetto andato male, del casino causato dagli acquisti, del team
sottostaffato, di quel maledetto ingegner Rossi e del suo team di avvocati e di tutto quello che oggi al rientro avevo dovuto affrontare in Sede.
- “Hai programmi per cena?” mi chiede ad un certo punto.
- “…no…”
- “Dai, allora vieni da me, tra mezz’ora va bene?”
Tutto è iniziato lì.
Mezz’ora dopo.
Entrando a casa sua, sedendomi sullo scatolone che prima c’era fuori dalla porta: quello che al suo interno aveva una scorta di pasta italiana che
Tiziana si era fatta mandare da suo padre. Quello che ieri mattina le aveva chiesto all’improvviso di raggiungerlo a Milano. Quello che, mentre
scendevamo dall’autobus l’aveva chiamata al telefono. E con il quale, da Avvocato, aveva passato tutta la notte di fronte al computer per preparare
assieme una lettera. Quella di cessazione di un contratto con una società francese.
Fu in quel momento strano, in cui non sai se alzarti e uscire subito oppure se restare lì perché la donna che hai di fronte ti piace così
maledettamente che non te ne importa nulla di tutto il resto, che Tiziana mi sorprese ancora una volta.
- “Ti piacciono gli spaghetti?”
Guardandola non solo negli occhi ma anche in fondo al cuore, avevo capito che la mia risposta sarebbe stata sì. E che quegli spaghetti avrebbero alla
fine legato la nostra storia.
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Assieme a quel sugo rosso - come il suo vestito, come la sua borsa, come quel suo smalto - che adesso, assieme a quella pasta condiva la prima delle
nostre cene.
Adesso lo posso dire.
Fu in quel giorno – a mezzanotte - che capii una delle cose più importanti della vita.
Ci sono storie che iniziano alla fine. E ci sono anche storie che – non appena le assaggi – capisci subito che sono lunghe e buone.
Come gli spaghetti al semplice profumo rosso di Tiziana…
LO SAPETE CHE?
Il pomodoro italiano ha mille sapori!
Pizzutello, Ciliegino, San Marzano, Datterino, di Pachino, Cuore di Bue, a grappolo, della
zona vesuviana, dell’Agro Sarnese-Nocerino, della Sardegna, di Corbara, Torpedino,
Fiaschetto, d’Abruzzo, Marinda, giallo, di Villa Literno, Prunill, di Parma, Siccagno.
Il pomodoro italiano è uno dei tesori del nostro Paese. La sua storia è la nostra storia, la
sua origine è quella dei paesi in cui viviamo, il suo clima è quello che ogni giorno
assaporiamo, il suo sapore è quello che ci accarezza ogni giorno, crudo o cotto, con
origano o solo sale, con basilico e olio o anche con tutte le altre verdure del
Mediterraneo.
A voi quale piace di più?
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3. MENG – Pasticcio di maccheroni
383. MENG – Pasticcio di maccheroni.
Vivere a 7 ore di fuso orario da casa non è facile.
Ma vivere ogni giorno in un mondo completamente diverso da quello di casa, lo è molto di più.
Adesso, mentre il taxi arriva finalmente al Pudong airport, lo posso dire: partire dall’Italia e andare a vivere a Shanghai è stata dura.
Forse è per questo che sei mesi qui sono passati così veloci.
Ma non poteva essere altrimenti: qui in Cina tutti sono veloci. In metropolitana, in ascensore, ovunque tu vada scopri che la fretta e la velocità sono parte del
loro modo di vivere. Ricordo che una volta ad un semaforo in centro rischiai di venire travolto dalle bici nonostante gli avvertimenti di qualche amico che mi
aveva messo in guardia dal caos cittadino.
Adesso però posso dire di essere stato fortunato a venire qui a lavorare. Nonostante sei mesi non siano tanti, di cose a Shanghai ne ho imparate!
E’ forse per questo che mi metto a scorrere ora dal cellulare tutte le foto scattate dall’arrivo fino a qualche giorno fa.
Poi dalla app delle previsioni vedo che fuori ci sono 20 gradi. Buffo. La stessa temperatura di quando ero arrivato ad Aprile!
Eccoci al terminal. Pago i miei 100 Yuan al tassista poi esco e prendo i miei due bagagli.
Sul tabellone vedo che il volo della China Eastern per Fiumicino non ha ritardi: con pazienza (che fretta c’è?) mi metto in coda per il check-in e la consegna dei
miei bagagli.
Precisi decolliamo alle 12,30. Le ore di volo oggi saranno 16. All’andata il viaggio sembrò molto più lungo: forse l’incognita di un paese che non conoscevo, la
sensazione che sarei stato a lungo fuori casa. E forse il dolore, ancora troppo fresco, per la perdita di mio padre. Che non si era mai accontentato della sua
Napoli. Spesso mi raccontava del suo primo viaggio via da casa, da solo, appena diplomato. Con in mano la tredicesima di nonno, operaio a Bagnoli. Una vita, la
sua, che arrivò in Cucina solo dopo pochi anni. Prima al ristorante di un amico di zio, in città, poi – quello che fu il suo giorno più fortunato - alla mensa della
FIAT a Mirafiori.
- “Perché è lì che poi incontrai mamma, che avevi capito?” ricordo che diceva sempre scherzando.
Ho sempre portato con me la loro foto, quella in cui da giovani sposini, scattarono in viaggio di nozze a Firenze. Mamma diceva che fu lì, la sera dopo, che venni
concepito. E forse la terra toscana me la porto ancora dentro da qualche parte: sicuramente questo spiega la mia grande passione per il Chianti!
Ma la mia terra in fondo è sempre stata Napoli.
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Lo sento sempre quando torno a salutare mio fratello, che ormai da qualche anno vive giù. Ma forse lo sento ancor di più quando sono in cucina e quando mi
ricordo di mamma. Lei sì che era una regina ai fornelli. Quasi ogni sera mi piaceva mettermi lì a vederla preparare per noi la cena: la aiutavo a preparare la pasta,
il sugo, la carne, i dolci. Quanti bei ricordi. E quante cose che ho imparato da lei!
Reclino di poco la mia poltroncina e guardo un paio di film. Il cibo è quello che è: prendo il pollo, ma – senza pensarci troppo – lo lascio a metà e mi metto a
sgranocchiare le nuvole di soia che un collega cinese mi aveva regalato prima di partire. Poi mi addormento.
Mi sveglio giusto in tempo per l’ultima cena cinese. Poi ancora il tempo di un po' di musica sulle cuffie ed ecco che l’aereo rallenta, vira e poi abbassa il carrello:
Roma è sulla destra.
Scendendo dall’aereo, respirando nuovamente l’aria (un po' meno inquinata) della mia Italia, mi emoziono a rivedere il nostro caos ordinato, la nostra Polizia ai
controlli e poi tutte quelle persone nei negozi che parlano italiano. Mi avvio verso il Terminal dei Nazionali, arrivo al mio gate assieme alla folla degli ultimi
pendolari che prendono il volo delle 20,00 per Torino. Poi ci imbarchiamo.
Che strana sensazione prendere un volo nazionale e sedersi vicino a… un cinese!
Mentre ci avviamo al decollo vedo che fuori ormai è buio.
E io sono un po' stanco. Ma non ho voglia di dormire qui in aereo come il mio vicino che, come d’uso (ormai ci sono abituato), si è tolto le scarpe per restare in
calzini…
L’aereo si dirige verso casa ma io viaggio ancora a Shanghai. Una città che – venendo dal tuo mondo occidentale – ti sbaraglia appena arrivi.
Intanto pensavo che tutti parlassero l’inglese: sbagliato.
Altra cosa: se credevo che a Torino ci fosse il massimo dell’inquinamento urbano, mi sbagliavo di grosso. Lì a Shanghai, da quanto c’è n’è, quasi tutta la vita
sociale alla fine viene svolta all’interno delle case, delle scuole, degli uffici. E se esci è meglio usare la mascherina anche se hai controllato i livelli di PM10
monitorati nel sito dell’ambasciata americana.
Ma quello che mi ha fatto impazzire di più lì è stata però l’acqua: assolutamente da usare solo dopo che è passata dal depuratore. Prima da quello del caseggiato,
poi da quello che ho messo nella casa che avevo preso nella zona della concessione francese, vicino all’hotel stellato in cui, per tutti quei mesi, avrei lavorato.
Già, perché la vita dello chef – quello itinerante - non è facile.
Ero diventato chef non solo grazie a mamma. Dopo la scuola, gli stages, le stagioni nei villaggi vacanze fra Italia e Kenya, avevo trovato tante piccole soddisfazioni
professionali. Poi ecco arrivare finalmente la grande occasione: un lungo e ben pagato contratto iniziale fuori dall’Italia. Grazie alla Federazione. Quella che, dopo
la morte di papà, mi aveva aiutato trovandomi subito quel posto a Shanghai.
L’inizio, nella cucina super-organizzata e ben rifornita dell’hotel diretto da una quarantenne svizzera di Zurigo non poteva che essere “friendly”.
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Lavorare con una nuova brigata di cucina è sempre molto intenso: quando si arriva in un nuovo team è spesso difficile venire accettati nel gruppo. Tutti in
squadra – nonostante abbiano visto il tuo curriculum - hanno bisogno di sapere che entrerai in sintonia con “le loro” modalità di lavoro. In cucina, si sa,
esistono decine di metodi per fare specifiche operazioni. Possono anche cambiare le attrezzature, lo schema della cucina, l'organizzazione dello staff. Ma
in cucina la routine è sacra.
Certo, rispetto a un tempo, anche in cucina la modernità è entrata non solo grazie a nuovi ingredienti o semilavorati, ma anche grazie a nuovi macchinari.
E anche a causa del costo del lavoro. Quello che resta ancorato alla componente professionale più elevata dei costi: alla fine è la componente umana
quella che – in qualunque ristorante – determina il successo o l’insuccesso.
Così come sosteneva già nell’Ottocento il cuoco francese Auguste Escoffìer, dalle 10 del mattino a mezzanotte il mio compito di “chef de cousine” è
sempre dettato da una precisa disciplina. Quella che deve essere da modello e ispirazione per tutto lo staff. Fare la spesa, dirigere la brigata, sperimentare
o insegnare nuove ricette, correggere gli errori.
La squadra che avrei dovuto gestire era stata strutturata ottimamente dal mio predecessore, un caro collega di Caserta. Anche se “Iaowai” (straniero in cinese),
Pino - grazie al suo carisma e al peso… della sua stazza (95 kg di larghezza per 1,95 metri di altezza!) - era riuscito a mettere in riga tutti lì dentro.
Tutti tranne uno.
All’inizio, lo chiamavo Ming. Esatto, come i famosi vasi cinesi.
Solo che lui, anziché rompere i preziosi vasi della dinastia della “Luce” (“Ming” in cinese avevo imparato significava proprio quello), faceva regolarmente cadere
per terra gli altrettanto fragili piatti di ceramica su cui serviva brodi. Quelli a cui, come aiuto-chef potager, era addetto.
Una volta, con la sala occupata quasi per intero da una delegazione di industriali tedeschi, era riuscito a fare il record: 5 piatti, uno dietro l’altro, caduti per terra
in cucina a causa di una sbadataggine che quel giorno gli era quasi costata il posto. Cucinare richiede ordine e disciplina, rapidità e precisione. Nulla si può
improvvisare!
Con il passare dei giorni e poi delle settimane, la brigata era di nuovo affiatata.
Poi arrivò quella sera.
Ricordo che era stato un giorno molto intenso lì in cucina.
Avevamo saputo solo qualche settimana prima che – da lì a qualche giorno – la Direzione centrale della nostra Sede avrebbe inviato un ispettore. Una cosa
normale. Siamo abituati a questo, fa parte delle regole del gioco nella nostra catena alberghiera internazionale.
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Sapevamo che questo auditor sarebbe venuto una sera, ma non quando e, soprattutto, non avevamo idea di chi fosse. Sapevamo invece che si sarebbe seduto ad
uno dei tavoli, magari in compagnia di un collega. E che avrebbe consumato un pasto come un qualsiasi cliente. Solo che alla fine della cena sarebbe andato dal
Direttore dell’albergo, il quale avrebbe chiamato me e poi i vari responsabili della brigata per condividere il risultato dell’audit.
Mentre stavo pensando a come sostituire uno dei nostri Sous Chef – ammalatosi qualche sera prima – Juan, uno dei nostri Chef de Partie, si fece avanti. Era un
tipo sveglio, dai modi decisi, forte forse delle sue origini castigliane.
- “Chef, che ne dice se per le prossime sere prendo il posto di Pierre? Non penso che tornerà prima di due o tre giorni. Prima di venire qui, anch’io mi occupavo di
Carni. Mi potrebbe sostituire quel ragazzo coreano che ha appena finito uno stage in quel ristorante francese che c’è alla Concessione, si ricorda?”.
L’idea era buona, tutto sommato di Juan mi fidavo. Di quel ragazzo giovane un po' meno, ma Ming avrebbe potuto affiancarlo sotto l’occhio attento dello stesso
Juan.
Fu così che quella sera la squadra era di nuovo al completo. Nonostante si sapesse dell’audit il clima era tranquillo. I nostri piatti e le nostre attrezzature erano
ormai “una gioiosa macchina da guerra” e questo piccolo intoppo non avrebbe causato più di tanta preoccupazione.
Quella sera in sala c’era la solita clientela. Da giorni era arrivata in hotel una squadra di basket spagnola. Juan e gli altri quattro colleghi spagnoli li conoscevano:
erano anch’essi degli appassionati sportivi e, dopo tutto, portavano in quella terra lontana un po' dello spirito iberico che loro spesso rimpiangevano. Ma senza
perdere la loro professionalità. E senza mancare di attenzione in cucina. Gli avevo detto di andare a salutarli a fine serata, verso mezzanotte, quando tutti loro si
ritrovavano al bar per passare un’oretta insieme davanti all’ultima birra.
E così fecero. Alle 23,45 – dopo aver controllato che tutto fosse in ordine – dissi loro di smontare 15 minuti prima. In cucina ormai non c’era più nulla da fare e
poi tutti i ragazzi erano d’accordo: non capita tutti i giorni di avere dei campioni della propria squadra lì accanto.
Non importa che quei due clienti che stavano finendo il dessert al tavolo 10 erano proprio i nostri ispettori (i voti che ci diedero furono tutti ottimi).
Perché la cosa più importante stava accadendo altrove.
Mentre noi tutti stavamo andando come da procedura dal Direttore e dai due ispettori, nel ristorante entrò infatti un signore sulla quarantina.
Proprio quando l’ultimo dei camerieri stava mettendo a posto alcuni tavoli per la colazione, lui si mise a sedere e, con fare molto umile e dispiaciuto, spiegò al
ragazzo che era appena arrivato dalla Corea e che voleva solo mangiare una cosa veloce, giusto per riempire lo stomaco prima di andare in stanza.
Il cameriere gli spiegò che a quell’ora la cucina era ormai chiusa e che non era possibile scegliere dalla carta.
Ma il cliente, con grandi sorrisi ed ampie rassicurazioni, gli ribadì che non era un problema: gli sarebbe bastato un piatto qualsiasi, anche un’insalata, qualcosa di
già pronto, senza troppe pretese.
Fu così che avvenne quello che in seguito fece scalpore in tutta la città.
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Il nostro diligente cameriere gli diede dell’acqua, gli apparecchiò un tavolo e poi gli disse di aspettare il suo rientro dalla cucina, per capire cosa si poteva fare.
In cucina, essendo ormai passato un quarto d’ora dopo la mezzanotte, era rimasto per caso solo Ming che, dopo aver salutato il giovane stagista, quello coreano,
che Juan ci aveva raccomandato, si stava mettendo a pulire per terra dopo che – ancora una volta – aveva per sbaglio fatto cadere per terra un vassoio di frutta
avanzata.
Il cameriere gli disse che in sala c’era un ospite dell’ultimo minuto e che questo aveva chiesto un piatto senza troppe pretese.
E Ming, quella sera, senza farsi prendere dal panico, fece il miracolo.
Grazie anche al fatto che, appena arrivato, da buon italiano avevo cercato di portare con me in cucina la passione per la pasta.
Una volta alla settimana, poco prima della nostra cena, preparavo per tutti un piatto di pasta: a volte al ragù, altre alle verdure o con il pesce, la mia specialità. E
lui, Ming – mentre si metteva lì a guardarmi per imparare - mi ricordava a volte un po' me, da piccolo, davanti alla mamma.
Certo, non era stato facile fargli capire certi abbinamenti: da buon cinese lui aveva le sue teorie…
Ma tornando a quella sera, qualcosa di diverso successe davvero.
Perché, senza esitazione, lui prese una delle mie scatole di maccheroni – quelle che avevo messo in un angolo tutto “italiano”, accanto alle forme di Parmigiano
che ero riuscito a farmi mandare da un fornitore di Parma – e poi, ricordandosi delle mie “Lezioni” – prese del sedano, una carota e una cipolla. Poi, prendendo
del ragù che avevo avanzato la sera prima in una delle nostre cene, mise tutto in pentola a soffriggere sfumando con del vino bianco e infine aggiungendo l’ultima
scatoletta di passata di pomodoro che c’era nella “mia dispensa”. E un ingrediente (segreto!) che non svelò mai, dicendo solo che era “orientale”.
Poi, una volta bollita l’acqua, ci mise la pasta e poi - non so come - gli venne poi in mente di fare della besciamella.
Mise tutto in una casseruola, unì il tutto e via nel forno ancora caldo (dato che avevamo preparato delle torte per la colazione del giorno dopo).
La spruzzata di parmigiano sopra la mise mentre chiamava il cameriere 15 minuti dopo.
L’ospite coreano mangiò tutto!
Poi chiamò di nuovo il cameriere.
E gli chiese se poteva parlare con il cuoco.
Ming non se lo aspettava.
E neanche noi.
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Quell’ospite, dopo avergli fatto qualche domanda sugli ingredienti, prese una penna, poi un taccuino e – dopo averci scritto su qualche nota - disse infine a Ming
che gli sarebbe piaciuto parlare con l’head chef o il direttore del ristorante.
Ming – impaurito – mi chiamò al cellulare pregandomi di raggiungerlo al tavolo per parlare con quell’ospite inatteso.
Un ospite che – dopo i soliti saluti – si presentò per quello che era in realtà.
Quella sera, senza saperlo, avevamo avuto ospite al ristorante il più famoso critico culinario di Shanghai.
Il giorno dopo, nel suo blog su internet, pubblicò il suo selfie con Ming e mise una di quelle recensioni che immancabilmente crearono una lunga coda all’entrata
del nostro ristorante. Costringendoci ad aprire una mezz’ora prima e a chiudere una mezz’ora dopo per accontentare tutti quelli che andarono poi a sedersi ai
nostri tavoli per assaggiare una “specialità italiana” fatta da un cuoco cinese!
Fu in quel momento che capii che Ming non era fatto per i brodi ma per la pasta.
La sua pasta. Ma anche la nostra pasta.
Quella che era diventata “Meng” (“sogno” in cinese).
Quella che – da quel giorno – noi tutti ribattezzammo “pasticcio alla Meng”.
444. SUSAN – Un ditalino è per sempre
454. SUSAN – Un ditalino è per sempre.
Se il primo non si scorda mai, a volte capita così anche per il secondo.
Per me Fabio infatti non è stato solo il secondo vero amore.
Perché a dire il vero il nostro è stato un amore durato due volte, in due tempi prima divisi e poi uniti per sempre.
Il primo (breve) iniziò a bordo di un (lungo) volo da New York a Londra. Una storia durata una decina d’ore, il tempo di un viaggio che – seduti accanto nella
stessa fila – era nato da quelle “due chiacchere” che, io italo-americana e lui italiano di madre americana, avevamo subito cominciato a scambiarci in volo.
Fu una di quelle storie che, arrivati a Londra, si perse nella promessa di un altro bacio, di in un altro luogo, di un altro fuso orario.
Il secondo inizio invece si materializzò un anno dopo.
Ce lo regalò ancora per caso il destino (quanti scherzi che ci ha fatto!), in una sala d’hotel che fece da scenario alla nostra seconda volta, o a ben vedere alla
nostra seconda occasione di vivere meglio la prima!
Fabio, direttore di museo, era diventato con il tempo un critico d’arte, girando quasi tutti i continenti. Non per “criticare” l’arte, come diceva lui, ma per
trovarla e aiutarla a crescere fuori dai musei e dai circuiti tradizionali, per farla entrare nel cuore di chi spesso purtroppo la vede solo nei libri.
Una passione che non poteva non incrociarsi con la mia: quella di una fotografa innamorata di un’altra arte, molto meno antica di quella di Fabio, ma non per
questo meno affascinante. Quella di fotografare il cibo nelle sue innumerevoli espressioni era un qualcosa che avevo scoperto dopo aver passato anni dietro a
una scrivania, come manager in gonnella e per giunta in carriera.
E così, un anno dopo, eccoci ritrovati per caso lì alla reception di un hotel a Sorrento, uno di quelli che la Storia ce l’ha non solo dentro le stanze, ma anche fuori
nei giardini a picco sul mare e nei profumi di piante e frutti che solo quella Costiera riesca a regalare.
Ma questo nostro secondo tempo fu più un viaggio che un’avventura. In realtà non lo era stata mai. La nostra infatti era stata un’emozione unica che nei mesi
che seguirono (diventati poi un anno intero) vivemmo fino in fondo lungo un’unica strada, un’unica città, un’unica isola.
A Capri ci arrivammo infatti dopo pochi giorni: doveva essere la meta di una gita di un giorno, una di quelle che inizia e finisce in un traghetto che parte e in uno
che arriva. A noi che amavamo l’arte della natura, quel posto, quelle rocce, quelle strade, quell’aria quasi irreale non ci regalarono solo l’anello che poi
portammo al dito qualche mese dopo ma anche un magico abbraccio, ancora più stretto di quell’anello. Quello che ci legò per sempre sotto quel sole che era
apparso dentro di noi dopo la nostra promessa, quella scambiata lungo il sentiero che dai Faraglioni porta a Via Camerelle. Un luogo quasi fuori dal tempo, in
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cui i profumi della macchia mediterranea si mischiano ai ritmi del cuore e all’emozione di una vista impagabile, unica, come quel lungo bacio che ci
scambiammo sotto il sole di mezzogiorno.
Dopo qualche giorno Fabio ed io decidemmo che era arrivato il momento di vivere lì prima la nostra storia e poi il nostro lavoro.
Per i nostri impegni da Napoli si poteva partire per Roma, e da Roma per tutto il mondo.
Ma solo – come Ulisse e Itaca - per tornare a casa. Quella che un giorno Fabio mi portò a visitare regalandomi poco dopo le chiavi. Una sorpresa non solo
perché era vicina ai nostri Faraglioni - dove amavamo andare a prendere il sole e poi a mangiare della pasta al pesce coccolati dalle onde - ma anche perché
quella casa si immergeva in un’esplosione di fiori, di colori e di profumi che tutt’attorno la circondavano. Proprio come il nostro amore.
Fu così che ci trasformammo felicemente in pendolari di quell’amore che - ogni volta - ci riportava alla nostra Capri, alla sua gente, alle sue piazzette, alla sua
natura, alle sue passeggiate. E alla nostra immancabile cena del sabato sera, sotto la veranda, di fronte a quello spettacolo che solo quell’isola ti sa lasciare nel
profondo del cuore.
E come un sacerdote che celebra il suo rito secolare, ogni sabato sera Fabio alzava davanti a quell’altare della natura il nostro piatto preferito: semplice ma
ricco di sapori. E di sole. Un piatto quasi mistico, il cui pane era la nostra pasta corta e il suo vino era quello rosso, fruttato che avevamo bevuto assieme già la
prima volta.
La ricetta di quel rito Fabio non me la volle mai rivelare: è un segreto, diceva.
- “…ti ho detto che domani torno negli Stati Uniti? Starò via quattro giorni, Miami, come l’altra volta…”
Era da un po' che Fabio faceva la spola per lavoro a Miami.
Ci avevo vissuto per qualche anno dopo il college. Una breve esperienza in una delle più grandi società di logistica dove mi ero occupata del database clienti,
poi San Francisco, Seattle e di nuovo a casa, a Brooklyn. Dove di tanto in tanto tornavo, ma sempre e solo per lavoro. Perché lì era finita la mia prima storia. E
perché a Capri ormai c’era la mia veranda da dove il mio cuore partiva per navigare fra le onde del mare e quelle della natura, partendo giù al porto piccolo
attraverso l’arco naturale e le sinuose curve della via Krupp.
A quella sua domanda risposi:
- “…no, ma quasi quasi ne approfitterei per venire con te a Roma: lì c’è Angela che mi aspetta, è da tempo che insiste perché faccia qualche foto al suo nuovo
ristorante, dove ha assunto uno chef famoso. Se vuoi – aggiunsi - prendiamo assieme il treno, che ne pensi?”
L’idea era ottima, il viaggio a Roma anche: avremmo preso il solito treno veloce, la camera in quell’hotel vicino a Piazza di Spagna, poi il mattino dopo avremmo
avuto ancora il tempo per fare colazione assieme. E così fu.
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Quel giorno ci sentimmo ancora un paio di volte al telefono prima che Fabio lasciasse Fiumicino: avevamo avuto l’idea di organizzare nel fine settimana una
cena con i vicini e bisognava pensare a cosa avremmo potuto offrire oltre alla nostra pasta.
Quei giorni passarono veloci, forse perchè pieni di lavoro. Io ero orgogliosa delle foto che scattai al ristorante di Angela: tant’è che le pubblicai subito con
grande successo in una recensione del suo ristorante: Angela era al settimo cielo e non finiva più di ringraziarmi.
Poi di nuovo il treno ed eccomi al molo Beverello, pronta per prendere l’aliscafo per Capri.
Il tempo di un mattino di settembre è sempre uno dei migliori: il gran caldo ormai è andato, non così le folle di turisti…
Eccoli qui tutti in fila, pronti a salire a bordo, fra esclamazioni e risate in tutte le lingue del mondo.
Oggi mi siedo all’aperto: ho voglia di respirare la brezza del “mio” mare e vedere la “mia” isola avvicinarsi maestosa alla luce del mattino.
Dopo poco partiamo. Usciamo dal porto e ci dirigiamo verso il largo mentre il vento mi accarezza i capelli.
Mi metto gli occhiali da sole, il foulard regalato da Fabio e le cuffiette che attacco subito al mio cellulare.
Fabio mi ha scritto ieri sera che arriverà a Roma in serata e che, dopo una breve sosta in città per un’ultima commissione, mi raggiungerà a casa. Anche lui con
questo mio traghetto. Per ridere gli mando una foto del posto che occupo. Venendo a casa potrà scegliere lo stesso sedile.
Il viaggio verso Capri procede rapidamente, il mare è tranquillo e dopo un’oretta arriviamo a Marina Grande.
Appena scesa a terra scatto una foto a una giovane coppia di americani in viaggio di nozze. Quando scoprono che anch’io sono una loro connazionale, mi
tengono quasi un’altra ora a chiaccherare mentre saliamo con la funicolare verso la piazzetta.
Arrivati in via Camerelle li saluto, indicandogli la strada per arrivare ai Faraglioni. Poi mi dirigo alla nostra villetta, vicino al l’hotel Luna. Anche oggi, passando
accanto ad uno dei noti negozi di profumeria caprese, mi fermo per acquistare una fragranza per la casa.
Appena arrivo accendo internet e controllo qualche mail al PC. C’è un nuovo cliente che vuole un servizio a Londra per rilanciare la sua pasticceria. Mi chiede se
possiamo organizzare una skype nei prossimi giorni per parlarne.
Skype: accipicchia, me ne ero quasi dimenticata! Non ho aperto il programma: dovrebbe esserci un messaggio che Fabio è solito mandarmi prima di decollare
da Miami.
La batteria è quasi scarica: mi avvicino alla presa in cucina e sento suonare alla porta.
Deve essere Tony, il nostro simpatico vicino: deve avermi sentito rientrare e forse vuole invitarci a cena una delle prossime sere.
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Mi dirigo verso l’ingresso, a pochi metri dalla cucina. La villetta non è molto grande, appena una sessantina di metri quadri, quasi della stessa misura della
nostra curatissima veranda.
Apro la porta.
- “La Signora Susan Hailey?”
Vedo davanti a me due uomini in divisa.
- “Yes, sì… cosa posso fare per voi?” rispondo un po' sorpresa.
- “Buongiorno, siamo dei Carabinieri. Io sono il capitano Morandi e lui il maresciallo Santoni. Avremmo bisogno di parlare con lei Signora Hailey, possiamo
entrare?”
Li faccio accomodare in veranda, passando dalla cucina e poi lungo il corridoio pieno di foto che avevamo scattato insieme durante questi anni.
- “Prego, capitano, posso offrirvi qualcosa?”
- “No, grazie signora. Le chiedo di sedersi un attimo. Ho bisogno di parlarle. A proposito di suo marito. Fabio Scalise”.
Guardo quei due uomini in divisa, sono giovani, quasi miei coetanei. Sono confusa e non faccio nulla per nasconderlo.
- “Signora Hailey, ho il compito di riferirle che suo marito, Fabio Scalise, è scomparso da ieri in Sud America”.
- “Mi scusi, capitano, non capisco… ci deve essere un errore… davvero… mio marito è di ritorno da Miami, arriverà qui domani, dovrebbe essere in aereo…”
- “Signora, ho bisogno di dirle una cosa…. suo marito non è andato quattro giorni fa a Miami”.
- “Ma non è possibile, guardi, ho qui una sua foto che mi ha mandato appena arrivato a Miami, aspetti che prendo il cellulare…”.
- “Susan…mi perdoni, sono il maresciallo Santoni. Lavoro alla DIA, la Direzione investigativa antimafia italiana. C’è una cosa che deve sapere su suo marito,
Fabio Scalise”.
Un anno e tutti i momenti più belli della mia vita passarono davanti a queste parole come un uragano…
Non avevo il fiato per respirare.
Le parole per parlare.
La bocca per urlare.
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In tutto questo tempo Fabio non mi aveva mai rivelato che in realtà non era un critico d’arte.
Lo venni a sapere quel giorno, da quei due suoi colleghi.
Che, per più di due ore, mi raccontarono chi era davvero Fabio.
Il vice questore Fabio Cannisi, nato a Palermo, ex carabiniere, era da qualche anno alla DIA, per una missione sotto copertura, della quale nemmeno loro
potevano parlare essendo coperta da segreto istruttorio. L’unica cosa che mi poterono dire era che Fabio non era solo un collega, ma anche un loro amico, una
persona perbene, uno che aveva sempre dato il massimo, uno che aveva contribuito alla cattura di un pentito importante. Un uomo che amava il suo paese. La
sua Sicilia. Forse anche perché era un parente di uno di quei poveri poliziotti di scorta uccisi insieme a un giudice una sera d’estate di tanti anni fa. Durante la
sua missione, come ebbe modo di raccontare loro, Fabio mi aveva incontrato per caso. Senza cercarmi mi aveva trovata. E si era davvero innamorato di me. Ma
la prima volta, sceso da quell’aereo, aveva dovuto scomparire per un po' di tempo, per motivi di sicurezza legati ad un’altra missione che stava per chiudersi.
- “Susan, per noi era importante parlarle prima che fosse informata dal suo consolato. Abbiamo saputo che oggi stesso la contatteranno. Altrettanto farà
ufficialmente l’arma dei Carabinieri. Anche perché Fabio non aveva più parenti. Prima di andare però vogliamo dirle che noi siamo qui, che qualsiasi cosa avrà
bisogno, potrà chiamarci. Questi sono i nostri biglietti da visita. Resteremo in contatto con lei nei prossimi giorni per tenerla aggiornata”.
- “Mi avete detto che Fabio è scomparso, quindi pensate che possa essere ancora vivo?”
- “Susan, abbiamo il ragionevole sospetto che Fabio sia stato scoperto mentre era in una località del Sud America per un incontro riservato. E’ molto probabile
che non torni mai più”.
I giorni passarono come le settimane e poi anche i mesi.
Tre li passai a Roma, da Angela.
Spesso in contatto con Morandi ma soprattutto con Santoni. Claudio, come mi disse di chiamarsi, era stato con lui in diverse missioni. Assieme avevano fatto
diversi anni nei Carabinieri. E assieme avevano condiviso molti dei dettagli della loro vita.
Fu per questo che un giorno mi venne a trovare a casa di Angela con in mano una scatola incartata, come quella di un regalo.
All’inizio si mise a ridere.
- “Quando Fabio me l’ha data qualche mese fa, prima di partire per l’ultima volta a Miami, mi ricordo che lo presi in giro tutta la sera. Era un modo per
sdrammatizzare quello che poco dopo scoprii essere per lui qualcosa di particolarmente importante”.
Mentre lo diceva, prese la scatola e, senza perdere quel sorriso che lo aveva portato da me, me la porse.
- “Tieni Susan, è per te. E’ stato Fabio a dirmi di dartela semmai fosse successo qualcosa”.
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Poi Claudio si alzò, mi abbracciò e infine uscì salutando Angela.
Qualche giorno dopo, un martedì, anch’io salutai Angela.
Più che un saluto fu un addio.
Prima su consiglio del consolato e poi dell’FBI, era giunto per me il momento di lasciare l’Italia per gli USA.
Per tutto il viaggio verso casa tenni con me quella scatola.
Avevo deciso di aprirla solo in volo, dopo aver lasciato alle spalle l’Europa, come se lì dentro vi fosse ancora qualcosa che potesse farmi tornare indietro.
Forse è per questo che alla fine la aprii solo quando tornai a casa, a Brooklyn, nel mio vecchio appartamento da cui ero partita quella prima volta.
E che ora diventava un punto di ripartenza.
Perché tolta quella carta, dentro trovai una scatola.
Quella del pacco di pasta che Fabio per scherzo mi aveva regalato una sera a Sorrento, dopo esserci ritrovati.
- “Prendila, c’è qualcosa lì dentro per te” mi aveva detto ridendo al ristorante, durante la prima delle nostre mille cene.
Dentro, in mezzo alla pasta, quella sera trovai il mio vecchio biglietto da visita che gli avevo lasciato in aereo sbarcando a Londra.
Trovai la stessa scatola a cena anche una sera a Capri, nella nostra veranda, di fronte al tramonto di un giorno che ci avrebbe portato insieme ad una nuova
alba, a un nuovo giorno. Quello del nostro matrimonio. Fabio aveva nascosto l’anello di fidanzamento in quella stessa scatola di pasta. Quello che ancora
adesso porto con me.
Non so se fu un caso ma, quando mi decisi ad aprire la scatola, era quasi il tramonto.
Dentro, accanto ai piccoli maccheroncini, trovai un’altra scatola, più piccola, rivestita di tessuto.
Ancora una volta, Fabio mi fece trovare una delle sue sorprese.
La ricetta della pasta alla Caprese.
Non con la nostra solita pasta corta, ma con quei maccheroncini piccoli, quelli che voi chiamate in Italia “ditalini”.
Quella che, da qualche anno, Fabio ed io mangiamo assieme ogni ultimo martedì di Settembre, in quella veranda, a Capri.
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Io e Fabio Junior, come lo volli chiamare. In ricordo di suo papà. Quel papà che – solo io forse so come – aveva capito che da lì a poco sarebbe arrivato un nuovo
raggio di sole in quella veranda.
E’ da quel giorno che nella nostra famiglia diciamo che un ditalino è per sempre!
52Come preparare la pasta: i consigli dello chef!
Ecco qui di seguito alcune delle classiche regole da adottare per fare una
pasta perfetta:
- utilizzare una pentola alta e larga
- aggiungete il sale solo quando l’acqua bolle
- buttate la pasta solo dopo che il sale si sarà sciolto
- ricordate di mescolare la pasta per i primi 5 minuti di cottura e poi
continuare a intervalli regolari
- per essere davvero “all’italiana” la pasta deve avere una cottura “al
dente”. Oltre ad essere più digeribile, la cottura al dente consente
alla pasta di non incollarsi e di mantenere una certa “consistenza”
che la rende più buona anche al palato!
Attenzione anche alle 3 regole fondamentali per il dosaggio: 1, 10, 100
(vale a dire un litro d’acqua e 10 grammi di sale ogni 100 grammi di
pasta.
In ogni caso ricordate che la dose standard di pasta di semola di grano
duro è di 100 grammi a persona. Se invece è all’uovo sono 80-90 grammi
e circa 120 grammi se fresca, di semola o all’uovo.
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5. KIRAN – Le farfalle nel turbante
545. KIRAN – Le farfalle nel turbante
L’altro giorno mi hanno invitato ad un evento sull’Italian Food organizzato da un ristorante italiano.
E’ stato per me un onore anche se sono ormai tanti anni che lavoro in Italia. All’inizio mi è parso quasi impossibile che uno chef italiano proponesse me come
testimonial della vostra cucina.
In realtà avevo pensato che fosse uno dei soliti scherzi di Osvaldo, il mio Maestro di cucina.
Era stato prima il mio docente e poi il capo durante il mio primo vero lavoro come cuoco in uno dei ristoranti di un hotel a Roma. Un tipo tosto, ma sempre
allegro e in grado di mettere il sale a tutti i nostri sogni.
E siccome in fondo a me le sfide piacciono, decisi di accettare.
Qualche minuto dopo mi chiamò:
- “Sono contento se verrai Kiran: come ti ho scritto, dovrai raccontare la cucina italiana vista da un indiano. Hai carta bianca e 45 minuti”.
Un buon inizio…
Dopo aver mangiato qualcosa al volo, mi misi in sala a studiare cosa fare, deciso a rendere quest’occasione meno unica e più rara.
Avrei potuto raccontare l’Italia, le sue bellezze e la sua arte. Quella con la A maiuscola, quella che avevo imparato inizialmente con un po' di fatica prima nel
servire a tavola, da cameriere, poi nel cimentarmi come allievo cuoco.
Ma percorrere questa strada, pensai, sarebbe stato forse un po' banale: qualunque straniero l’avrebbe potuta portare “in bocca” parlando dell’Italian Food.
E’ per questo che mi venne in mente un’altra idea: quella di girare la prospettiva. Più che puntare sulle differenze, mi convinsi che poteva essere interessante
concentrarsi sulle cose che i nostri paesi hanno in comune.
Già sentivo le voci del pubblico: India ed Italia? Pasta contro spezie? Ma cosa ci sarà mai in comune?
Complicato vero?
Ecco perché decisi che quella sarebbe stata la mia traccia!
Fu così che, due giorni dopo - quando finalmente arrivò il mio turno – iniziai così la mia presentazione:
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“Se pensate che India ed Italia siano molto distanti, eccovi alcuni elementi su cui riflettere:
- l’India è una penisola… ma lo è anche l’Italia!
- i colori della bandiera indiana sono 3, indovinate quali?
- in India ci sono sia mare che montagna: proprio come qui in Italia!
- in India ogni singolo Stato è un paese a sé stante e ognuno ha la sua cucina. Beh, anche in Italia ogni Regione è differente e ognuno ha una propria cucina!
- la cucina indiana è fra le più popolari nel mondo intero: ma lo è anche quella Italiana!
- la cucina indiana è creativa, ma allo stesso tempo molto legata alle tradizioni: in ogni caso cucinare e mangiare sono un’arte. Vi ricorda qualcosa?
- il pane in India è molto importante: così è anche in Italia!
- generalmente il pane indiano ha la forma di piadina o di schiacciatine: …vi dice qualcosa?
- i legumi sono parte integrante della dieta quotidiana indiana: ma così come in India, anche nella dieta Mediterranea non c’è pasto che non contenga almeno un
piatto di lenticchie, ceci o fagioli.
- difficilmente l’indiano fa una colazione ricca: ma non è di certo distante dal nostro concetto di mangiare cappuccio e brioche!
Non finisce qui.
Quelle che seguono sono regole dell’Ayurveda:
- masticare bene
- il cibo deve essere presentato bene non solo per la gioia del palato ma anche per quella degli occhi
- il pranzo è il pasto principale da consumarsi verso mezzogiorno, mentre la cena (quella delle sette) deve essere leggera
- durante i pasti è bene non bere molta acqua
- è importante masticare bene, senza fretta
Ma in Italia non dite lo stesso?”.
A questo punto il pubblico si era già scaldato o, meglio, come dite voi, era cotto “al dente”!
E sono sicuro che molti spettatori abbiano pensato che a questo punto sarei passato a svolgere un tema sulla “fusion”.
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Ma quel giorno decisi che, se volevo raccontare qualcosa di nuovo sul cibo italiano visto da un indiano, avrei dovuto - per usare le note parole del noto critico
Anton Egò (reso famoso dal film animato “Ratatuille”) - di dar loro in pasto… “della “prospettiva fresca, chiara e ben condita”.
E’ così che mi venne in mente di continuare con la storia del mio primo giorno di cucina in Italia.
Adesso ve la racconto…
Ma prima devo fare una premessa.
Chi di voi ha già sentito parlare della “toque blanche”?
Non vi dice nulla?
Forse perché è meglio conosciuta come “toque… da cuoco”.
Ecco, chi laggiù ha detto che stiamo parlando del classico cappello da cuoco ha ragione, bravo!
Forse non tutti sanno che anticamente questo termine indicava una tipologia di cappelli legati ad una carica o una professione. Avete presenti i giudici, vero?
Ma è solo nel 1823 che uno dei più famosi chef – il francese Marie-Antoine Carême – li volle introdurre in cucina dopo aver notato un aiutante con una toque un
po' floscia. Dovete sapere che fino ad allora infatti non c’erano regole precise sul tipo di copricapo da usare ai fornelli: c’era chi usava cuffiette di cotone, chi solo
berretti o chi, al massimo, solo dei bassi copricapi che variavano da paese a paese
Fu forse per eliminare quel caos (parola proibita in cucina!) che Carême quel giorno decise che dove avrebbe lavorato lui (le cucine delle corti reali europee) tutti
i cuochi dovevano indossare una toque alta e rigida. Questo tipo di cappello infatti poteva fornire una maggiore traspirazione del sudore del cuoco durante le
operazioni ai fornelli. E come per gli elmi degli antichi guerrieri, poteva “comunicare” il simbolo dell’altezza “direttiva” dello chef in mezzo alla brigata di cucina. Il
bianco invece, come potrete intuire, venne da sé essendo universalmente riconosciuto come il colore del pulito.
Torniamo ora a questa foto: la vedete?
E’ il team di allievi cuochi della classe guidata da Osvaldo.
La scattammo appena arrivati, prima di entrare in classe.
Mi vedete? Anche se sono piccolino, non potete non riconoscermi!
Già, io sono quello con il copricapo tradizionale indiano, il turbante.
Scusate se divago ancora un attimo, ma è importante: chi di voi sa qualcosa sui turbanti?
Lo so che qui in Italia li associate ai Maharaja o al fachiro che incanta il serpente con il suo flauto!
Ma non è proprio così, davvero.
Anzitutto sapete che in India i turbanti sono nati per proteggere la testa dagli spiriti maligni?
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Altri (forse un po' più politici) sostengono invece che il turbante sia nato come simbolo di protesta: visto che il turbante era portato solo dai re o dai nobili, i Guru
Sikh presero ad indossarlo per andare contro questa usanza.
La libertà è un valore da mostrare anche dando un colore al turbante: per esempio il color zafferano In India (in particolare nel Rajasthan) è normale in un
turbante quando ci si sposa. Forse per dire (le malelingue!) che per sposarsi bisogna aver… valore!
Ma il colore zafferano una volta era anche il simbolo dell’audacia, il simbolo di chi veniva mandato a svolgere missioni al limite del possibile. Forse perché il
termine persiano “dast-e-yaar”, da cui deriva il termine “turbante” significa “avere la mano di Dio sulla testa”.
Abbiamo tutti letto Salgari vero? Parlando di Sandokan non possiamo non ricordare i formidabili guerrieri Sikh!
Pensate che per loro – quelli veri - il turbante era così importante che, durante la prima guerra mondiale, rifiutarono di indossare nelle trincee il regolare elmetto.
Il ragionamento era semplice: non possiamo toglierci il turbante per proteggerci il capo, perché è il turbante a darci la vera protezione.
Molti inglesi restarono sbalorditi vedendo soldati Sikh raccogliere proiettili dal turbante dopo la battaglia: sembrava pazzesco ma qualche ufficiale arrivò a
concludere che il turbante, appropriatamente legato in maniera appropriata, assorbiva l'urto di un proiettile meglio di un elmo protettivo!
Ma dire che nella cultura indiana il turbante sia solo simbolo di valore è riduttivo.
I turbanti hanno anche molte funzioni pratiche: i viaggiatori lo usano come un cuscino, una coperta o un asciugamano oppure per filtrare l’acqua. Districato, può
essere utilizzato come una corda per attingere acqua da un pozzo con un secchio.
E bisogna aggiungere che esiste un’altra componente che contraddistingue il turbante: “il come lo si indossa”.
Non solo dal punto di vista pratico. Aspetto non banale se pensate che a volte arrivano ad essere lunghi 5 metri. Ecco perché fin dall’antichità nelle corti dei
maharaja c’erano apposite persone predisposte per questo incarico!
E se “il vestito non fa il monaco”, ecco ancora un’ultima riflessione detta secoli fa da uno dei più importanti Guru Sikh. Parlando dei turbanti e dei loro diversi
colori, a un certo punto disse: “Negli occhi di Dio non ci sono né hindu né musulmani, a Egli non interessa la nostra religione ma bensì il nostro modo di vivere”.
Ma se vivere è anche mangiare, possiamo dire che anche in India in fondo il cibo è a suo modo una religione!
Allora vedete ancora una volta che anche da noi è come in Italia?
Ma torniamo alla mia storia e a quel giorno. E a parlare nuovamente di cucina.
Quella che, dopo tanta attesa, avevamo fatto con Osvaldo. E di quelle sue cinque lezioni intense trascorse parlando del mondo dei fornelli, delle sue regole, della
sua storia e poi finalmente – l’ultimo giorno – del mondo della pasta. Quella che Osvaldo amava raccontare partendo dal grano e dal processo di produzione.
Fu in quell’occasione che imparai i tempi della pasta, le sue forme e i giusti abbinamenti di formaggio, salsa e pesti.
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Ma il bello di quella lezione fu la gran sorpresa finale: niente compiti a casa, ma…
Aprendo un contenitore che aveva tenuto sul tavolo, Osvaldo tirò fuori nell’ordine:
• alcuni pomodori ciliegino
• una fetta di ricotta dura
• un flacone di olio extravergine
• del basilico fresco, origano, peperoncino e aglio
Poi, alzandosi in piedi, ci disse:
- “Adesso andate di là in cucina, ognuno alla sua postazione e cominciate a preparare un piatto di pasta con questi ingredienti”.
Sorpresi, ci alzammo, entrammo in spogliatoio, ci cambiammo, poi entrammo tutti in cucina passando dall’entrata laterale.
Osvaldo era già al suo posto lì davanti.
Senza perdere tempo ci disse di aprire la dispensa e portare gli ingredienti sotto le nostre postazioni aggiungendo:
- “Bene, adesso io esco: avete 45 minuti prima del mio ritorno per preparare una pasta profumata. Non mi resta che augurarvi un… buon battesimo della pasta”.
Panico. Profumata? Ma che voleva dire? Cosa fare?
Mille domande, poche risposte!
Molti dei miei compagni (quasi tutti cinesi) si misero a cuocere in modo diverso gli ingredienti.
Non sapevo che fare. Finchè non mi venne in mente una cosa che mi aveva colpito. Qualche giorno prima ero andato ad un piccolo supermercato sotto casa per
fare la spesa. Il proprietario era un signore sulla cinquantina di cui facevo fatica a capire molte parole per via di un suo accento strano. Mentre portavo il carrello
alla cassa, si mise a chiaccherare con una cliente. Con lo stesso dialetto strano, che poi mi dissero essere pugliese. Quando ebbe terminiato, vidi che le mise nel
sacchetto un pacco di pasta aggiungendo a voce bassa:
- “Signora Lina, allora come la farà stasera?”
- “Come da noi a Bari, Giovanni caro! Pomodori crudi, origano, olio, cacio, basilico e via a far felice il marito!”
Ecco cosa potevo fare anch’io!
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Senza pensarci un attimo, presi delle “farfalle”, tagliai i pomodorini e li mischiai a crudo con gli altri ingredienti che Osvaldo ci aveva dato.
Senza accorgermene passarono 30 minuti.
Stavo scolando la pasta quando Osvaldo entrò e mi passò accanto.
Non ci feci caso subito. Ma lui tornò indietro e si mise a guardarmi.
Dopo poco, tornò davanti al suo posto e attese la fine del tempo che avevamo a disposizione.
Infine prese una campanella e la suonò invitandoci a mettere giù tutto.
Sembrava di stare in uno di quegli show televisivi!
Passò in rassegna uno ad uno i piatti, il mio per ultimo.
Ma i suoi primi commenti furono per me:
- “Una delle cose più importanti in una cucina è la disciplina. E’ questa che ci aiuta a lavorare tutti meglio e soprattutto a dare ai nostri clienti la qualità che
cercano. E, ragazzi, questa disciplina passa anche da come entrate qui dentro!”
Poi rivolgendosi a me disse:
- “Cos’hai in testa ragazzo?”
Non capivo. Poi lui abbozzando un mezzo sorriso indicò con la mano la mia testa.
Senza accorgermene, ero entrato in postazione senza togliere quello che - per me - era parte del mio corpo e del mio essere indiano; il turbante bianco!
Dopo una breve pausa di silenzio, Osvaldo guardandomi riprese a parlare aggiungendo:
- “Adesso però voglio fare i complimenti a Kiran. Il suo piatto è quello che più si avvicina al vero spirito della pasta: la semplicità, con un pizzico di profumo. E la
crudaiola che vedo qui è sicuramente un ottimo inizio”.
Poi continuò:
- “Ora, come forse saprete la tradizione di questa scuola è quella di nominare un rappresentante di classe. E Kiran, avendo ben svolto il suo compito, penso si sia
guadagnato questo titolo, cosa ne pensate?”.
Quando i miei compagni fecero un applauso d’acclamazione, io fui il cuoco più felice della terra!
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Ero al settimo cielo.
Ma Osvaldo non aveva ancora finito!
Prendendo in mano la sua toque stellata si voltò verso i miei compagni e disse:
- “Voi tutti dovete sapere che quando il grande chef Carême introdusse in cucina il nostro famoso cappello
bianco, decise che - per distinguersi dagli altri - il capo chef doveva avere in cima alla sua toque una
piuma. Il simbolo del più alto in grado”.
Poi con tono seriamente scherzoso disse:
- “…e così oggi voglio fare lo stesso con Kiran”
Poi avvicinandosi, prese dalla mia postazione un paio di farfalle e le mise sul mio turbante bianco e
sorridendo, aggiunse:
- “Da oggi il simbolo della vostra classe saranno queste farfalle sul turbante di Kiran.
A voi farle volare in alto… con un giro d’olio!”
E’ per questo che, come potete vedere, ancora oggi porto questo simbolo sulla mia toque.
Le farfalle sul turbante rappresentano per me l’India e l’Italia, assieme, vicine.
Lo vedete allora che avevo ragione a dire che in fondo anche noi siamo fatti… della stessa pasta?
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(foto a destra dreamstime.com)
626. JOHN – Non è mai troppo pesto.
“Prendete uno spicchio d’aglio, basilico (baxaico) o in mancanza di questo maggiorana e prezzemolo, formaggio olandese e parmigiano grattugiati e
mescolati insieme e dei pignoli e pestate il tutto in mortaio con poco burro finchè sia ridotto in pasta. Scioglietelo quindi con olio fine in abbondanza.
Con questo battuto si condiscono le lasagne e i gnocchi (troffie), unendovi un po’ di acqua calda senza sale per renderlo più liquido”.
Tratto da: “La Cuciniera Genovese, la vera maniera di cucinare alla genovese” (Giobatta Ratto, Genova, 1863).
Venire in Italia, alle Cinque Terre, ha per me un sapore unico.
Forse perché, nato e cresciuto a Londra in un quartiere pieno di italiani, ho sempre ritenuto che l’Italia fosse un po' la mia seconda casa. O forse la
terza…
Già, perché da quante radici ho sparse nel mondo, a volte faccio anch’io tanta confusione. Sarà perchè Jasmine, mia moglie, è originaria della
Tunisia? O sarà perché mio figlio, dopo aver terminato gli studi universitari, da tempo ormai vive a Bruxelles con una ragazza olandese?
P sarà anche perché le mie stesse origini sono miste? perchè papà era russo di seconda generazione e mamma invece di Bangkok. Si erano
conosciuti ad un concerto dei Beatles. Qualche mese dopo si erano sposati con rito ortodosso a Roma. In una chiesa in cui lo zio Nik era “pope”.
Lo zio Nik è stata una figura importante della mia vita. Era una persona molto colta e mentalmente aperta. Da giovane innamorato dell’Italia
qual’ero, andavo spesso a trovarlo a Roma per scoprire con lui la storia di quella città. Ricordo ancora le lunghissime camminate che dal Colosseo ci
conducevano ai Fori Imperiali mentre Nik mi spiegava tutto su ogni monumento che incontravamo. Una volta mi presentò un famoso attore
cinematografico che era venuto a Cinecittà per un film. Ricordo che molti registi e persone dello spettacolo lo chiamavano spesso perché da
giovane, prima di diventare prete e di farsi crescere la lunga barba, lo zio era stato un attore teatrale molto corteggiato (non solo dai registi).
In questa storia però lo Nik c’è per un motivo diverso: fu proprio grazie a lui che infatti ebbi modo di conoscere Jasmine.
Una sera d'estate, a Roma, durante una di quelle cene che lui amava organizzare con tutti gli allievi dell’Università Pontificia dove insegnava, mi
presentò un signore seduto accanto a me che curiosamente aveva un lungo abito bianco dai bordi dorati. Pensavo fosse un prete di qualche chiesa
orientale. Invece era un professore di lingua araba che insegnava a Parigi. Con lui parlammo di Roma e delle mie vacanze poi, quando gli confessai
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che ero innamorato della cucina italiana, si alzò e mi chiese di seguirlo indicando la lunga tavola che sulla nostra destra prometteva di dare il
“sapore” a quella serata.
Nella terrazza dell’istituto che quella sera ci ospitava, accanto ad alcune piante di limone e ad un grande olivo, c’era una tavola imbandita con piatti
provenienti da molte parti del mondo che lo zio aveva messo assieme per la presentazione di un libro. C’era yogurt della Bulgaria, feta e olive dalla
Grecia, tabuleh con verdure da Beirut, agnello cucinato all’araba, vino di Marsiglia ma anche mozzarella campana, couscous dal Marocco, hummus
della Tunisia e ovviamente – non poteva mancare – un grande piatto di pasta fredda dall’inconfondibile profumo di pesto.
Al centro, in mezzo a tutte le altre speciali squisitezze riunite a tavola, c’era lei, quella ragazza dai lunghi capelli ricci che si confondevano con il
sorriso dei suoi grandi occhi neri. Quella che, quel signore dall’abito bianco, mi presentò come sua sorella Jasmine.
Inutile nascondere che il mio fu amore a prima vista. Finita la cena, ci mettemmo tutti a ballare sotto le tante lampade colorate che illuminavano dal
terrazzo una Roma incantata: quella che con la sua luce accarezzava i nostri occhi che si cercavano, quella che con i suoi colli eterni portava sopra di
noi quell’aria fresca che - un po' come con le vele di una barca in mezzo al mare - gonfiò di amore il mio cuore e come in un viaggio già scritto nel
tempo, mi portò accanto a lei. Dapprima per qualche istante poi per sempre.
Chissà se è la stessa brezza a portarci spesso qui, alle Cinque Terre, nella terrazza di questo hotel: il bellissimo panorama che si affaccia da lì ci
ricorda un po' quei momenti.
Mentre sono in quest’altra terrazza di un hotel alle Cinque Terre con Jasmine accoccolata sulla sdraio accanto a me, sento arrivare dal mare una
leggera brezza. E penso ancora una volta a come nella vita spesso i cambiamenti non siano portati da grandi venti che arrivano dall’orizzonte, ma da
semplici brezze come questa.
All’inizio era stato difficile superare quelle piccole e grandi difficoltà legate alla distanza, non solo geografica, ma anche culturale. Una distanza che a
poco a poco rafforzò il nostro amore e la nostra decisione di lasciare tutto per andare a vivere a Londra.
In mezzo a tanti mondi diversi come Inghilterra, Tunisia, Russia, Thailandia e (da poco) anche Olanda, l’Italia per noi tutti in famiglia era sempre stata
un collante: una terra che, in un modo o nell’altro, ci riportava sempre alla fine a ritrovarci tutti assieme.
E’ per questo che, nonostante tutte quelle diverse bandierine piantate nella mappa della nostra vita, l’Italia ha da sempre per noi un posto ed un
sapore unico.
Soprattutto grazie a lei: o meglio… grazie a lui!
Già, perché il vero “filo verde” di casa nostra ha ancora oggi un solo nome. Si chiama Basilico.
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Del basilico mio papà sarebbe stato fiero, ma forse anche mio zio.
Perché San Basilio è un beato famoso in Russia in quanto visse una vita simile a quella di San Francesco: a celebrare il suo rito funebre ci furono sia il
Metropolita che lo zar Ivan il Terribile che portò la sua bara in spalla.
Prima di lui, tornando invece a Roma, vi fu un altro San Basilio – detto “il grande” – che non solo divenne Confessore e Dottore della Chiesa ma
anche il fondatore dell’ordine dei monaci basiliani ai quali si fa risalire la leggenda del Pesto.
Si dice infatti che – in un convento situato sulle alture di Prà, in provincia di Genova e intitolato a San Basilio - viveva un frate che coltivava un’erba
aromatica chiamata “basilium” in onore del Santo. Un giorno il frate la unì ai pochi ingredienti portatigli in offerta dai fedeli e, pestando il tutto con
un mortaio, creò il primo pesto che poi via via venne perfezionato nel tempo.
Le foglie del basilico coltivate nelle alture di Genova - più piccole e tenere di quelle comunemente usate nel Sud Italia per la pizza o la caprese -
erano però già note ai tempi dei Romani: non tutti sanno forse che tra le loro ricette predilette vi era il cosiddetto Moretum fatto da formaggio
pecorino, sale, olio, erbe e frutta secca pestati con il mortaio per essere spalmati sul pane. Pare che il pesto genovese abbia tratto ispirazione da
questo, anche se altri sostengono che la ricetta originaria sia piuttosto collegata all’agliata, un “pestato” battuto di noci e aglio che nel XIII secolo
veniva utilizzato per conservare i cibi cotti e per allontanare gli spiriti maligni e le malattie. Per questo cibo i marinai liguri avevano una certa
predilezione essendo di fatto considerato una medicina da usare nei lunghi periodi a bordo: ormai è noto l’aspetto officinale del basilico, che –
come antiinfiammatorio – viene ancora usato contro l’artrite e la bronchite.
E’ certo che fu ai tempi delle Repubbliche Marinare che il basilico ebbe il suo “incipit” di gloria. Durante il Medioevo, Genova era diventata ricca
fornendo i trasporti per la Terrasanta. Per meglio gestire questo commercio la Repubblica di Genova conquistò la Sardegna, avvicinandosi ai futuri
Cavalieri di Malta e agli inglesi. Sconfitta anche la rivale Pisa, Genova divenne padrona del Tirreno. E fra i “tesori” strappati ai rivali pisani i genovesi
scoprirono anche i pinoli, quelli che poi divennero una delle anime del pesto genovese.
Ma non finisce qui. Poiché le spezie orientali erano di quasi esclusivo monopolio della nemica Venezia, i liguri (soprattutto i più poveri) decisero di
usare le foglie di basilico e le erbe aromatiche al loro posto. Non è quindi un caso che vicino a Genova ci sia “La Spezia”, che deve appunto il suo
nome all’antico commercio di “spezie” aromatiche della zona.
Con il passare del tempo l’uso del basilico continuò. Ma fu solo nel 1870 che Giovanni Battista Ratto - ne “La Cuciniera Genovese” – citò per la prima
volta la moderna ricetta del Pesto.
65Grazie ai marinai genovesi e ai numerosi emigranti che salpavano da Genova quel Pesto raggiunse una grande popolarità nel mondo, arrivando
anche a “La Boca” (il famoso quartiere genovese di Buenos Aires) così come a New York e nei vari porti americani.
Ma come giustamente sottolineava mia mamma, il basilico non è solo italiano: è forse poco noto che la pianta in sé è originaria dell'India. Ecco
perché mia mamma lo usava spesso come ingrediente per dare al cibo asiatico il profumo delle sue foglie. Ecco perché il termine botanico di
Basilico rimanda alle “erbe regali” usate per produrre i profumi dei re (in greco basilikòs significa appunto regale).
Ho voluto qui riportare tutta la sua storia perché fu lo zio Nik a raccontarmela. Non solo perché – anche lui - era un grande appassionato di Pesto.
Ma anche perché lo amava proprio coltivare lui stesso nel giardino del monastero in cui viveva.
Un giorno, mentre lo maneggiavo nel suo orto, mi raccontò che – seppure facile da seminare – il basilico è una pianta che ha bisogno di cure. Non
solo perché necessita del caldo e di una temperatura sopra i 10 gradi. Ma anche perché è una pianta che ha sempre sete: è per questo che il Basilico
deve essere spesso innaffiato e mantenuto in un terreno umido per crescere al meglio.
Poi aggiunse un aneddoto che ancora mi porto oggi con me:
- “Anche se conosci tutti i trucchi per coltivare il basilico, ricordati che il miglior pesto che mai potrai preparare sarà sempre quello fatto con due
ingredienti speciali: fatica ed amore”.
E’ una ricetta semplice ma importante: è forse per questo che ho voluto raccontarvela qui. Per farvi capire perché, quando si parla di Pesto, il
sapore di questo termine è unico.
Nonostante linguine, trenette, trofie, bavette, tagliolini, penne, farfalle ecc provino sempre a confondere le idee. Perché da inglese, da russo e… da
tutti gli angoli del mio grande mondo dal quale vedo, sento e assaporo quella magica salsa verde, ogni volta resto senza parole quando penso a
quanti possono essere i vari tipi di pasta che si sposano a meraviglia con questa “salsa dei re”!!
Ma c’è un ultimo segreto che vi voglio rivelare, un segreto che unisce ancora oggi Jasmine e me.
La settimana dopo il nostro incontro ebbi l’opportunità di dichiararmi a Jasmine. La risposta che mi diede fu: “vieni domani sera sotto quel balcone
in cui ci siamo conosciuti e guarda la pianta che ci sarà accanto a me. Prima però chiedi a tuo zio quale pianta potrà essere quella giusta per dare
risposta alla tua domanda”. Un po' spiazzato da questa sua “dichiarazione”, il mattino dopo andai da zio Nik.
66E lui, ridendo sotto la sua folta barba, mi rivelò che secondo un’antica tradizione (che Jasmine sicuramente conosceva), se una fanciulla mette nel
suo balcone una pianta di basilico vuol dire che accetta l’innamoramento.
E fu proprio quella che la sera dopo apparve sul balcone di Jasmine!
Ecco perché a casa nostra il pesto - quello che alla fine unisce non solo a tavola tutte le nostre diverse origini – per noi non è mai troppo!
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7.
687. MANUELA – I ravioli di nonna Anna.
L’Italia è la patria di tortellini, ravioli e cappelletti.
Quadrati o rotondi, ripieni di verdura, carne o pesce ciascuno di questi tesori ha una sua identità e una sua storia, a volte uguale a volte diversa da regione a
regione e spesso da pese a paese.
Ma ciò che rende ancor più affascinanti i ravioli non è solo la loro varietà, ma anche il fatto che ciascuno di essi può essere mangiato con mille altri condimenti
diversi che vanno dalla “magra” accoppiata di olio e burro fino a sughi più complessi ed elaborati!
E siccome di ricette su come fare o come mangiare i ravioli ce ne sono tante, quella che voglio raccontarvi è la “nostra” storia, quella che a casa nostra si
tramanda – di raviolo in raviolo - ormai da qualche generazione.
La prima a raccontarmela è stata lei: Nonna, Anna, “Nina”. Già, come i ravioli, anche lei aveva tanti nomi!
A ben guardare “il” raviolo per nonna era - per usare le sue parole - uno scrigno: in primis quello del gusto, quello che ci metteva lei in prima persona ogni volta
che li faceva con le sue mani, non solo fuori ma anche dentro quella pasta.
E poi i ravioli pe lei erano sempre stati anche uno scrigno di vita, se non addirittura uno “stile” di vita. Eh sì, perché per nonna Anna i ravioli avevano un’anima!
Non solo quella, materiale, che c’era dentro il ripieno fatto di ricotta, erbette, asparagi, zucca, carne o radicchio…
Ma anche quella che lei stessa ci donava nel raccontarli, riempiendoli sempre con quelle storie ed aneddoti che - anche lei a suo tempo - aveva ascoltato da sua
madre, da sua nonna o dagli altri parenti di raviolo in raviolo…
Per me queste storie hanno sempre avuto un fascino magico proprio perchè, in questo modo, nonna riusciva ancora a passare di mano non solo l’arte del
“fare” il raviolo ma anche la storia di chi l’aveva fatto stando lì ad impastare, farcire e infarinare.
Come ad esempio quella di ENZA, che per fare degli ottimi ravioli, dedicava un’attenzione maniacale all'impasto, scegliendo “il ripieno giusto” solo dopo averli
stesi. Perché? semplice: questa amica di nonna li riempiva alla sera solo dopo aver saputo cosa avesse mangiato a pranzo suo marito, un operaio
metalmeccanico che lavorava in fabbrica tutto il giorno.
O come quella di MARIA, la sorella di nonna, che amava fare in brodo i tortellini di carne tutte le domeniche. Secondo nonna, questa abitudine le faceva
ricordare uno dei suoi giorni più speciali.
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Il 10 febbraio 1946 la guerra era finita da poco. La vita era ancora difficile: non solo perché il nostro paese era ancora sommerso dalle macerie della guerra, ma
anche perché – per lei – non erano ancora arrivate notizie di suo marito. Di lui, poverino, dopo l’11 Settembre si sapeva solo che era stato preso prigioniero e
mandato in Germania.
Ma quel 10 febbraio, alle 11,45 del mattino, successe qualcosa che avrebbe cambiato per sempre anche il suo modo di cucinare.
Mentre era intenta a fare le faccende domestiche, sentì un rumore: non era quello della campana della chiesa che suonava il quarto a mezzogiorno, ma quello
di chi – con foga - bussava alla porta d’entrata. Maria – appena tornata dal panettiere con una pagnotta e della farina – pensò fosse suo figlio che giocava in
cortile: “si sarà mica fatto male!” disse fra sé. Ma aprendo la porta in basso non vide delle scarpette da bambino. Ma quelle un po' logore di un uomo che aveva
un aspetto poco curato ma degli occhi e un sorriso che erano i più belli del mondo. Era suo marito, Andrea, che dopo un lungo viaggio in treno e poi a piedi era
finalmente arrivato a casa, la sua casa.
Potete immaginare la gioia di Maria. I due si baciarono piangendo a lungo senza accorgersi che lo zio Gianni, quel bimbo che giocava in cortile, era rientrato in
cucina.
Lo zio aveva quasi 3 anni. E non aveva mai visto suo papà, dato che “nonno Andrea” era partito per il fronte poco dopo la sua nascita. Allo zio Gianni ancora
oggi vengono i brividi quando racconta che quel giorno si spaventò nel vedere quell’uomo abbracciato alla sua mamma. Ma alla fine la nonna Maria gli spiegò
tutto e lui finalmente poté riabbracciare suo padre, quello che aveva visto solo nella foto sempre bene in vista su una parete in sala.
E quel giorno – per celebrare quell’evento così importante – alla nonna Maria venne in mente di usare della farina appena comprata e metterla assieme a quel
paio d’uova e quella poca carne che sua mamma le aveva regalato il giorno prima per il piccolo zio Gianni. E da qui la strada per fare un buon piatto di tortellini
in brodo fu davvero breve. Ed è per questo che a Maria ogni domenica piaceva preparare i tortellini con grande gioia.
Quella gioia che qualche mese dopo ebbero tutte le donne italiane quando il 2 ed il 3 giugno 1946 andarono per la prima volta a votare. Fu “una prima volta”
davvero importante perché fu in quei giorni che si tenne il referendum che trasformò l’Italia in una Repubblica.
Fu una scelta importante, che però nonna amava ricollegare sempre alla cucina e ai suoi ravioli. Perchè alla fine di tutte queste storie (e di tante altre ancora
che non riesco qui a raccontarvi), nonna Anna diceva che anche nel fare i ravioli a volte si devono fare delle scelte.
Come quella volta che dovette trasformarli in tagliatelle perché si era scordata in negozio la verdura per il ripieno.
- “Quella volta ero andata giù da Aristide a fare la spesa dopo una notte passata senza dormire per via di un odei miei mal di testa. E dovendo tornare
velocemente a casa, mi dimenticai il sacchetto vicino al marciapiede dove lo avevo appoggiato assieme agli altri prima di rimontare in bici”.
E’ forse per questo che, come vedrete fra poco, per nonna il vero segreto dei ravioli stava nel “giusto riposo”.
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Il procedimento che seguiva nel preparare i ravioli era sempre lo stesso: intanto iniziava a creare una montagnetta di farina sul suo grande tavolo di legno e poi,
al centro di quella che lei chiamava “la fontana”, ci metteva uova, sale e olio d'oliva. Era una parte che a me piaceva molto perché quella scena mi ricordava
uno di quei vulcani che avevo visto in un fantastico documentario alla televisione.
Fatto questo, nonna sbatteva con una forchetta le uova e, prendendo sempre più farina, amalgamava bene tutto con le sue piccole mani fino ad ottenere -
dopo una ventina di minuti circa – un bel “gnocco” compatto ed omogeneo che cospargeva di tanto in tanto con un po' di farina.
Nonna ci raccontava spesso che, quel lavoro con le mani, le ricordava di quando lei ed il nonno si erano presi la mano per la prima volta. Era stato in chiesa:
perché nonno, che da tempo le faceva il filo ma che non poteva avvicinarsi a lei senza essere affiancato dai genitori, aveva avuto l’idea di frequentare la messa
pur di esserle vicino e – cosa per lui più importante - stringerle la mano. Non per il gesto della pace, ovviamente!
Dopo quelle risate che sempre seguivano questa sua battuta, la nonna finalmente celebrava “il riposo”.
Questo era, come vi anticipavo, il momento più importante. Perché finito quel lavoro, faceva riposare lì in cucina l'impasto morbido per un'oretta, coperto solo
da uno dei suoi canovacci a righe così da evitare che si seccasse. Ricordo che invece Nonna Maria la imprigionava dentro un recipiente di vetro rovesciato. E
durante quel riposo lei ci raccontava le sue storie più belle.
Come quelle del ripieno: perché era lì che secondo la nonna il raviolo prendeva corpo e anima.
Il ripieno con ricotta ed erbette era quello che più amava. La ricotta le ricordava sua mamma, che la portava spesso a casa dalla campagna. Gli spinaci invece le
ricordavano i primi cartoni animati, quelli appunto di Braccio di Ferro, che ebbe modo di vedere al cinema dell’oratorio.
Ma forse la verità è che la farcitura con la carne lei la evitava per un altro motivo: era stata proprio in occasione di un pomeriggio passato in cucina con
un’amica a fare dei ravioli alla carne che nonna scoprì per caso che suo marito l’aveva tradita con una loro amica. Come a volte accade le cose poi alla fine si
sistemarono, ma da quel giorno la nonna cominciò ad odiare i tortelli alla carne…
Mentre ci raccontava le sue storie sui ripieni, nonna puliva gli spinaci. Poi li lessava usando sempre poca acqua: perché, diceva, in questo modo avrebbero
mantenuto sapore e vitamine. Scolati e strizzati, nonna poi li metteva dentro la ricotta e, dopo averci aggiunto del Parmigiano, li lavorava grattandoci sopra di
tanto in tanto della noce moscata.
Finite quelle lunghe chiaccherate, nonna si rimetteva al lavoro dividendo quell'impasto in due. Poi, con il suo immancabile matterello, lo stendeva in un piano
infarinato tirandolo e girandolo spesso fino a formare due sfoglie sottili. Quelle che avrebbe usato per completare una prima serie di ravioli. Anche questo per
nonna Anna era un momento molto importante: girava spesso la pasta la lavorava dandole uno spessore sottile umidificandola ogni tanto con dell’acqua.
- “Ricordate bimbi” ci diceva “di tenere sempre queste sfoglie sottili: se non lo saranno, quando andrete a sovrapporle, avrete una pasta dai bordi crudi”.
71
Poi prendeva il vassoio con il ripieno e – formando dei mucchietti simili a piccole palline – le schierava come tanti soldatini in formazione su una delle due
sfoglie sempre tenendole umide con un velo d’acqua. Finito di mettere tutti i piccoli ripieni, copriva quel foglio con quello avanzato, lo pressava leggermente
partendo dal centro, in modo da non far rimanere aria nel mezzo altrimenti in cottura i ravioli si sarebbero aperti.
Ed ecco arrivare uno dei passaggi che a me piacevano di più, quello con la rotella dentata. Toccava a me fare i quadratini sulla sfoglia, ripiegandoli. Alla nonna
restava l’ultimo tocco: sigillare il ripieno e così dare forma a ogni raviolo. Era in quel momento che usciva tutto il suo grande amore per i ravioli. E uno dei più
grandi insegnamenti che mai ho smesso di portare con me:
- “Anche se sono tutti fatti della stessa pasta, nessun raviolo è uguale all’altro. Proprio come me, te e tutti noi…”.
Infine arrivava la cottura. Nonna Anna amava farla nel brodo, mantenendo per 10-15 minuti la pentola coperta in modo che l’acqua non evaporasse
eccessivamente. E poi via a mangiarli tutti assieme!
Ecco, in poche parole vi ho regalato i segreti dei ravioli fatti in casa secondo la ricetta di nonna Anna. Ho voluto farlo con voi perché ritengo sia importante
condividere ciò che di più bello c’è nella storia di ogni famiglia. E, oserei dire, nella storia di ognuno di noi.
Il motivo per cui, arrivato il momento di mangiarli, ancora oggi amo tenerli in bocca e masticarli lentamente, assaporando in ciascuno di loro il gusto di ciascun
ingrediente e l’unicità della loro forma, ma anche tutto ciò che ogni raviolo ci può raccontare.
Un altro grande insegnamento di nonna Anna, forse quello più
importante.
Alla fine forse la cosa bella del fare a casa i ravioli a mano non è solo legata
alla soddisfazione del produrli in sé ma – come per tutti i grandi amanti
della cucina - al condividere il buono di questo momento con i propri cari.
Regalando a voi e a loro la magia di quelle storie che porterete sempre con
voi, di generazione in generazione. Proprio come i ravioli di nonna Anna…
728. NOI DUE – L’incontro
738. NOI DUE - L’incontro
In quel campo io e te eravamo bambini.
Ci eravamo trovati vicini in quella grande casa senza tetto e senza pareti.
Ogni giorno lì insieme era sempre pieno di grandi e piccole meraviglie. Vicino alle colline e alla lunga strada grigia, quella che passava accanto agli
altri campi vicino a noi, il sole e la luna illuminavano sempre le nostre giornate, come d’inverno così anche d’estate.
Era lì che a volte il vento ci accarezzava e dolcemente ci faceva dondolare in piedi mentre tutti gli altri attorno ci guardavano, chi dall’alto chi dal
basso.
A me piaceva quel sole senza nuvole, a te quella brezza delicata che ogni tanto arrivava dal mare.
A me piaceva dire arrivederci alle api, a te dire ciao alle farfalle.
A me piaceva venirti vicino quando tornava l’aria della sera, a te aprire le tue braccia alla rugiada del mattino.
Ma a tutti e due piaceva correre con le nostre sottili gambe lassù al confine tra terra e cielo, tra notte e giorno, tra nuvole e afa.
Ti ricordi che - anche se tutt’attorno a noi le stagioni passavano sempre a salutarci – erano le nostre amiche cicale che tutti i giorni, all’ombra degli
alberi vicino alla strada, restavano a cantare per noi fino a tardi?
Sono quelli i ricordi che scorrono ancora dentro di me. E sono quelli che – adesso che ti rivedo – mi fanno rivivere tutto ciò che è successo e che
forse ancora potrà succedere. Già perché è solo adesso che ho capito che - nonostante siano passati tanti anni - io e te eravamo nati lo stesso
giorno solo per crescere ed aspettare questo momento.
Non so se riuscirò a raccontarti tutto di quel giorno. Quando verso mezzogiorno sentimmo arrivare quel trattore sbuffante non potevamo sapere
che di lì a poco quella strana macchina rotante ci avrebbe separato e mischiato assieme a tutti quelli che come noi erano su quel campo.
E non so se riuscirò a farti capire quanto ti avessi cercato in mezzo a quella stanza buia in cui eravamo finiti, tutti uno sopra l’altro, per poi essere
ancora portati via, verso altre macchine e altri strani luoghi.
Ma adesso che ti rivedo so solo che sono di nuovo felice.
74
Come vedi io adesso ho la forma di un cilindro: sono elegante, ho tutt’attorno delle lunghe e belle righe, come quelle di un gessato.
Tu invece vedo che sei diventata una farfalla: come quelle a cui ti piaceva dire ciao quando eravamo nel nostro campo!
Adesso – dopo tanto tempo – eccoci ancora qui insieme, su questo piatto, con attorno un nuovo profumo, quello di chi – come noi – ha respirato
lo stesso sole in un altro campo. Forse è per questo che anche lui ha il nostro colore, sebbene sia liquido e si chiami olio.
E lo senti ancora venire da laggiù il canto delle cicale?
Su questa tavola all’aperto, su questo piatto profumato, mentre ancora il sole ci saluta, guarda lassù le stelle: ecco che ci salutano ancora!
E’ stata una magnifica serata, vero?
- “Sì, e lo sarà ancora adesso che la forchetta qui accanto a noi ci accompagnerà a fare un altro viaggio: quello che alla fine ci riporterà alla nostra
terra, di nuovo assieme, io e te, ”.
Così disse la farfalla al rigatone...
759. (tu) _______________________________________
(il tuo nome)
La “mia” Storia di Pasta!
Ed eccoci arrivati al termine di questo nostro viaggio.
E’ stato un piccolo viaggio in un grande mondo, quello della pasta, che in fondo se ci pensate
bene è infinito quanto voi, i vostri gusti e la vostra fantasia.
Ed è per questo che l’ultimo capitolo lo voglio dedicare proprio a ciascuno di voi, affinché
ognuno possa raccontare la sua Storia di Pasta.
Buon divertimento e – soprattutto - buon appetito!
LA MIA STORIA DI PASTA LA MIA STORIA DI PASTA LA MIA STORIA DI PASTA LA MIA STORIA DI PASTA LA MIA STORIA DI PASTA
76
LA MIA STORIA DI PASTA LA MIA STORIA DI PASTA LA MIA STORIA DI PASTA LA MIA STORIA DI PASTA LA MIA STORIA DI PASTA
Disegna o scrivi qui la tua Storia di Pasta
77
“La scarpetta” (Appendice)
Invece per i “bucati” c’è all’interno del canale di formazione della pasta un’anima
cilindrica con dei piccoli supporti che consentono la creazione della parte cava. Uscita
dalla trafila, la pasta viene tagliata e – grazie ad un potente getto d’aria calda – viene eliminata dalla pasta ogni traccia di umidità superficiale per
impedire che diventi appiccicosa nella successiva fase di lavorazione. Una volta essiccata, la pasta viene poi inviata in confezionamento e
imballaggio. A questo punto è pronta per essere inviata ai supermercati e alle vostre tavole!
1. IL PROCESSO DI PRODUZIONE DELLA PASTA
La storia della pasta che ogni giorno mangiamo a tavola inizia al
Mulino, dove il grano arriva, viene pulito, condizionato, macinato
in laminatoi e poi raffinato attraverso delle semolatrici.
Una volta pronta, la semola viene mandata al Pastificio e, dopo
una fase di analisi e controllo qualità, viene messa nei silos di
stoccaggio.
Semola e acqua vengono poi pre-miscelate in una centrifuga
sottovuoto. L’impasto ancora farinoso passa in una zona di
compressione e, una volta “gramolato” cioè reso omogeneizzato
e compatto, viene diretto attraverso dei filtri alla fase di
trafilatura per assumere la forma definitiva.
Esiste una trafila diversa per ogni formato di pasta: per quella
corta le trafile (fatte di bronzo e alluminio) di solito sono circolari,
per quella lunga le trafile sono di solito rettangolari e la pasta
viene creata comprimendo l’impasto attraverso i fori sugli inserti
trafilanti.
78
2. Grano tenero o grano duro?
Come la pasta, anche le specie del grano sono diverse: pur appartenendo
alla stessa famiglia delle Graminacee i due generi Triticum turgidum
(variante durum) e Triticum aestivum hanno infatti caratteristiche genetiche
e morfologiche specifiche.
Ad esempio mentre nel grano duro le reste che compongono le spighe sono
di 20 cm, nel grano tenero queste ultime sono più piccole e hanno una
lunghezza di 3-8 cm.
Inoltre nel grano tenero il chicco è farinoso e di colore bianco, mentre nel
grano duro – quello usato per fare la pasta - la semola ha un colore giallo
ambrato.
Lo sapete che in base alla Legge n. 580 del 1967 la pasta secca deve essere
fabbricata solo ed esclusivamente con semola di grano duro?
79
80
“STORIE DI PASTA”
Buon appetito!

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Storie di pasta

  • 2. 2Dedicato a… a tutti quelli che amano l’Italia e la pasta, alla mia famiglia e ai miei colleghi di Barilla Paolo Donati “Storie di Pasta” © Giugno 2018
  • 3. 3 “STORIE DI PASTA” - MENU - “Premessa dello chef” 1. MUGABI – Dove c’è pasta c’è speranza (pag.7) 2. CEDRIC – Gli spaghetti di mezzanotte (pag.20) 3. MENG – Pasticcio di maccheroni (pag.36) 4. SUSAN – Un ditalino è per sempre (pag.44) 5. KIRAN – Le farfalle nel turbante (pag.53) 6. JOHN – Non è mai troppo pesto (pag.61) 7. MANUELA – I ravioli di Nonna Anna (pag.67) 8. NOI DUE – L’incontro (pag.73) 9. TU - La “mia” Storia di Pasta (pag.75) “La scarpetta” (Appendice)
  • 4. 4 “PREMESSA DELLO CHEF” L’Italia è un Paese meraviglioso. E la pasta lo è ancora di più. Soprattutto se vista dagli occhi di chi l’Italia, pur essendo lontana, la sente vicina anche attraverso l’irresistibile profumo di un buon piatto di pasta semplicemente condito con olio, pomodoro e basilico. Quelli freschi, naturalmente. Perché avere davanti un piatto di pasta è da sempre nella tradizione del nostro Paese l’occasione per colorare di verde, bianco e rosso i mille sapori che ancora ci sono nel territorio. Quelli che, anche di fronte a una giornata andata storta, sono in grado di insaporire un qualsiasi piatto di pasta e così far tornare il sole al nostro umore. La pasta così come oggi la intendiamo è intimamente connessa al mondo Mediterraneo. Prima del big bang industriale, quello che ha portato la pasta alle nostre tavole, l’universo della pasta era in principio un modello cosmologico semplice: un ammasso di farina, acqua, lievito e sale che oggi chiamiamo “gnocco”. Questo perchè nell’antichità si faceva prima il pane e poi la pasta: di più, quest’ultima di fatto era usata in funzione di supplenza al pane. A parte i riferimenti sulla pasta presenti nella Bibbia e nel Talmud, esiste ancora oggi una vecchia parola greca “Laganon” che rimanda al concetto di “gnocco”: quello dal cui impasto venivano poi tagliuzzati dei sottili pezzi di pasta che in latino – grazie ad uno dei primi “food influencers” di nome Marco Gavio Apicio – erano chiamati “Laganum”. Avrete forse già capito che è da questa parola che deriva l’attuale termine “Lasagna”. Ma a Roma la pasta era “sfoglia”: Orazio, Cicerone e Catone parlano spesso del pane e della pasta "tracta" (dal verbo "trahere", tirare). E’ probabile che questi tipi di pasta fossero però arrivati in Occidente dalla Persia e dal mondo arabo grazie al fatto che – un po' più a Est - in Cina da tempo venivano usati i “noodles”, quelli che la tradizione dice che vennero portati poi in Italia da Marco Polo e quindi chiamati
  • 5. 5“spaghetti”. Altre fonti però dicono che il termine di “spago” derivi da una parola araba “itria”, che rimanda alle stringhe delle scarpe. Un tipo di pasta che venne appunto importato in Sicilia dagli arabi: prova ne è che esiste una val d’Ittria e una varietà di spaghetti che ancora oggi a Palermo vengono chiamati “trii”. Quale che sia la vera storia antica degli “spaghetti”, come tutti sappiamo però è alla città di Napoli che dobbiamo la nascita della pasta moderna. Uno dei primi documenti in cui quest’ultima viene ufficialmente citata è del 1509, quando il vicerè e conte Ripa Curisa intimò in un bando del regno napoletano che "quando la farina saglie per guerra o carestia o per indisposizione de stagione de cinque carlini in su il tumulo, non si debiano fare taralli, susamelli, ceppule, Maccarune, trii, vermicelli, ne altra cosa de pasta excepto in caso di necessità de malati". Negli anni la pasta diventa un piatto talmente popolare tanto che nel 1546 viene creata a Napoli l'arte dei "vermicellari": distinti dai panettieri, questi ultimi diventano poi "maccaronari" nel 1699 contribuendo a trasformare i napoletani da "mangiafoglia" a "mangia-maccheroni" e quindi a incentrare la loro dieta sui carboidrati, spesso unico ingrediente economicamente raggiungibile da tutto il popolo. E' in quei tempi che le strade di Gragnano e Torre Annunziata si trasformano in enormi stenditoi all'aperto. Da un lato, grazie al sole e ai caldi venti della zona vicina al Vesuvio. Dall’altro grazie ai primi meccanismi di trafilatura in bronzo che - inventati dallo scienziato Cesare Spadaccini – permettono alla pasta di essere prodotta in maniera industriale. Anche se all’epoca restava ancora un po' di artigianalità, in particolare quella legata all’esperto movimento dello "spannatore", la persona che prendeva la pasta dal torchio e poi la stendeva sulle lunghe canne per essere essiccata. Con il tempo e il progresso della tecnica, la produzione industriale di pasta arriva a trasformare la dieta degli italiani rendendola anche più economica: l'uso del sugo unito al profumo dei vari caci paesani rese poi il piatto completo anche dal punto di vista nutrizionale. Ma contrariamente a quanto si possa pensare, il passaggio all'uso quotidiano di "pastasciutta" non è stato così immediato: fino agli anni '50 la maggior parte della popolazione pensava ancora alla pasta come “pasto della domenica” o ingrediente secondario di ben più sostanziose minestre di legumi, di verdure o di carne. Alla fine è solo grazie al diffuso benessere degli anni '70 e alle moderne tecniche di conservazione e packaging che la pasta – grazie anche all’uso sapiente della pubblicità - è arrivata su tutte le tavole degli italiani.
  • 6. 6Ma la cosa più affascinante è che la produzione industriale non ha fatto venire meno l’espansione quantistica dell’ “universo pasta”: basti pensare al fatto che ancora oggi abbiamo più di 1.000 tipi di pasta non solo a livello regionale ma spesso anche a distanza di qualche km da un paese all'altro! E questo è sicuramente un patrimonio che innegabilmente dobbiamo tutelare. Perché, in fondo, da qualunque lato la si guardi, c’è sempre un posto per la pasta in ognuno di noi e in qualunque parte del mondo. Una cosa incredibilmente bella se si pensa che questa ricchezza alla fine è prodotta solo da pochi ingredienti naturali come acqua e semola!! Buon appetito!
  • 7. 7Buttiamo la pasta… buona lettura!
  • 9. 91. MOGABI – Dove c’è pasta c’è speranza. E’ sera. Anche oggi abbiamo camminato a lungo. In questo deserto spietato, quello su cui appoggiamo i nostri piedi, la vita è un miraggio appiccicato al sudore. E’ un deserto duro questo, proprio come la vita che ho lasciato. Ma certamente un deserto meno arido e duro del volto – quello senza pietà - di queste persone che, ormai da giorni, ci stanno guidano verso la nostra meta comodamente seduti a bordo di un furgoncino malandato. Quello da cui, davanti alla nostra colonna di disperati, sembrano quasi prendersi ancor più gioco di noi sputandoci addosso non solo i loro insulti e le loro risate ma anche il fumo dei gas di scarico della camionetta. Le pietre e la sabbia sono ovunque in questa pista disseminata di sole, sudore e lacrime. Forse sono quelle di chi, venuto qui prima di noi, ha dovuto lasciare ai margini di un cammino infuocato la mano di un parente o di un amico che, vinto dalla fatica fisica, ha passato a questa terra il testimone della Speranza. Un ultimo minuto di cammino poi ecco che il furgoncino si ferma come sempre per la sosta notturna. Ci sediamo per terra, stravolti di fatica, sparsi in cerchio in mezzo al pietrisco che tutt’attorno arreda questa nostra dura sosta. Accanto a me c’è Abu, mio fratello. E’ lui che, quando sento di non avere la forza di fare il prossimo passo, mi prende da dietro con le sue mani e mi spinge avanti. Proprio come facevamo al villaggio, quando correvamo a chi arrivava per primo al pozzo d’acqua. Non c’era mai gara: avendo le gambe più lunghe delle mie lui alla fine vinceva sempre. Forse spinto da amore fraterno, Abu mi lasciava sempre correre davanti a lui fino agli ultimi 100 metri, poi mi sorpassava spingendomi come per dire “avanti”. Abu mi ha sempre incitato a correre in tutti i momenti difficili. Al villaggio la nostra vita – quella spesa nei campi a coltivare banane – è sempre stata dura. La miseria non mancava mai.
  • 10. 10 Ma anche dentro le nostre capanne ogni tanto arrivava il vento del mondo moderno, con il suono delle notizie che uscivano dalla nostra radio e dalle immagini della televisione che il nostro vicino – in una più lussuosa baracca di lamiere – aveva comprato non si sa come assieme al generatore che, con orgoglio, usava anche per far andare la luce in casa. Almeno finché aveva benzina. Ad Abu piaceva ogni tanto cercare il mondo, quello lontano, andando via qualche giorno con il nostro vicino che trasportava le banane in città con il suo piccolo furgoncino. Abu lo aiutava a caricare la merce e lui gli regalava il viaggio e, tra le altre piccole cose, anche qualche rivista colorata che, non sapendo nessuno di noi leggere, guardavamo avidamente concentrandoci solo sulle fotografie. Abu teneva tutte queste riviste avvolte in una coperta accanto al giaciglio su cui dormiva. Ed è stato lui un giorno a parlarmi di quel sogno che, qualche anno fa, un altro suo amico (o forse un lontano parente, non ricordo) aveva realizzato pagando le persone giuste: lasciare tutto, andare via da qua e arrivare in terre in cui l’acqua non era solo nei fiumi e nella poca pioggia, ma dentro le case, dentro le cucine, quelle piene di cibo e di tavole mai vuote. E’ stato sempre Abu a convincere papà che anche noi dovevamo provarci. Aveva messo da parte qualche dollaro, ma aveva bisogno ancora di una mano. Per questo papà, che in fondo era un po' sognatore come lui, aveva deciso un giorno di vendere le nostre capre. Ma ad una condizione: che in quel viaggio Abu portasse anche me. Papà non aveva detto nulla alla mamma. Qualche settimana dopo era tornato a casa con in mano un mazzo di dollari in più che, con la forza di un padre e senza spendere inutili parole, aveva dato ad Abu dicendogli “và”. Il giorno dopo, a metà pomeriggio, eravamo sul furgoncino del vicino, diretti in città: noi due, le banane e tutti i nostri sogni di libertà. - “Mogabi, tieni” sento bisbigliare al mio orecchio. Rieccoci qua, in questo deserto. Mi ero assorto di nuovo nei ricordi. Mentre stavo pensando a tutte quelle cose Abu aveva aperto un pacchetto di biscotti, quelli che aveva trovato per caso ieri lungo il cammino. Buono per noi, male per chi li aveva persi… - “Fratello, adesso cerca di dormire, guarda che domani ci attende ancora un lungo cammino. Ma non ne avremo ancora per molto, sai? quel nostro amico – seduto là - poco fa mi ha detto che ha sentito parlare al telefono uno di quei quattro sul furgoncino. Capisce un po' l’arabo e ha sentito dire che domani ci daranno in mano ad altri uomini, quelli che ci porteranno al mare”.
  • 11. 11 Il mare. La nostra meta. L’inizio di quella traversata che avrebbe dato il senso a questa fatica, a questo caldo, a questo deserto. Dopo aver mangiato un po' di quei biscotti e bevuto un sorso d’acqua, abbraccio Abu ed insieme ci addormentiamo, non prima di aver guardato lassù, ancora per qualche minuto, il cielo buio pieno di stelle. Accucciati vicini non sentiamo il freddo della notte. Ma i passi di quei due bastardi con la pistola che si avvicinano ad una ragazza del gruppo sì. Eccoli, come l’altra sera, arrivare senza farsi troppi scrupoli e prendere la donna. La portano a forza verso il furgoncino mentre lei urlando cerca di liberarsi. Facciamo tutti finta di non vedere nulla e di non sentire le grida della ragazza che, con un pianto singhiozzante, li prega di lasciarla andare. Ma loro ridono, puntandole sempre il pugnale sulla gola… Ridono mentre la trascinano sotto il telone che hanno messo sul retro del furgoncino. E poi godono. Violare le leggi che non ci sono, così come il corpo di una donna, per loro non fa differenza! - “La loro condanna arriverà fratello, Allah si ricorderà delle loro malefatte” mi bisbiglia Abu. Rattristati ci stringiamo ancora e poi senza neanche accorgerci ci addormentiamo lì per terra. Nel deserto il sole sorge presto. Ed ecco ancora il caldo tornare a scandire i nostri passi: noi tutti, saremo forse una cinquantina, siamo di nuovo un gruppo senza parole che si muove muto verso l’orizzonte. E verso una meta. Non cambia nulla attorno. Solo qualche arbusto in più. Solo qualche roccia in più. Solo qualche sputo in più. Dopo alcune ore di cammino, ecco avvicinarsi una nuvola di polvere. - “Fratello, guarda” dico ad Abu. - “Hai una buona vista, Mogabi: è un’auto… vedi che aveva ragione il nostro amico?! dai, forza che ci siamo!” Tre notti dopo eravamo di nuovo sdraiati per terra, sotto lo stesso cielo pieno di stelle. Ma accanto a noi adesso, c’era finalmente quello che avevamo aspettato a lungo.
  • 12. 12 Quello che molti di noi avevano visto solo nei racconti di chi l’aveva visto prima o magari anche solo alla televisione. Eccolo, finalmente, qui vicino a noi il mare, dietro le dune, con i suoi respiri profondi e il bisbiglio delle sue onde. Sono così affascinato da questo spettacolo da dimenticarmi di mangiare l’ultimo biscotto. Quello che Abu mi spinge per scherzo in bocca ridendo: - “Ancora qualche giorno fratello, ancora qualche giorno…”. Di giorni ne passano invece altri due. E arriva altra gente. Tutti poveracci come noi. Alcuni della nostra terra, altri di posti che non conosco. Ma loro, i bastardi, sono sempre lì. Non sono più quattro ma otto. Hanno cambiato solo il volto ma non i loro occhi, i loro modi sprezzanti, la loro rabbia. Ieri ci hanno chiesto altri 20 dollari a testa: “Servono per il cibo da darvi” dicono. Ma quel cibo è solo qualche bottiglietta d’acqua e delle briciole di pane in più che non sfameranno nessuno. Neanche quei cinque bambini che adesso intravedo nell’altro gruppo. Come era calata dietro le dune ecco la luce del giorno tornare sopra di noi. E con essa eccoli tutti e otto arrivare in gran fretta. - “Avanti, prendete tutto, veloci, andate in quella radura!” ci dice uno urlando e brandendo un fucile. - “Dove ci portate?” chiediamo. - “Al paradiso!!!” risponde ridendo quello. Abbiamo paura, non ci fidiamo di loro. Anche ieri sera un paio di loro sono venuti in mezzo a noi per prendere una giovane ragazza dall’altro gruppo. L’hanno portata via dopo che uno di loro aveva stordito con il calcio del fucile quello che, presumo, fosse un suo parente. Sono bestie, non esseri umani. Ci maltrattano, ci deridono, ci derubano non solo di quel nulla che abbiamo ma anche della nostra dignità. Dopo poco finalmente arriviamo alla radura dietro le dune, lì accanto alla spiaggia. - “Sedetevi qui e aspettate” dice il più magro degli otto. Non mi importa di avere di nuovo le labbra secche: forse perché noi tutti abbiamo una sete diversa, quella di un sogno, di una speranza. Quella che – dopo qualche minuto – vediamo arrivare dal mare. Spinta a riva da quattro di loro, ecco apparire una barca.
  • 13. 13 - “Voi là, avanti, salite a bordo, veloci, veloci!” dice il capo dei nostri aguzzini. “Prima però di salire mettete tutti 5 dollari qui! Avanti, tirateli fuori e metteteli qui su questa scatola, coraggio!”. Ci guardiamo attorno spiazzati non tanto dalla somma richiesta ma da quel loro modo di taglieggiare della povera gente. - “Ma io non ho più nulla” dice una donna. - “…ci avete già chiesto soldi, non potete, vi abbiamo già pagato!” grida un altro. - “Zitti, pezzenti, chi non paga non parte!” urla uno di loro. E per far capire che comanda lui, spara in aria una raffica dal suo fucile. Abu ed io ci guardiamo negli occhi e nelle tasche. Sono gli ultimi 20 dollari. Senza guardarci attorno, li mettiamo nella scatola, poi – dimenticandoci che non sappiamo nuotare - entriamo velocemente in acqua e saliamo sul gommone trascinato dalle onde che si infrangono sulla riva. Siamo fra i primi a salire. Il gommone – di colore verdastro - non è grande: è piuttosto lungo, un po' sgonfio su uno dei due lati. Dietro, vicino al motore, due di loro armeggiano con una tanica di benzina. Fra spintoni, uomini che cadono in acqua e donne che arrancano con i loro bambini in mano, ci mettiamo un po' a far salire tutti a bordo. Saremo forse un centinaio, tutti ammassati gli uni agli altri, un po' come tutte quelle banane che qualche settimana fa caricavamo sul furgoncino del vicino. L’odore di tutta quella gente ammassata in poco spazio è molto forte. Alcuni, pur di avere un po' più di spazio, si mettono seduti in bilico sopra il bordo del gommone. - “Voialtri, ascoltatemi bene” – dice a un certo punto il loro capo reggendosi in piedi sul retro del gommone – “questa manopola qui lungo il motore serve per far andare le eliche. Se girate il motore, gira anche la barca. Qui, in questa tanica, c’è la benzina. Lì accanto avete una piccola bussola. Ma non vi servirà: andate sempre dritti, dopo qualche ora, verso il tardo pomeriggio, troverete la vostra terra!”. Detto questo, fa un salto e scende in acqua. Assieme ad altri quattro suoi compagni gira il gommone verso il mare. Poi, urlando, fa cenno di andare ad uno dei nostri compagni che si era messo alla guida. Dopo qualche secondo prendiamo velocità, saltiamo sopra qualche onda che spruzza tutti quelli davanti e usciamo pian piano dalla baia in cui eravamo. Alcuni di noi ridono, sono felici. Altri cantano, altri ancora stanno zitti. Tutti siamo bagnati.
  • 14. 14 Mentre andiamo sento anch’io un po' di felicità: ce l’abbiamo fatta, ora abbiamo per davvero lasciato la nostra Africa! Senza accorgermi prendo la mano di Abu e la stringo. Vedo scendere una lacrima dai suoi occhi, poi senza dirci altro, ci abbracciamo ancora e ci teniamo stretti lungo il bordo della barca. Adesso il mare è diventato là fuori il nostro nuovo deserto: a parte le piccole increspature delle onde tutt’attorno, tanta acqua, null’altro che acqua, soltanto acqua. Già, quella che da noi spesso mancava e si cercava nel fiume, nei pozzi o nelle nuvole all’orizzonte… La nostra barca continua ad andare. Ma adesso quasi nessuno parla: si sente solo il rumore del motore e di tanto in tanto qualcuno che si lamenta del vicino che spinge. Pigiati come siamo non c’è molto spazio per muoversi. E nemmeno per respirare. Anche in questo viaggio il tempo sembra non passare mai. Ormai non si vede più la terra: né quella vecchia che abbiamo lasciato dietro il gommone, nè quella nuova che tutti noi stiamo aspettando all’orizzonte. Forse è per questo che, ad un certo punto, qualcuno comincia a chiedere: - “Ma siamo sicuri di dove stiamo andando? Forse ci siamo persi!” - “No, dobbiamo andare dove ci hanno detto, vedrete che presto arriveremo a terra!” Mentre alcuni di noi cominciano a parlottare, alcuni bambini cominciano a piangere. Le madri sono ora un po' impaurite. Alcuni – forse stanchi di stare accovacciati nel poco spazio – provano a stirarsi le gambe. Uno vicino a me si mette addirittura a orinare, fra le urla dei vicini che cercando di non farlo muovere troppo fanno piegare un po' lo scafo, lì nella parte che già alla partenza era un po' sgonfia. - “Fermi, state fermi, se vi muovete la barca si capovolge, non lo capite!!” dice urlando un giovane lungo e dai pochi capelli. - “Ha ragione, dategli retta, non agitatevi” aggiunge quello che ha in mano il motore. Poi, d’improvviso, dopo aver preso un’ondata secca, un ragazzo seduto ai bordi del gommone cade in acqua. C’è un attimo di silenzio: che fare? Ci accorgiamo che il poveretto non sa nuotare: si agita in acqua, cerca di stare a galla ma, quello al motore, tira dritto e continua ad andare avanti. - “Aiutatelo, fermate la barca, che fate?!” gridano in molti. Ma il nostro naufrago rimane lì.
  • 15. 15 Pochi istanti dopo, in mezzo alle onde, vediamo solo la sua mano uscire dall’acqua, come se ci salutasse... Siamo tutti spaventati. E ora il mare, come se volesse protestare anche lui, comincia leggermente ad alzarsi. La nostra barca, saltellando, piegandosi nelle parti un po' sgonfie, regge nonostante tutto e va avanti. Ma il silenzio dura poco e si sente ora chiaramente il panico alzarsi assieme alle onde. Vicino a me, alcune donne cominciano a recitare quelle che penso siano delle preghiere. Qualcun altro, lì vicino, invece recita il Corano. Anch’io ed Abu ci uniamo alla loro, alla nostra, speranza. Quella che, forse grazie alla forza di tutte quelle diverse preghiere, ancora una volta emerge lentamente da lontano, con un rumore che man mano che si avvicina vola nel cielo. - “Un elicottero!” gridano alcuni. Eccolo laggiù alla nostra destra! Anche se distante si vede che è grande: se non fosse per un lungo tubo dietro, sembrerebbe aver la forma di una nave che vola. - “Siamo qui, siamo qui” urliamo tutti, agitando le braccia verso l’alto. La barca comincia di nuovo ad ondulare. Alcuni si alzano in piedi cercando di farsi vedere dall’elicottero. Le onde, il rollio della barca e quello delle urla di molti compagni, ci fanno inclinare pericolosamente sul fianco afflosciato del gommone imbarcando acqua. Poco dopo arriva un’onda, breve ma piuttosto alta. La sentiamo schiaffeggiare lo scafo che fa un sobbalzo secco. Questa volta a finire in acqua sono almeno cinque! L’elicottero continua a volare, si avvicina e si mette accanto a noi gettando in acqua dei salvagenti. Poi si allontana. - “Non andate via, non andate via!!” gridano tutti. Il panico dilaga. Le onde si alzano assieme alla disperazione dei molti.
  • 16. 16 Poi - di nuovo – alcuni si mettono ancora in piedi per richiamare l’attenzione dell’elicottero. Questa volta però arriva un’altra onda secca e la barca si inclina di molto su un lato. La gente si spaventa, grida ancora. E’ un attimo. Poi tutti ci troviamo in acqua. La barca si è ribaltata. -“Abu, Abu” grido cercando di tenermi a galla. Mentre tento di spingermi con le gambe e le braccia verso il gommone che ancora galleggia immobile sull’acqua, alzo la testa per respirare. Faccio tanta fatica a nuotare, le onde mi fanno entrare molta acqua in bocca: tossisco e sento tossire, grido e sento gridare ma con tutto il fiato che ho grido mille volte il nome di mio fratello, sperando di ritrovarlo accanto a me. Non so come riesco a raggiungere il gommone: cerco di prendere il suo bordo con la mano ma tutto scivola. Lotto ancora, non voglio morire qui come quel poveretto. Poi, mentre cerco ancora una volta di avvicinarmi con un ultimo sforzo, sento da dietro una mano che mi spinge forte verso il bordo della barca. Eccolo, lo prendo, lo afferro con tutta la forza che mi è restata. Sono ben aggrappato. Adesso non devo più cercare di nuotare. D’istinto guardo indietro per cercare quella mano che mi ha spinto: eccolo, lo vedo, Abu è lì, che mi guarda un istante in silenzio, come per dirmi ancora qualcosa prima di scivolare esausto sott’acqua. Non ho più il tempo di urlare il suo nome. Non ho il tempo nemmeno per piangere o buttarmi in suo soccorso. Un secondo dopo uno dei tanti naufraghi che nuotano attorno disperati cerca di aggrapparsi alla mia gamba. E dimenandosi mi strappa i pantaloni mentre salgo sul dorso del gommone rovesciato. Non mi arrendo ancora e cerco di vedere se Abu è ancora lì vicino. Ma le grida e le urla di chi è in acqua sono ancora molte. Vedo un bambino che è in bilico sul bordo mentre la madre lo cerca di trattenere con tutte le sue forze. Senza pensarci allungo la mano e li porto su con me. Anche loro sono salvi. Ma per quanto? Tutto attorno a noi il mare è pieno di schiuma. Sono le onde che ormai allontanano gli ultimi che – non sapendo nuotare – affogano uno dietro l’altro cercando di avvicinarsi a noi. Alla fine, su quello scafo rovesciato, restiamo solo una ventina. Siamo tutti affaticati e distrutti non solo dalla fatica, ma soprattutto da quello che abbiamo visto passare sotto i nostri occhi. Ma non c’è tempo per piangere. E neanche per morire. Perché ecco arrivare di nuovo l’elicottero.
  • 17. 17 Questa volta è più in alto, si avvicina e resta sopra di noi. Mentre cerco di pulirmi gli occhi che bruciano, vedo alla nostra destra una grande nave che si avvicina. E’ lunga e grande, con una scritta rossa davanti. Rallenta, si avvicina, poi da uno dei suoi lati, esce un gommone con dentro delle persone. E’ piccolo e si dirige velocemente verso di noi. Si avvicina al nostro relitto: ci lanciano delle funi. Il viaggio a bordo della nostra barca è finito. Ne inizia ora un altro, molto più grande. Adesso, finalmente a bordo della nave, siamo finalmente all’asciutto: niente più vento in faccia, onde e grida tutt’attorno. Alcuni dei nostri soccorritori passano e ci danno subito delle coperte per asciugarci. Poi ci danno dell’acqua calda da bere. Sono quasi tutti ragazzi come noi. Fra di loro parlano una lingua che non avevo mai sentito. Li vedo passare veloci, mentre provano a sistemarci in alcune delle stanze della nave. Noto che fra loro ci sono anche delle donne: non ero abituato a vederne in divisa. Vestono tutti delle tute e un cappellino blu. Sul braccio portano tutti uno stemma. Deve essere la loro bandiera. Ha tre colori uno accanto all’altro: verde, bianco e rosso. Sono ancora un po' confuso. Faccio fatica a realizzare se tutto questo sia vero o solo un brutto sogno. E poi sono ancora incapace di pensare al fatto che qui, in mezzo a noi, non c’è più Abu. Chiedo ad alcuni nostri compagni se si ricordano di lui, se lo hanno visto quando ci siamo rovesciati, se magari anche l’hanno incontrato qui a bordo. Ma nulla. Adesso nessuno mi può aiutare. Il mio cuore batte ma è morto. Anche se ancora sento quella mano che mi aiuta ad andare verso il bordo del gommone: ancora una volta è stato lui a spingermi avanti, ma per salvarmi, per farmi vincere la gara più importante, quella con la vita. Il tempo adesso non so cos’è. Bevo e mangio qualcosa senza farci caso, come un automa. Poi mi metto addosso una coperta e senza rendermene conto mi addormento sfinito. Il tragitto questa volta però è breve. Arriviamo in un porto verso sera, ancora confusi e senza sapere bene cosa succederà. Ci fanno scendere.
  • 18. 18 Vedo che a terra ci sono altre persone in divisa, alcune indossano delle tute bianche, altre sono dei dottori con la croce rossa e altri ancora fanno delle foto. Veniamo identificati, ci chiedono (ma l’inglese lo capisco ancora poco) il nome, il paese da cui veniamo e tutto quanto ricordiamo del nostro viaggio, poi i nomi dei parenti e tante altre cose che uno di loro scrive in un registro. Alla fine mi danno un documento e mi mettono in un’altra fila lì accanto. Aspetto il mio turno. Quando tocca a me entro in una stanza dove ci sono dei dottori. Mi fanno una visita, scrivono anche loro delle cose, poi mi dicono di prendere dei vestiti nuovi che ci sono lì accanto. Non sono proprio della mia taglia ma sono nuovi e in più sono puliti. Facciamo un’altra fila. Un’altra attesa poi finalmente veniamo portati con un grande autobus in un villaggio fatto di case simili a quelle del nostro vicino. Qui però possiamo accendere la luce a ogni ora, possiamo andare in bagno senza fatica e lavarci con acqua fredda e calda che esce dai rubinetti. Qui passiamo alcune settimane, parlando del nostro viaggio, di chi è restato là in mare, delle nostre speranze e di come raggiungere qualche amico o parente partendo da questo paese che – ora imparo – si chiama Italia. Alcuni dicono di voler andare in altre città in Francia, Germania, Belgio: solo che per arrivarci capisco che servono altri soldi. Altri dicono che invece si può decidere di restare qui. Io non lo so, ci devo riflettere: dopo quanto mi è successo ho bisogno forse di ritrovare per prima me stesso. Passano i giorni, poi i mesi e adesso, a qualche anno di distanza, eccomi qui, di fronte a voi, in questa bella sala. Nel tempo che è passato in questo paese che prima mi ha salvato poi accolto, non voglio dire che sono mancate le difficoltà. Sono state tante in verità. La fortuna, le preghiere, il destino mi hanno però fatto rialzare. Anche grazie a chi ora è qui, accanto a me. La ricorderà anche lui: questa parte della storia ce la siamo raccontata tante volte. Era stata una lunga giornata di lavoro quella che avevo passato lì al sole, sui campi, a raccogliere pomodori. Fu lui che mi vide mentre tornavo a piedi alla nostra baracca, passando con il suo furgoncino. - “Ehi tu, salta dietro che ti do’ un passaggio” mi disse. Stanco com’ero non ci pensai su molto.
  • 19. 19 Pensavo fosse un altro di quei soliti “caporali”. A un certo punto, lungo la strada si fermò e, aprendo il finestrino che c’era dietro l’abitacolo, mi disse: - “Ce la fai ad aiutarmi a scaricare quelle “due” casse là? Dai, se mi aiuti ti offro la cena!”. Un’ora dopo, con venti casse in meno di pomodori sul furgoncino, eravamo tutti e due seduti a un tavolo di un bar a mangiare un buon piatto di pasta. E poi, solo due giorni dopo, eravamo diventati colleghi: lui guidava e io lo aiutavo ogni volta a caricare e scaricare la merce su e giù per i mercati della zona. Poi, la storia la conoscete: un giorno lui mi presentò a Dario, che poi mi portò da Giorgio e alla fine, eccomi qua in fabbrica a lavorare al magazzino con voi! A lui, ma anche a voi tutti che mi avete accolto qui e che oggi siete in questa sala, assieme al nostro direttore, a sentire la mia testimonianza voglio sinceramente dire che - in questa azienda – voi non mi avete dato solo un lavoro, ma anche la possibilità di vivere una nuova vita. Non dimenticando però quella di prima, vissuta lontano da qui, con altre persone, amici e parenti. E adesso, se avete ancora un attimo, vorrei ringraziarvi… donandovi per pranzo un piatto che ho preparato per voi! E’ un piatto questo che, come potete vedere, viene dall’Africa. Parla della mia terra, dei suoi colori, dei suoi animali e delle sue genti. Ma sopra – ecco qua – voglio ora metterci questa pasta, il simbolo della vostra terra, del vostro sole e della vostra tradizione. In altre parole, della mia nuova vita. Che, adesso posso dirlo, è ripartita anche grazie a questo cibo così buono che da tempo mangio assieme a voi ogni giorno. La pasta che ho preparato – eccola - come potete vedere è semplice: un po' come me... Ci sono i Fusilli, che hanno la forma delle eliche che su quel gommone mi hanno portato qui da voi. Poi ci sono questi pomodori, quelli che ho iniziato a raccogliere nei campi quando sono arrivato in Italia. Poi c’è l’olio, quello “di gomito” - come dite voi - che vuole simboleggiare il Lavoro, quello duro che però porta tutti noi a casa ogni sera assieme alla dignità e al rispetto, permettendoci anche di cucinare questa pasta e arricchirla magari con tante altre cose buone. Ecco, tutto è ricominciato da qui, da questa pasta e da questi ingredienti.
  • 20. 20 Manca Abu. Ma lui sarà sempre per me quello che ora, ecco, metto qui nel piatto: il sale. Quello del mare che l’ha portato via da me ma che, ancora oggi, con questi piccoli granelli, me lo riporta accanto ogni volta che mangio questa pasta. Ridando sapore e senso a questa mia nuova vita. Perché, ora lo so, dove c’è pasta c’è davvero speranza…
  • 21. 21 Credits: Aboutumbria.it2. CEDRIC – GLI SPAGHETTI DI MEZZANOTTE
  • 22. 222. CEDRIC – Gli spaghetti di Mezzanotte Lo sapevo che dovevo andare in aeroporto prima! E invece adesso eccomi qui in fila imbottigliato nel traffico. Il navigatore dice che arriverò a Roissy fra 45 minuti. Dunque, adesso sono le 18.00, l’aereo parte alle 19.30 quindi vuol dire che ti imbarcano alle 19.10 al massimo. Forse, se riesco a lasciare l’auto al parcheggio sotto e poi correre veloce al Terminal 2F, dovrei riuscire a passare i controlli di sicurezza usando la mia Priority card. - “Pronto? sì sono Cedric Dubois… mi dica… no, no, confermo: arriverò stasera alle 20.30… sì, a Linate… sì sì, certo, come al solito, merci, grazie!” E’ da tre settimane che il mercoledì prendo quest’aereo per andare a Milano. Io non volevo, avevo chiesto di seguire quell’altro progetto in Belgio, a Bruxelles, ma niente, loro – quelli del Personale – non capiscono mai nulla. Per quelli spostare una persona in un team di progetto è come spostare una cella di excel in un file: tanto chi si muove non sono di certo loro! E adesso, se dovessi perdere quest’aereo, non ne voglio proprio sapere. E’ stato Pierre, quel genio degli Acquisti, a tenermi due ore con il fornitore. Lui e le sue procedure! Tanto che gliene frega se noi siamo in ritardo di un mese con il cliente. Una banda di matti, ecco cosa sono, una banda di matti scatenati… …e adesso chi è? - “Sì, pronto? Ah buonasera Signor Rossi, come va, tutto bene? Sono felice di sentirla! … Come? No no no, tutto procede al meglio, dica pure al suo Direttore Generale che andremo live nei prossimi giorni, c’è stato solo un piccolo ritardo nel caricamento dei files sulla piattaforma, ma ci stanno lavorando sopra tutti i nostri colleghi dalla Sede con l’aiuto di un team di supporto… ci conti, certo…. La richiamo io appena possibile per un aggiornamento! … d’accordo… ci sentiamo, a presto, buonasera e… forza Italia per stasera… come? Non si può dire? Ah già, no no no, abbia pazienza, dimenticavo, eh eh eh… d’accordo, certo, la chiamo domani, buonasera, sì, buonasera…”. …stronzo! Adesso chiamo Anne, mi deve dare una mano. No, mi deve dare altre 5, no dico 7 persone come minimo! E’ lei che ha fatto questo casino con quelli dell’IT. Mmh, ah ecco, finalmente si va: il traffico davanti si muove, super!
  • 23. 23 Ora di arrivo… 18,43: forse ce la faccio!! - “Anne? Cedric… indovina con chi ho appena finito di parlare? … sì, già, proprio lui… e indovina cosa gli ho detto? … eh già, 3 giorni… tu sai cosa vuol dire, vero?? 5, no dico 7, 7 persone di supporto al mio team di Milano, e da domattina!! … no no cara, io adesso prendo l’aereo, vado in ufficio a Milano e aspetto domattina con il mio team. Se non ci date quelle 7 persone noi ci fermiamo! … non ne voglio sapere, parlaci tu con loro… il ritardo è vostro! Punto! E adesso scusami ma devo chiamare subito Sergio perché dobbiamo preparare assieme la riunione di domani con Rossi. Ciao, ciao….”. Un altro paio di telefonate, un altro rallentamento, poi ecco là, su nel cielo, un aereo appena decollato! Ci siamo ci siamo! Ora d’arrivo 18,42. Sono due minuti! - “Sì, pronto… sì, sono io… salve… come? No no no, non sono mie… non ho proprio idea di chi le abbia lasciate lì… no no, non lo conosco. Ho visto che ha traslocato la scorsa settimana ma non ho proprio idea di chi sia… d’accordo, grazie, sì… arrivederci”. Il portinaio, che rottura! Cosa vuoi che ne sappia della vita del nostro palazzo, non ci sono quasi mai… E poi secondo lui io sono uno che lascia uno scatolone sul pianerottolo? Ma tu guarda. Sarà ovviamente il nuovo vicino che ha preso il posto degli Oliviers… Ah, ecco, per fortuna che qui si passa veloci! Laggiù, ecco il terminal, dai, devo solo riuscire a parcheggiare veloce sperando che questo qui che è davanti non abbia fretta… ecco, ci starei proprio là… no!!! Mi ha fregato, maledetto, anzi no… maledetta, lo sapevo che era una donna… ma guarda, che fa? dai muoviti, che ci vuole ad entrare là? Oh, finalmente… Ecco là un altro posto, che fortuna, solo venti metri più in là… ho però perso il minuto guadagnato! Vabbè, ecco qua, parcheggiato!!! Adesso devo solo prendere il mio trolley, la giacca e… accidenti, il cellulare! Per un pelo, eccolo, lo stavo lasciando attaccato lì davanti a quel gingillo sul parabrezza. Chiavi, eccole: chiudiamo e via!
  • 24. 24 Per fortuna che qui siamo solo al meno 2. Ah, ehi, guardala, eccola lì, quella che mi ha fregato il parcheggio… ma dove pensa di andare con quel trolley rosso?? Vabbè, lasciamo perdere, ecco l’ascensore: fantastico, è già qua. Pulsante “Partenze”, “chiudi porte” e vai bello, su, su, veloce. Ore 19 esatte. Dunque, a sinistra, banco Priority, eccolo là… andiamo andiamo… - “Buonasera Signorina, ho il volo per Linate delle 19,30: mi perdoni, posso chiederle di passare?” dico ad una ragazza che mi precede in coda. - “…ah, oui, d’accordo, prego…” mi risponde. Grande, grande!! Passo il cellulare all’addetta: - “Linate, 19,30” le dico. Lei mi guarda senza dir nulla poi bippa il codice sul cellulare e mi dice di andare avanti. Ora devo fare veloce ai controlli della Sicurezza. Vaschetta, giacca, cintura, orologio, trolley, busta liquidi… - “Signore, la sua carta d’imbarco” mi fa l’addetto. Ecco, ho messo in giacca il cellulare: accidenti, ma me l’hanno appena bippata, che storia questa dei controlli!! - “Scusi… aspetti che gliela passo, è lì nel cellulare sulla giacca… ecco… grazie mi scusi ma ho l’aereo che sta per imbarcare…” Ore 19,15. Ce la faccio, entrerò per ultimo, non importa e pazienza se non riuscirò a mettere il trolley sulla cappelliera sopra il mio posto. Dunque, uscita 22C, uguale giù di là, dopo “Paul” e il “Caffè Illy”. Oh no, il cellulare squilla! No, adesso non posso!! Mi precipito al gate, eccolo là, appena in tempo… Sono proprio l’ultimo. Per un pelo, è andata bene. L’addetto prende la mia carta d’identità, il cellulare, bippa… ok adesso via dentro il finger vetrato che mi porta all’aereo.
  • 25. 25 Arrivo giù, ci sono ancora delle persone che stanno aspettando per entrare. Solita coda di chi non ha fretta… Ah, ecco, mi ero dimenticato di vedere il posto: 6C, corridoio! Come al solito l’aereo è pieno. Accanto a me per fortuna non c’è però nessuno: meglio, così potrò stare comodo e finire di lavorare al mio report sul computer. In questi casi l’aereo – a parte il decollo e l’atterraggio – è comodo per lavorare senza interruzioni di chiamate. A proposito! La chiamata di prima… vediamo chi era… ah, è quello dell’IT, lo richiamo dopo quando atterro. Fa caldo ora, non capisco perché non accendano l’aria condizionata. - “Mi scusi signorina, perché non partiamo?” chiedo alla hostess che passa un secondo sul corridoio - “Ancora un attimo di pazienza signore, stiamo aspettando forse ancora un passeggero” Ecco, lo sapevo. Uno si catapulta come un tornado per venire qui, poi c’è sempre il ritardatario di turno! - “Mi scusi ancora signorina… può intanto chiedere però se è possibile accendere l’aria, qui fa caldo!” - “Vediamo cosa possiamo fare signore, grazie” Beh, speriamo, sembra che oggi sia scoppiata l’estate africana… Ah, ecco, forse è arrivato il ritardatario! No! Non ci posso credere… Lei!! Quella con il trolley rosso!!! - “Prego signorina, che posto ha? … da quella parte...” sento che le dice la hostess di prima Ma tu guarda!
  • 26. 26 Vabbè, sì sarà carina, avrà anche qualche anno meno di me, ma, dico io, come si fa, dico, come si fa ad avere un trolley rosso come quello, con… no ti prego… anche la borsa rossa coordinata di peluche! Eccola che passa… Si ferma… no eh… ti prego… - “Mi scusi, sono seduta qua” mi dice (in italiano!!) indicando con il dito il posto vuoto accanto a me. Eh no!! Anche questo no!! Me la devo tenere accanto per tutto il viaggio!!! Mi alzo e la faccio entrare. - “Assistenti di volo ai propri posti… signori e signore benvenuti a bordo…” Ecco che chiudono le porte mentre inizia la solita scenetta sulla sicurezza degli assistenti di volo. Per fortuna la mia vicina è magra: mi ricordo ancora di quel viaggio che avevo fatto al suo posto in mezzo a due lottatori di sumo la scorsa settimana… che incubo…. Mentre mette il suo trolley rosso sotto il sedile, noto l’altra passeggera che ha accanto, una cinese. La guarda tutta sorridente. Bah, ridono sempre… anche se gli dici una cosa che non capiscono, che tipi pure loro… Ci spingono indietro verso la pista. Il comandante fa il suo discorso, poi accendono i motori e ci avviamo verso il decollo mentre gli assistenti di volo passano velocemente per un ultimo controllo ai passeggeri. La mia vicina, intanto, apre la sua rossa borsa di peluche. Avrà almeno tre braccialetti pieni di ciondoli sul braccio… ecco, uno ovviamente ha il cornetto rosso… doveva essere coordinato anche quello!! Cosa starà cercando?? No, ecco, lo sapevo…
  • 27. 27 Il trucco!! Apre una scatoletta color oro, tira fuori una spugnetta bianca e si mette a imbellettarsi. La cinese accanto la guarda con complicità, lei le fa un sorriso mentre continua e l’altra, ovviamente, ricambia e poi… ride… Donne… E adesso? No, il profumo no!! Ci mancava pure quello. Mi giro verso il corridoio, poi dopo pochi istanti l’aereo decolla. Dai finestrini della fila accanto entra una luce quasi estiva: si preannuncia un volo calmo senza nuvole. Finita la salita, dopo che le hostess ci offrono il solito succo e i soliti salatini, apro la borsa e appoggio sul tavolino il computer. Devo portarmi avanti, domani si preannuncia una giornata dura. La mia compagna di viaggio invece legge una rivista di moda. Guarda un pò lo smalto sulle unghie. Di che colore sarà? Ma rosso, non poteva essere altrimenti… Vabbè… comincio a lavorare… dunque devo fare tre mail da girare in sede e poi il report. Rossi sarà con il fucile puntato, meglio avere già pronte tutte le risposte alle sue domande! Ding: “Signori e Signore il comandante informa che abbiamo iniziato la nostra discesa verso l’aeroporto…”. Veloce, il tempo è passato veloce. E ho solo risposto alle tre mail! Il report: adesso quando arrivo in albergo mi devo concentrare solo su quello, poi metterlo nella presentazione, chiamare l’IT per vedere se si sono mossi e capire dai colleghi di Milano se domattina riescono a venire presso la hall per un veloce brief prima di andare da Rossi tutti assieme. - “Mi scusi, permette?” La mia vicina mi guarda indicando che deve alzarsi.
  • 28. 28 Mi alzo e la faccio passare, poi, mentre lei si dirige verso il retro della cabina, richiudo il tavolino e spengo il PC. I motori ora calano di potenza: iniziamo a scendere. La tipa dov’è finita? Ding: “Signori e Signore, vi preghiamo di allacciare le cinture di sicurezza, richiudere i tavolini e spegnere gli apparati elettronici”. Boh, nessuna traccia della nostra. Le hostess passano su e giù preparandosi per l’atterraggio. - “Pardon?” Alla buon’ora, eccola… Mi alzo e la faccio passare alla mia destra. Ecco perché c’è stata tre ore: la scia di profumo che si è messa di nuovo dice tutto! Si è anche legata all’indietro i capelli. Beh, bisogna dire, non male… - “Assistenti di volo prepararsi all’atterraggio” La voce del pilota e l’uscita del carrello, seguita dal solito “ding”, avvertono che ancora qualche minuto e atterreremo. Mi volto verso destra per guardare dal finestrino: e lei prende dalla borsa i suoi occhiali e li indossa come un cerchietto sulla testa. Si gira verso l’oblò e poi verso di me sorridendo. Ricambio. Poi, bump, ecco che tocchiamo terra, l’aereo frena e infine girando a destra si avvia verso il parcheggio. Facendo finta di guardare dal finestrino mi soffermo qualche istante ancora sulla mia vicina. Il suo profumo mi arriva ancora mentre si mette le mani sui capelli, sistemandosi la piega. Ding. Le hostess si alzano. E subito dopo tutti i passeggeri.
  • 29. 29 Non avevo notato che stasera siamo al finger: attaccati al terminal faremo prima a scendere senza aspettare l’autobus. Mi alzo, apro la cappelliera, poi prendo il mio trolley. Lei si alza e mi viene accanto. Abbozzo un mezzo sorriso poi mentre mi metto al centro del corridoio la saluto con un cenno del capo. - “Buonasera”. Lei mi sorride e mentre fa per rispondermi le suona il cellulare. Lo prende e comincia a parlare con qualcuno. Mentre mi fermo a guardarla sento che la persona dietro di me spinge per passare: stanno scendendo tutti, non mi ero accorto. Spinto dalla marea frettolosa dei passeggeri mi avvio verso l’uscita dell’aereo, poi lungo il corridoio di vetro che porta al terminal. Siamo al piano di sopra, dunque devo andare verso l’edicola a sinistra e poi prendere le scale mobili. Per fortuna che Linate è piccolo. Mi volto per vedere se lei è restata dietro. Non la vedo. Pazienza. Appena al piano sotto mi dirigo verso le porte automatiche dell’uscita passando accanto ad alcuni poliziotti che tengono al guinzaglio un cane lupo marroncino. Appena fuori, invece ecco la solita folla delle persone in attesa di parenti ed amici. Stasera sembra siano una marea! Mi dirigo verso l’uscita del terminal per prendere un taxi e andare in hotel: sento una persona tornare indietro furente. Cos’è che succede? Eh no, perché non ci sono i taxi qui fuori?? - “Scusi, ma com’è che non c’è nessuno?” chiedo a un altro passeggero che era nel mio volo. - “Non lo so” mi risponde, poi vedo che prende il cellulare e chiama una persona. Aspetto: magari i taxi sono nel parcheggio. A volte capita che poi arrivino tutti d’un colpo! Nulla… Torno dentro, giro verso il corridoio e mi avvio verso il bar, magari sanno qualcosa. - “Mi scusi signorina, ma com’è che non ci sono taxi qui fuori?” chiedo alla barista alla cassa.
  • 30. 30 - “Ah ma non lo sa? Stasera c’è sciopero!” mi dice un po' annoiata… Lo sciopero!! Me ne ero dimenticato, è vero, Cecile prima di uscire me lo aveva detto! E adesso?? - “Guardi che se vuole c’è un bus dell’ATM, quando esce da quella porta laggiù lo vede…” aggiunge la barista. Fantastico: ci mancava lo sciopero. Adesso con il mezzo pubblico ci metterò un’ora a raggiungere il Centro. E poi un’altra mezz’ora per arrivare con la metropolitana in albergo. - “Mi scusi Signorina, non sono di qua: ma per il biglietto come faccio?” chiedo alla barista. - “C’è la macchinetta laggiù” mi risponde. La ringrazio e mi avvio lungo il corridoio. Prendo della monetina e poi con le istruzioni in francese prendo il biglietto ed esco. Vedo una signora che corre verso il bus: mi volto e, accidenti, mi accorgo che sta per partire!! Corro anch’io verso l’entrata sul retro: conviene fare presto, prima che passi il prossimo è sicuro che farà notte!!! Bip-bip-bip: suona già il cicalino delle porte che si chiudono. Entro. Fatta! Appena in tempo… Le porte chiudono. - “Aspetti, aspetti” urla un ragazzo dietro di me all’autista! Le porte riaprono. Il solito ritardatario! Ehi, aspetta. La solita ritardataria!!! E’ lei, eccola di nuovo, con il suo trolley rosso, la sua borsa rossa coordinata di peluche e, sì lo sento, il suo profumo…
  • 31. 31 Il bus comincia ad andare mentre gli altri passeggeri accanto si sistemano. E’ un attimo. I nostri trolley si incontrano. E poi anche i nostri sguardi. Un sorriso. Il mio. Poi lei mi guarda ed ecco arrivare anche il suo. - “Sembra che faremo ancora un altro viaggio assieme” le dico cercando di fare una battuta. - “Già” mi dice lei ridendo. - “Io sono Cedric” le faccio. - “Tiziana…” mi risponde. “Dal suo nome mi sembra che lei non sia italiano, vero?” E così parliamo di noi due. Non mi accorgo dei minuti che passano. E neanche dell’arrivo in Centro del nostro bus. Abbiamo chiaccherato come due ragazzini di ritorno dalle vacanze. E io forse ho capito che lei, con i suoi capelli raccolti, il suo smalto rosso, la sua borsa di peluche e (adesso le noto) le sue ballerine argentate è come la brezza di profumo che adesso sento entrare dentro di me. Il bus apre le porte. Scendiamo. Tutto intorno a noi si apre la città. Ci guardiamo per un attimo negli occhi. Poi, un secondo dopo, ecco di nuovo squillare il suo cellulare!
  • 32. 32 Accidenti… Ecco lo sapevo: deve essere per forza il fidanzato, marito o compagno… - “Ciao, sì sono in San Babila, al capolinea della 73… sì, va bene… ok… però aspetta solo un secondo che saluto una persona…”. Poi alza lo sguardo verso di me, mi sorride, e porgendo la mano mi dice: - “Beh Cedric, io devo andare… grazie della compagnia…” - “Oui, certo… d’accordo…”, le rispondo mentre ci scambiamo la mano. - “…allora… ci vediamo al prossimo sciopero qui o a Parigi…” aggiungo guardandola ancora un attimo prima di perderla nuovamente. - “Ci può contare… qui in Italia di scioperi ce ne sono sempre molti… un po' come a Parigi…” mi dice. Poi si volta sorridendomi ancora e si avvia verso il semaforo accanto, riprendendo il suo cellulare in mano. Il cellulare!! Il mio, mannaggia, mi sono dimenticato di riaccenderlo!!! Merde merde merde… Ecco… dieci messaggi in segreteria… quattro whatsapp e… oh no… una mail di Rossi!!! Scendo in metropolitana correndo veloce sulle scale Il biglietto… oh cavoli, non lo avevo timbrato prima sul bus… Beh, meglio così, qui adesso serve ancora. In hotel arrivo dopo venti minuti. La sera passa veloce fra mail, power point e poi, prima che arrivi notte fonda, la lunga telefonata di preparazione con Sergio. Domani Rossi non ci deve fregare! E invece, dopo una lunga notte al computer, una veloce colazione (ma perché gli italiani si ostinano a chiamare brioche il croissant? non sanno che la brioche è il pane al cioccolato?!!), il solito delirio della tangenziale alle 8 e la lunga anticamera alla reception del nostro caro cliente, Rossi ci frega ancora una volta.
  • 33. 33 Non solo non presentandosi, ma facendoci trovare in sala riunioni i suoi legali. Dieci minuti ci hanno tenuto. Il tempo di leggere la lista dei nostri ritardi, dei loro innumerevoli tentativi di venirci incontro, poi la scena finale. Il loro Avvocato che si alza, apre la borsa e tira fuori una lettera: quella di recesso dal contratto. Non ci hanno dato il tempo di renderci conto di quello che era successo. Hanno chiamato subito dopo la segretaria, sono usciti e ci hanno fatto accompagnare all’uscita. Di nuovo in Sede a Parigi, eccoci pronti per lo scontro finale. Quello in cui, come presumevo, siamo stati noi la cella del foglio excel da spostare. Questa volta però non in un nuovo team di progetto, ma nell’altro foglio di un file di progetto chiamato “costi diversi del personale”. Licenziati. Pierre, Cecile ed io questa volta non ci siamo neanche battuti. Era già scritto all’ingresso della sala riunioni che quello sarebbe stato l’ultimo atto di una farsa iniziata un anno prima. Prendo l’ascensore e mentre scendo metto sul mio trolley quelle poche cose che avevo lasciato sulla scrivania. Passo a lasciare il mio badge poi riprendo l’ascensore e saluto i ragazzi, prima Pierre e poi Cecile, che dopo una lunga stretta di mano, mi chiede se voglio un passaggio a casa. - “Grazie Cecile, stasera vado a casa da solo”. Esco dall’ufficio ed entro nel puntino in basso di un altro punto, quello interrogativo. Quello che metto ora alla fine di una frase che inizia: e ora? Vaffanculo a loro, a quel maledetto che mi ha fatto lasciare l’azienda precedente per questa banda di matti. Metto le mani in tasca. Cerco il cellulare. L’abitudine. Che scemo. L’ho lasciato prima a loro, dopotutto era quello aziendale. Mi sembra strano uscire a quest’ora, alle cinque di sera, con la luce fuori, la città ancora viva e i primi impiegati che tornano a casa. Prendo la metropolitana senza pensare a nulla. La rabbia voglio lasciarla dietro a quelle porte. Eccoci. Dove ho messo le chiavi di casa? Voilà: per un attimo mi era venuto il terrore di averle lasciate nel cassetto in ufficio! - “Buonasera Sig.Dubois!”
  • 34. 34 Il portinaio… oh no, è ancora qua! - “ma…che piacere vederla… tutto bene?” Fa strano. Forse sono io il più imbarazzato. E’ la prima volta che mi vede rientrare a quest’ora. - “Sì, certo, grazie… buonasera…” gli dico aprendo il cancelletto dell’ascensore facendo finta di avere fretta. Mentre salgo provo a pianificare qualcosa per la serata: lascerò su la roba per andare subito al supermercato, non ho molto in frigo… Eccomi, terzo piano. Riapro il cancelletto dell’ascensore e mi dirigo verso la porta bianca del mio appartamento. Toh, ecco lì lo scatolone che diceva il portinaio. Beh, in effetti, non è poi così ingombrante… ma mollarlo lì non è proprio educato... Prendo le chiavi e apro la porta. Entro, lascio all’ingresso il mio trolley, poi faccio un salto in cucina per controllare se c’è qualcosa da mangiare. Nulla. Vabbè andrò giù al supermercato come avevo pensato. Spengo la luce, apro le imposte in sala poi vado alla porta e infine all’ascensore. Occupato. Mentre aspetto mi accorgo di avere una stringa delle scarpe slacciata. Non me ne ero accorto… Mi piego, la allaccio poi sento che l’ascensore si ferma davanti a me. Mi alzo e mi sposto di lato: non sarebbe il caso di finire questa serata con il cancelletto in faccia! Ma… aspetta… forse la porta di ferro dell’ascensore mi è davvero arrivata addosso! Quelle scarpe che vedo… quel profumo che sento… Alzo lo sguardo. - “Cedric?” - “Tiziana?” - “Ma… tu che ci fai qui?” - “No” le dico io “tu che ci fai qui?”
  • 35. 35 - “Abito lì” mi dice indicando la porta accanto alla mia. - “Allora sei tu quella del pacco…” Scoppiamo a ridere. - “Dove stai andando?” mi chiede - “La domanda in effetti è quella giusta…” Come nel bus, ci mettiamo lì nel pianerottolo e… ri-cominciamo a parlare. Le racconto quanto successo, il viaggio di andata e quello di ritorno. Di quel progetto andato male, del casino causato dagli acquisti, del team sottostaffato, di quel maledetto ingegner Rossi e del suo team di avvocati e di tutto quello che oggi al rientro avevo dovuto affrontare in Sede. - “Hai programmi per cena?” mi chiede ad un certo punto. - “…no…” - “Dai, allora vieni da me, tra mezz’ora va bene?” Tutto è iniziato lì. Mezz’ora dopo. Entrando a casa sua, sedendomi sullo scatolone che prima c’era fuori dalla porta: quello che al suo interno aveva una scorta di pasta italiana che Tiziana si era fatta mandare da suo padre. Quello che ieri mattina le aveva chiesto all’improvviso di raggiungerlo a Milano. Quello che, mentre scendevamo dall’autobus l’aveva chiamata al telefono. E con il quale, da Avvocato, aveva passato tutta la notte di fronte al computer per preparare assieme una lettera. Quella di cessazione di un contratto con una società francese. Fu in quel momento strano, in cui non sai se alzarti e uscire subito oppure se restare lì perché la donna che hai di fronte ti piace così maledettamente che non te ne importa nulla di tutto il resto, che Tiziana mi sorprese ancora una volta. - “Ti piacciono gli spaghetti?” Guardandola non solo negli occhi ma anche in fondo al cuore, avevo capito che la mia risposta sarebbe stata sì. E che quegli spaghetti avrebbero alla fine legato la nostra storia.
  • 36. 36 Assieme a quel sugo rosso - come il suo vestito, come la sua borsa, come quel suo smalto - che adesso, assieme a quella pasta condiva la prima delle nostre cene. Adesso lo posso dire. Fu in quel giorno – a mezzanotte - che capii una delle cose più importanti della vita. Ci sono storie che iniziano alla fine. E ci sono anche storie che – non appena le assaggi – capisci subito che sono lunghe e buone. Come gli spaghetti al semplice profumo rosso di Tiziana… LO SAPETE CHE? Il pomodoro italiano ha mille sapori! Pizzutello, Ciliegino, San Marzano, Datterino, di Pachino, Cuore di Bue, a grappolo, della zona vesuviana, dell’Agro Sarnese-Nocerino, della Sardegna, di Corbara, Torpedino, Fiaschetto, d’Abruzzo, Marinda, giallo, di Villa Literno, Prunill, di Parma, Siccagno. Il pomodoro italiano è uno dei tesori del nostro Paese. La sua storia è la nostra storia, la sua origine è quella dei paesi in cui viviamo, il suo clima è quello che ogni giorno assaporiamo, il suo sapore è quello che ci accarezza ogni giorno, crudo o cotto, con origano o solo sale, con basilico e olio o anche con tutte le altre verdure del Mediterraneo. A voi quale piace di più?
  • 37. 37 3. MENG – Pasticcio di maccheroni
  • 38. 383. MENG – Pasticcio di maccheroni. Vivere a 7 ore di fuso orario da casa non è facile. Ma vivere ogni giorno in un mondo completamente diverso da quello di casa, lo è molto di più. Adesso, mentre il taxi arriva finalmente al Pudong airport, lo posso dire: partire dall’Italia e andare a vivere a Shanghai è stata dura. Forse è per questo che sei mesi qui sono passati così veloci. Ma non poteva essere altrimenti: qui in Cina tutti sono veloci. In metropolitana, in ascensore, ovunque tu vada scopri che la fretta e la velocità sono parte del loro modo di vivere. Ricordo che una volta ad un semaforo in centro rischiai di venire travolto dalle bici nonostante gli avvertimenti di qualche amico che mi aveva messo in guardia dal caos cittadino. Adesso però posso dire di essere stato fortunato a venire qui a lavorare. Nonostante sei mesi non siano tanti, di cose a Shanghai ne ho imparate! E’ forse per questo che mi metto a scorrere ora dal cellulare tutte le foto scattate dall’arrivo fino a qualche giorno fa. Poi dalla app delle previsioni vedo che fuori ci sono 20 gradi. Buffo. La stessa temperatura di quando ero arrivato ad Aprile! Eccoci al terminal. Pago i miei 100 Yuan al tassista poi esco e prendo i miei due bagagli. Sul tabellone vedo che il volo della China Eastern per Fiumicino non ha ritardi: con pazienza (che fretta c’è?) mi metto in coda per il check-in e la consegna dei miei bagagli. Precisi decolliamo alle 12,30. Le ore di volo oggi saranno 16. All’andata il viaggio sembrò molto più lungo: forse l’incognita di un paese che non conoscevo, la sensazione che sarei stato a lungo fuori casa. E forse il dolore, ancora troppo fresco, per la perdita di mio padre. Che non si era mai accontentato della sua Napoli. Spesso mi raccontava del suo primo viaggio via da casa, da solo, appena diplomato. Con in mano la tredicesima di nonno, operaio a Bagnoli. Una vita, la sua, che arrivò in Cucina solo dopo pochi anni. Prima al ristorante di un amico di zio, in città, poi – quello che fu il suo giorno più fortunato - alla mensa della FIAT a Mirafiori. - “Perché è lì che poi incontrai mamma, che avevi capito?” ricordo che diceva sempre scherzando. Ho sempre portato con me la loro foto, quella in cui da giovani sposini, scattarono in viaggio di nozze a Firenze. Mamma diceva che fu lì, la sera dopo, che venni concepito. E forse la terra toscana me la porto ancora dentro da qualche parte: sicuramente questo spiega la mia grande passione per il Chianti! Ma la mia terra in fondo è sempre stata Napoli.
  • 39. 39 Lo sento sempre quando torno a salutare mio fratello, che ormai da qualche anno vive giù. Ma forse lo sento ancor di più quando sono in cucina e quando mi ricordo di mamma. Lei sì che era una regina ai fornelli. Quasi ogni sera mi piaceva mettermi lì a vederla preparare per noi la cena: la aiutavo a preparare la pasta, il sugo, la carne, i dolci. Quanti bei ricordi. E quante cose che ho imparato da lei! Reclino di poco la mia poltroncina e guardo un paio di film. Il cibo è quello che è: prendo il pollo, ma – senza pensarci troppo – lo lascio a metà e mi metto a sgranocchiare le nuvole di soia che un collega cinese mi aveva regalato prima di partire. Poi mi addormento. Mi sveglio giusto in tempo per l’ultima cena cinese. Poi ancora il tempo di un po' di musica sulle cuffie ed ecco che l’aereo rallenta, vira e poi abbassa il carrello: Roma è sulla destra. Scendendo dall’aereo, respirando nuovamente l’aria (un po' meno inquinata) della mia Italia, mi emoziono a rivedere il nostro caos ordinato, la nostra Polizia ai controlli e poi tutte quelle persone nei negozi che parlano italiano. Mi avvio verso il Terminal dei Nazionali, arrivo al mio gate assieme alla folla degli ultimi pendolari che prendono il volo delle 20,00 per Torino. Poi ci imbarchiamo. Che strana sensazione prendere un volo nazionale e sedersi vicino a… un cinese! Mentre ci avviamo al decollo vedo che fuori ormai è buio. E io sono un po' stanco. Ma non ho voglia di dormire qui in aereo come il mio vicino che, come d’uso (ormai ci sono abituato), si è tolto le scarpe per restare in calzini… L’aereo si dirige verso casa ma io viaggio ancora a Shanghai. Una città che – venendo dal tuo mondo occidentale – ti sbaraglia appena arrivi. Intanto pensavo che tutti parlassero l’inglese: sbagliato. Altra cosa: se credevo che a Torino ci fosse il massimo dell’inquinamento urbano, mi sbagliavo di grosso. Lì a Shanghai, da quanto c’è n’è, quasi tutta la vita sociale alla fine viene svolta all’interno delle case, delle scuole, degli uffici. E se esci è meglio usare la mascherina anche se hai controllato i livelli di PM10 monitorati nel sito dell’ambasciata americana. Ma quello che mi ha fatto impazzire di più lì è stata però l’acqua: assolutamente da usare solo dopo che è passata dal depuratore. Prima da quello del caseggiato, poi da quello che ho messo nella casa che avevo preso nella zona della concessione francese, vicino all’hotel stellato in cui, per tutti quei mesi, avrei lavorato. Già, perché la vita dello chef – quello itinerante - non è facile. Ero diventato chef non solo grazie a mamma. Dopo la scuola, gli stages, le stagioni nei villaggi vacanze fra Italia e Kenya, avevo trovato tante piccole soddisfazioni professionali. Poi ecco arrivare finalmente la grande occasione: un lungo e ben pagato contratto iniziale fuori dall’Italia. Grazie alla Federazione. Quella che, dopo la morte di papà, mi aveva aiutato trovandomi subito quel posto a Shanghai. L’inizio, nella cucina super-organizzata e ben rifornita dell’hotel diretto da una quarantenne svizzera di Zurigo non poteva che essere “friendly”.
  • 40. 40 Lavorare con una nuova brigata di cucina è sempre molto intenso: quando si arriva in un nuovo team è spesso difficile venire accettati nel gruppo. Tutti in squadra – nonostante abbiano visto il tuo curriculum - hanno bisogno di sapere che entrerai in sintonia con “le loro” modalità di lavoro. In cucina, si sa, esistono decine di metodi per fare specifiche operazioni. Possono anche cambiare le attrezzature, lo schema della cucina, l'organizzazione dello staff. Ma in cucina la routine è sacra. Certo, rispetto a un tempo, anche in cucina la modernità è entrata non solo grazie a nuovi ingredienti o semilavorati, ma anche grazie a nuovi macchinari. E anche a causa del costo del lavoro. Quello che resta ancorato alla componente professionale più elevata dei costi: alla fine è la componente umana quella che – in qualunque ristorante – determina il successo o l’insuccesso. Così come sosteneva già nell’Ottocento il cuoco francese Auguste Escoffìer, dalle 10 del mattino a mezzanotte il mio compito di “chef de cousine” è sempre dettato da una precisa disciplina. Quella che deve essere da modello e ispirazione per tutto lo staff. Fare la spesa, dirigere la brigata, sperimentare o insegnare nuove ricette, correggere gli errori. La squadra che avrei dovuto gestire era stata strutturata ottimamente dal mio predecessore, un caro collega di Caserta. Anche se “Iaowai” (straniero in cinese), Pino - grazie al suo carisma e al peso… della sua stazza (95 kg di larghezza per 1,95 metri di altezza!) - era riuscito a mettere in riga tutti lì dentro. Tutti tranne uno. All’inizio, lo chiamavo Ming. Esatto, come i famosi vasi cinesi. Solo che lui, anziché rompere i preziosi vasi della dinastia della “Luce” (“Ming” in cinese avevo imparato significava proprio quello), faceva regolarmente cadere per terra gli altrettanto fragili piatti di ceramica su cui serviva brodi. Quelli a cui, come aiuto-chef potager, era addetto. Una volta, con la sala occupata quasi per intero da una delegazione di industriali tedeschi, era riuscito a fare il record: 5 piatti, uno dietro l’altro, caduti per terra in cucina a causa di una sbadataggine che quel giorno gli era quasi costata il posto. Cucinare richiede ordine e disciplina, rapidità e precisione. Nulla si può improvvisare! Con il passare dei giorni e poi delle settimane, la brigata era di nuovo affiatata. Poi arrivò quella sera. Ricordo che era stato un giorno molto intenso lì in cucina. Avevamo saputo solo qualche settimana prima che – da lì a qualche giorno – la Direzione centrale della nostra Sede avrebbe inviato un ispettore. Una cosa normale. Siamo abituati a questo, fa parte delle regole del gioco nella nostra catena alberghiera internazionale.
  • 41. 41 Sapevamo che questo auditor sarebbe venuto una sera, ma non quando e, soprattutto, non avevamo idea di chi fosse. Sapevamo invece che si sarebbe seduto ad uno dei tavoli, magari in compagnia di un collega. E che avrebbe consumato un pasto come un qualsiasi cliente. Solo che alla fine della cena sarebbe andato dal Direttore dell’albergo, il quale avrebbe chiamato me e poi i vari responsabili della brigata per condividere il risultato dell’audit. Mentre stavo pensando a come sostituire uno dei nostri Sous Chef – ammalatosi qualche sera prima – Juan, uno dei nostri Chef de Partie, si fece avanti. Era un tipo sveglio, dai modi decisi, forte forse delle sue origini castigliane. - “Chef, che ne dice se per le prossime sere prendo il posto di Pierre? Non penso che tornerà prima di due o tre giorni. Prima di venire qui, anch’io mi occupavo di Carni. Mi potrebbe sostituire quel ragazzo coreano che ha appena finito uno stage in quel ristorante francese che c’è alla Concessione, si ricorda?”. L’idea era buona, tutto sommato di Juan mi fidavo. Di quel ragazzo giovane un po' meno, ma Ming avrebbe potuto affiancarlo sotto l’occhio attento dello stesso Juan. Fu così che quella sera la squadra era di nuovo al completo. Nonostante si sapesse dell’audit il clima era tranquillo. I nostri piatti e le nostre attrezzature erano ormai “una gioiosa macchina da guerra” e questo piccolo intoppo non avrebbe causato più di tanta preoccupazione. Quella sera in sala c’era la solita clientela. Da giorni era arrivata in hotel una squadra di basket spagnola. Juan e gli altri quattro colleghi spagnoli li conoscevano: erano anch’essi degli appassionati sportivi e, dopo tutto, portavano in quella terra lontana un po' dello spirito iberico che loro spesso rimpiangevano. Ma senza perdere la loro professionalità. E senza mancare di attenzione in cucina. Gli avevo detto di andare a salutarli a fine serata, verso mezzanotte, quando tutti loro si ritrovavano al bar per passare un’oretta insieme davanti all’ultima birra. E così fecero. Alle 23,45 – dopo aver controllato che tutto fosse in ordine – dissi loro di smontare 15 minuti prima. In cucina ormai non c’era più nulla da fare e poi tutti i ragazzi erano d’accordo: non capita tutti i giorni di avere dei campioni della propria squadra lì accanto. Non importa che quei due clienti che stavano finendo il dessert al tavolo 10 erano proprio i nostri ispettori (i voti che ci diedero furono tutti ottimi). Perché la cosa più importante stava accadendo altrove. Mentre noi tutti stavamo andando come da procedura dal Direttore e dai due ispettori, nel ristorante entrò infatti un signore sulla quarantina. Proprio quando l’ultimo dei camerieri stava mettendo a posto alcuni tavoli per la colazione, lui si mise a sedere e, con fare molto umile e dispiaciuto, spiegò al ragazzo che era appena arrivato dalla Corea e che voleva solo mangiare una cosa veloce, giusto per riempire lo stomaco prima di andare in stanza. Il cameriere gli spiegò che a quell’ora la cucina era ormai chiusa e che non era possibile scegliere dalla carta. Ma il cliente, con grandi sorrisi ed ampie rassicurazioni, gli ribadì che non era un problema: gli sarebbe bastato un piatto qualsiasi, anche un’insalata, qualcosa di già pronto, senza troppe pretese. Fu così che avvenne quello che in seguito fece scalpore in tutta la città.
  • 42. 42 Il nostro diligente cameriere gli diede dell’acqua, gli apparecchiò un tavolo e poi gli disse di aspettare il suo rientro dalla cucina, per capire cosa si poteva fare. In cucina, essendo ormai passato un quarto d’ora dopo la mezzanotte, era rimasto per caso solo Ming che, dopo aver salutato il giovane stagista, quello coreano, che Juan ci aveva raccomandato, si stava mettendo a pulire per terra dopo che – ancora una volta – aveva per sbaglio fatto cadere per terra un vassoio di frutta avanzata. Il cameriere gli disse che in sala c’era un ospite dell’ultimo minuto e che questo aveva chiesto un piatto senza troppe pretese. E Ming, quella sera, senza farsi prendere dal panico, fece il miracolo. Grazie anche al fatto che, appena arrivato, da buon italiano avevo cercato di portare con me in cucina la passione per la pasta. Una volta alla settimana, poco prima della nostra cena, preparavo per tutti un piatto di pasta: a volte al ragù, altre alle verdure o con il pesce, la mia specialità. E lui, Ming – mentre si metteva lì a guardarmi per imparare - mi ricordava a volte un po' me, da piccolo, davanti alla mamma. Certo, non era stato facile fargli capire certi abbinamenti: da buon cinese lui aveva le sue teorie… Ma tornando a quella sera, qualcosa di diverso successe davvero. Perché, senza esitazione, lui prese una delle mie scatole di maccheroni – quelle che avevo messo in un angolo tutto “italiano”, accanto alle forme di Parmigiano che ero riuscito a farmi mandare da un fornitore di Parma – e poi, ricordandosi delle mie “Lezioni” – prese del sedano, una carota e una cipolla. Poi, prendendo del ragù che avevo avanzato la sera prima in una delle nostre cene, mise tutto in pentola a soffriggere sfumando con del vino bianco e infine aggiungendo l’ultima scatoletta di passata di pomodoro che c’era nella “mia dispensa”. E un ingrediente (segreto!) che non svelò mai, dicendo solo che era “orientale”. Poi, una volta bollita l’acqua, ci mise la pasta e poi - non so come - gli venne poi in mente di fare della besciamella. Mise tutto in una casseruola, unì il tutto e via nel forno ancora caldo (dato che avevamo preparato delle torte per la colazione del giorno dopo). La spruzzata di parmigiano sopra la mise mentre chiamava il cameriere 15 minuti dopo. L’ospite coreano mangiò tutto! Poi chiamò di nuovo il cameriere. E gli chiese se poteva parlare con il cuoco. Ming non se lo aspettava. E neanche noi.
  • 43. 43 Quell’ospite, dopo avergli fatto qualche domanda sugli ingredienti, prese una penna, poi un taccuino e – dopo averci scritto su qualche nota - disse infine a Ming che gli sarebbe piaciuto parlare con l’head chef o il direttore del ristorante. Ming – impaurito – mi chiamò al cellulare pregandomi di raggiungerlo al tavolo per parlare con quell’ospite inatteso. Un ospite che – dopo i soliti saluti – si presentò per quello che era in realtà. Quella sera, senza saperlo, avevamo avuto ospite al ristorante il più famoso critico culinario di Shanghai. Il giorno dopo, nel suo blog su internet, pubblicò il suo selfie con Ming e mise una di quelle recensioni che immancabilmente crearono una lunga coda all’entrata del nostro ristorante. Costringendoci ad aprire una mezz’ora prima e a chiudere una mezz’ora dopo per accontentare tutti quelli che andarono poi a sedersi ai nostri tavoli per assaggiare una “specialità italiana” fatta da un cuoco cinese! Fu in quel momento che capii che Ming non era fatto per i brodi ma per la pasta. La sua pasta. Ma anche la nostra pasta. Quella che era diventata “Meng” (“sogno” in cinese). Quella che – da quel giorno – noi tutti ribattezzammo “pasticcio alla Meng”.
  • 44. 444. SUSAN – Un ditalino è per sempre
  • 45. 454. SUSAN – Un ditalino è per sempre. Se il primo non si scorda mai, a volte capita così anche per il secondo. Per me Fabio infatti non è stato solo il secondo vero amore. Perché a dire il vero il nostro è stato un amore durato due volte, in due tempi prima divisi e poi uniti per sempre. Il primo (breve) iniziò a bordo di un (lungo) volo da New York a Londra. Una storia durata una decina d’ore, il tempo di un viaggio che – seduti accanto nella stessa fila – era nato da quelle “due chiacchere” che, io italo-americana e lui italiano di madre americana, avevamo subito cominciato a scambiarci in volo. Fu una di quelle storie che, arrivati a Londra, si perse nella promessa di un altro bacio, di in un altro luogo, di un altro fuso orario. Il secondo inizio invece si materializzò un anno dopo. Ce lo regalò ancora per caso il destino (quanti scherzi che ci ha fatto!), in una sala d’hotel che fece da scenario alla nostra seconda volta, o a ben vedere alla nostra seconda occasione di vivere meglio la prima! Fabio, direttore di museo, era diventato con il tempo un critico d’arte, girando quasi tutti i continenti. Non per “criticare” l’arte, come diceva lui, ma per trovarla e aiutarla a crescere fuori dai musei e dai circuiti tradizionali, per farla entrare nel cuore di chi spesso purtroppo la vede solo nei libri. Una passione che non poteva non incrociarsi con la mia: quella di una fotografa innamorata di un’altra arte, molto meno antica di quella di Fabio, ma non per questo meno affascinante. Quella di fotografare il cibo nelle sue innumerevoli espressioni era un qualcosa che avevo scoperto dopo aver passato anni dietro a una scrivania, come manager in gonnella e per giunta in carriera. E così, un anno dopo, eccoci ritrovati per caso lì alla reception di un hotel a Sorrento, uno di quelli che la Storia ce l’ha non solo dentro le stanze, ma anche fuori nei giardini a picco sul mare e nei profumi di piante e frutti che solo quella Costiera riesca a regalare. Ma questo nostro secondo tempo fu più un viaggio che un’avventura. In realtà non lo era stata mai. La nostra infatti era stata un’emozione unica che nei mesi che seguirono (diventati poi un anno intero) vivemmo fino in fondo lungo un’unica strada, un’unica città, un’unica isola. A Capri ci arrivammo infatti dopo pochi giorni: doveva essere la meta di una gita di un giorno, una di quelle che inizia e finisce in un traghetto che parte e in uno che arriva. A noi che amavamo l’arte della natura, quel posto, quelle rocce, quelle strade, quell’aria quasi irreale non ci regalarono solo l’anello che poi portammo al dito qualche mese dopo ma anche un magico abbraccio, ancora più stretto di quell’anello. Quello che ci legò per sempre sotto quel sole che era apparso dentro di noi dopo la nostra promessa, quella scambiata lungo il sentiero che dai Faraglioni porta a Via Camerelle. Un luogo quasi fuori dal tempo, in
  • 46. 46 cui i profumi della macchia mediterranea si mischiano ai ritmi del cuore e all’emozione di una vista impagabile, unica, come quel lungo bacio che ci scambiammo sotto il sole di mezzogiorno. Dopo qualche giorno Fabio ed io decidemmo che era arrivato il momento di vivere lì prima la nostra storia e poi il nostro lavoro. Per i nostri impegni da Napoli si poteva partire per Roma, e da Roma per tutto il mondo. Ma solo – come Ulisse e Itaca - per tornare a casa. Quella che un giorno Fabio mi portò a visitare regalandomi poco dopo le chiavi. Una sorpresa non solo perché era vicina ai nostri Faraglioni - dove amavamo andare a prendere il sole e poi a mangiare della pasta al pesce coccolati dalle onde - ma anche perché quella casa si immergeva in un’esplosione di fiori, di colori e di profumi che tutt’attorno la circondavano. Proprio come il nostro amore. Fu così che ci trasformammo felicemente in pendolari di quell’amore che - ogni volta - ci riportava alla nostra Capri, alla sua gente, alle sue piazzette, alla sua natura, alle sue passeggiate. E alla nostra immancabile cena del sabato sera, sotto la veranda, di fronte a quello spettacolo che solo quell’isola ti sa lasciare nel profondo del cuore. E come un sacerdote che celebra il suo rito secolare, ogni sabato sera Fabio alzava davanti a quell’altare della natura il nostro piatto preferito: semplice ma ricco di sapori. E di sole. Un piatto quasi mistico, il cui pane era la nostra pasta corta e il suo vino era quello rosso, fruttato che avevamo bevuto assieme già la prima volta. La ricetta di quel rito Fabio non me la volle mai rivelare: è un segreto, diceva. - “…ti ho detto che domani torno negli Stati Uniti? Starò via quattro giorni, Miami, come l’altra volta…” Era da un po' che Fabio faceva la spola per lavoro a Miami. Ci avevo vissuto per qualche anno dopo il college. Una breve esperienza in una delle più grandi società di logistica dove mi ero occupata del database clienti, poi San Francisco, Seattle e di nuovo a casa, a Brooklyn. Dove di tanto in tanto tornavo, ma sempre e solo per lavoro. Perché lì era finita la mia prima storia. E perché a Capri ormai c’era la mia veranda da dove il mio cuore partiva per navigare fra le onde del mare e quelle della natura, partendo giù al porto piccolo attraverso l’arco naturale e le sinuose curve della via Krupp. A quella sua domanda risposi: - “…no, ma quasi quasi ne approfitterei per venire con te a Roma: lì c’è Angela che mi aspetta, è da tempo che insiste perché faccia qualche foto al suo nuovo ristorante, dove ha assunto uno chef famoso. Se vuoi – aggiunsi - prendiamo assieme il treno, che ne pensi?” L’idea era ottima, il viaggio a Roma anche: avremmo preso il solito treno veloce, la camera in quell’hotel vicino a Piazza di Spagna, poi il mattino dopo avremmo avuto ancora il tempo per fare colazione assieme. E così fu.
  • 47. 47 Quel giorno ci sentimmo ancora un paio di volte al telefono prima che Fabio lasciasse Fiumicino: avevamo avuto l’idea di organizzare nel fine settimana una cena con i vicini e bisognava pensare a cosa avremmo potuto offrire oltre alla nostra pasta. Quei giorni passarono veloci, forse perchè pieni di lavoro. Io ero orgogliosa delle foto che scattai al ristorante di Angela: tant’è che le pubblicai subito con grande successo in una recensione del suo ristorante: Angela era al settimo cielo e non finiva più di ringraziarmi. Poi di nuovo il treno ed eccomi al molo Beverello, pronta per prendere l’aliscafo per Capri. Il tempo di un mattino di settembre è sempre uno dei migliori: il gran caldo ormai è andato, non così le folle di turisti… Eccoli qui tutti in fila, pronti a salire a bordo, fra esclamazioni e risate in tutte le lingue del mondo. Oggi mi siedo all’aperto: ho voglia di respirare la brezza del “mio” mare e vedere la “mia” isola avvicinarsi maestosa alla luce del mattino. Dopo poco partiamo. Usciamo dal porto e ci dirigiamo verso il largo mentre il vento mi accarezza i capelli. Mi metto gli occhiali da sole, il foulard regalato da Fabio e le cuffiette che attacco subito al mio cellulare. Fabio mi ha scritto ieri sera che arriverà a Roma in serata e che, dopo una breve sosta in città per un’ultima commissione, mi raggiungerà a casa. Anche lui con questo mio traghetto. Per ridere gli mando una foto del posto che occupo. Venendo a casa potrà scegliere lo stesso sedile. Il viaggio verso Capri procede rapidamente, il mare è tranquillo e dopo un’oretta arriviamo a Marina Grande. Appena scesa a terra scatto una foto a una giovane coppia di americani in viaggio di nozze. Quando scoprono che anch’io sono una loro connazionale, mi tengono quasi un’altra ora a chiaccherare mentre saliamo con la funicolare verso la piazzetta. Arrivati in via Camerelle li saluto, indicandogli la strada per arrivare ai Faraglioni. Poi mi dirigo alla nostra villetta, vicino al l’hotel Luna. Anche oggi, passando accanto ad uno dei noti negozi di profumeria caprese, mi fermo per acquistare una fragranza per la casa. Appena arrivo accendo internet e controllo qualche mail al PC. C’è un nuovo cliente che vuole un servizio a Londra per rilanciare la sua pasticceria. Mi chiede se possiamo organizzare una skype nei prossimi giorni per parlarne. Skype: accipicchia, me ne ero quasi dimenticata! Non ho aperto il programma: dovrebbe esserci un messaggio che Fabio è solito mandarmi prima di decollare da Miami. La batteria è quasi scarica: mi avvicino alla presa in cucina e sento suonare alla porta. Deve essere Tony, il nostro simpatico vicino: deve avermi sentito rientrare e forse vuole invitarci a cena una delle prossime sere.
  • 48. 48 Mi dirigo verso l’ingresso, a pochi metri dalla cucina. La villetta non è molto grande, appena una sessantina di metri quadri, quasi della stessa misura della nostra curatissima veranda. Apro la porta. - “La Signora Susan Hailey?” Vedo davanti a me due uomini in divisa. - “Yes, sì… cosa posso fare per voi?” rispondo un po' sorpresa. - “Buongiorno, siamo dei Carabinieri. Io sono il capitano Morandi e lui il maresciallo Santoni. Avremmo bisogno di parlare con lei Signora Hailey, possiamo entrare?” Li faccio accomodare in veranda, passando dalla cucina e poi lungo il corridoio pieno di foto che avevamo scattato insieme durante questi anni. - “Prego, capitano, posso offrirvi qualcosa?” - “No, grazie signora. Le chiedo di sedersi un attimo. Ho bisogno di parlarle. A proposito di suo marito. Fabio Scalise”. Guardo quei due uomini in divisa, sono giovani, quasi miei coetanei. Sono confusa e non faccio nulla per nasconderlo. - “Signora Hailey, ho il compito di riferirle che suo marito, Fabio Scalise, è scomparso da ieri in Sud America”. - “Mi scusi, capitano, non capisco… ci deve essere un errore… davvero… mio marito è di ritorno da Miami, arriverà qui domani, dovrebbe essere in aereo…” - “Signora, ho bisogno di dirle una cosa…. suo marito non è andato quattro giorni fa a Miami”. - “Ma non è possibile, guardi, ho qui una sua foto che mi ha mandato appena arrivato a Miami, aspetti che prendo il cellulare…”. - “Susan…mi perdoni, sono il maresciallo Santoni. Lavoro alla DIA, la Direzione investigativa antimafia italiana. C’è una cosa che deve sapere su suo marito, Fabio Scalise”. Un anno e tutti i momenti più belli della mia vita passarono davanti a queste parole come un uragano… Non avevo il fiato per respirare. Le parole per parlare. La bocca per urlare.
  • 49. 49 In tutto questo tempo Fabio non mi aveva mai rivelato che in realtà non era un critico d’arte. Lo venni a sapere quel giorno, da quei due suoi colleghi. Che, per più di due ore, mi raccontarono chi era davvero Fabio. Il vice questore Fabio Cannisi, nato a Palermo, ex carabiniere, era da qualche anno alla DIA, per una missione sotto copertura, della quale nemmeno loro potevano parlare essendo coperta da segreto istruttorio. L’unica cosa che mi poterono dire era che Fabio non era solo un collega, ma anche un loro amico, una persona perbene, uno che aveva sempre dato il massimo, uno che aveva contribuito alla cattura di un pentito importante. Un uomo che amava il suo paese. La sua Sicilia. Forse anche perché era un parente di uno di quei poveri poliziotti di scorta uccisi insieme a un giudice una sera d’estate di tanti anni fa. Durante la sua missione, come ebbe modo di raccontare loro, Fabio mi aveva incontrato per caso. Senza cercarmi mi aveva trovata. E si era davvero innamorato di me. Ma la prima volta, sceso da quell’aereo, aveva dovuto scomparire per un po' di tempo, per motivi di sicurezza legati ad un’altra missione che stava per chiudersi. - “Susan, per noi era importante parlarle prima che fosse informata dal suo consolato. Abbiamo saputo che oggi stesso la contatteranno. Altrettanto farà ufficialmente l’arma dei Carabinieri. Anche perché Fabio non aveva più parenti. Prima di andare però vogliamo dirle che noi siamo qui, che qualsiasi cosa avrà bisogno, potrà chiamarci. Questi sono i nostri biglietti da visita. Resteremo in contatto con lei nei prossimi giorni per tenerla aggiornata”. - “Mi avete detto che Fabio è scomparso, quindi pensate che possa essere ancora vivo?” - “Susan, abbiamo il ragionevole sospetto che Fabio sia stato scoperto mentre era in una località del Sud America per un incontro riservato. E’ molto probabile che non torni mai più”. I giorni passarono come le settimane e poi anche i mesi. Tre li passai a Roma, da Angela. Spesso in contatto con Morandi ma soprattutto con Santoni. Claudio, come mi disse di chiamarsi, era stato con lui in diverse missioni. Assieme avevano fatto diversi anni nei Carabinieri. E assieme avevano condiviso molti dei dettagli della loro vita. Fu per questo che un giorno mi venne a trovare a casa di Angela con in mano una scatola incartata, come quella di un regalo. All’inizio si mise a ridere. - “Quando Fabio me l’ha data qualche mese fa, prima di partire per l’ultima volta a Miami, mi ricordo che lo presi in giro tutta la sera. Era un modo per sdrammatizzare quello che poco dopo scoprii essere per lui qualcosa di particolarmente importante”. Mentre lo diceva, prese la scatola e, senza perdere quel sorriso che lo aveva portato da me, me la porse. - “Tieni Susan, è per te. E’ stato Fabio a dirmi di dartela semmai fosse successo qualcosa”.
  • 50. 50 Poi Claudio si alzò, mi abbracciò e infine uscì salutando Angela. Qualche giorno dopo, un martedì, anch’io salutai Angela. Più che un saluto fu un addio. Prima su consiglio del consolato e poi dell’FBI, era giunto per me il momento di lasciare l’Italia per gli USA. Per tutto il viaggio verso casa tenni con me quella scatola. Avevo deciso di aprirla solo in volo, dopo aver lasciato alle spalle l’Europa, come se lì dentro vi fosse ancora qualcosa che potesse farmi tornare indietro. Forse è per questo che alla fine la aprii solo quando tornai a casa, a Brooklyn, nel mio vecchio appartamento da cui ero partita quella prima volta. E che ora diventava un punto di ripartenza. Perché tolta quella carta, dentro trovai una scatola. Quella del pacco di pasta che Fabio per scherzo mi aveva regalato una sera a Sorrento, dopo esserci ritrovati. - “Prendila, c’è qualcosa lì dentro per te” mi aveva detto ridendo al ristorante, durante la prima delle nostre mille cene. Dentro, in mezzo alla pasta, quella sera trovai il mio vecchio biglietto da visita che gli avevo lasciato in aereo sbarcando a Londra. Trovai la stessa scatola a cena anche una sera a Capri, nella nostra veranda, di fronte al tramonto di un giorno che ci avrebbe portato insieme ad una nuova alba, a un nuovo giorno. Quello del nostro matrimonio. Fabio aveva nascosto l’anello di fidanzamento in quella stessa scatola di pasta. Quello che ancora adesso porto con me. Non so se fu un caso ma, quando mi decisi ad aprire la scatola, era quasi il tramonto. Dentro, accanto ai piccoli maccheroncini, trovai un’altra scatola, più piccola, rivestita di tessuto. Ancora una volta, Fabio mi fece trovare una delle sue sorprese. La ricetta della pasta alla Caprese. Non con la nostra solita pasta corta, ma con quei maccheroncini piccoli, quelli che voi chiamate in Italia “ditalini”. Quella che, da qualche anno, Fabio ed io mangiamo assieme ogni ultimo martedì di Settembre, in quella veranda, a Capri.
  • 51. 51 Io e Fabio Junior, come lo volli chiamare. In ricordo di suo papà. Quel papà che – solo io forse so come – aveva capito che da lì a poco sarebbe arrivato un nuovo raggio di sole in quella veranda. E’ da quel giorno che nella nostra famiglia diciamo che un ditalino è per sempre!
  • 52. 52Come preparare la pasta: i consigli dello chef! Ecco qui di seguito alcune delle classiche regole da adottare per fare una pasta perfetta: - utilizzare una pentola alta e larga - aggiungete il sale solo quando l’acqua bolle - buttate la pasta solo dopo che il sale si sarà sciolto - ricordate di mescolare la pasta per i primi 5 minuti di cottura e poi continuare a intervalli regolari - per essere davvero “all’italiana” la pasta deve avere una cottura “al dente”. Oltre ad essere più digeribile, la cottura al dente consente alla pasta di non incollarsi e di mantenere una certa “consistenza” che la rende più buona anche al palato! Attenzione anche alle 3 regole fondamentali per il dosaggio: 1, 10, 100 (vale a dire un litro d’acqua e 10 grammi di sale ogni 100 grammi di pasta. In ogni caso ricordate che la dose standard di pasta di semola di grano duro è di 100 grammi a persona. Se invece è all’uovo sono 80-90 grammi e circa 120 grammi se fresca, di semola o all’uovo.
  • 53. 53 5. KIRAN – Le farfalle nel turbante
  • 54. 545. KIRAN – Le farfalle nel turbante L’altro giorno mi hanno invitato ad un evento sull’Italian Food organizzato da un ristorante italiano. E’ stato per me un onore anche se sono ormai tanti anni che lavoro in Italia. All’inizio mi è parso quasi impossibile che uno chef italiano proponesse me come testimonial della vostra cucina. In realtà avevo pensato che fosse uno dei soliti scherzi di Osvaldo, il mio Maestro di cucina. Era stato prima il mio docente e poi il capo durante il mio primo vero lavoro come cuoco in uno dei ristoranti di un hotel a Roma. Un tipo tosto, ma sempre allegro e in grado di mettere il sale a tutti i nostri sogni. E siccome in fondo a me le sfide piacciono, decisi di accettare. Qualche minuto dopo mi chiamò: - “Sono contento se verrai Kiran: come ti ho scritto, dovrai raccontare la cucina italiana vista da un indiano. Hai carta bianca e 45 minuti”. Un buon inizio… Dopo aver mangiato qualcosa al volo, mi misi in sala a studiare cosa fare, deciso a rendere quest’occasione meno unica e più rara. Avrei potuto raccontare l’Italia, le sue bellezze e la sua arte. Quella con la A maiuscola, quella che avevo imparato inizialmente con un po' di fatica prima nel servire a tavola, da cameriere, poi nel cimentarmi come allievo cuoco. Ma percorrere questa strada, pensai, sarebbe stato forse un po' banale: qualunque straniero l’avrebbe potuta portare “in bocca” parlando dell’Italian Food. E’ per questo che mi venne in mente un’altra idea: quella di girare la prospettiva. Più che puntare sulle differenze, mi convinsi che poteva essere interessante concentrarsi sulle cose che i nostri paesi hanno in comune. Già sentivo le voci del pubblico: India ed Italia? Pasta contro spezie? Ma cosa ci sarà mai in comune? Complicato vero? Ecco perché decisi che quella sarebbe stata la mia traccia! Fu così che, due giorni dopo - quando finalmente arrivò il mio turno – iniziai così la mia presentazione:
  • 55. 55 “Se pensate che India ed Italia siano molto distanti, eccovi alcuni elementi su cui riflettere: - l’India è una penisola… ma lo è anche l’Italia! - i colori della bandiera indiana sono 3, indovinate quali? - in India ci sono sia mare che montagna: proprio come qui in Italia! - in India ogni singolo Stato è un paese a sé stante e ognuno ha la sua cucina. Beh, anche in Italia ogni Regione è differente e ognuno ha una propria cucina! - la cucina indiana è fra le più popolari nel mondo intero: ma lo è anche quella Italiana! - la cucina indiana è creativa, ma allo stesso tempo molto legata alle tradizioni: in ogni caso cucinare e mangiare sono un’arte. Vi ricorda qualcosa? - il pane in India è molto importante: così è anche in Italia! - generalmente il pane indiano ha la forma di piadina o di schiacciatine: …vi dice qualcosa? - i legumi sono parte integrante della dieta quotidiana indiana: ma così come in India, anche nella dieta Mediterranea non c’è pasto che non contenga almeno un piatto di lenticchie, ceci o fagioli. - difficilmente l’indiano fa una colazione ricca: ma non è di certo distante dal nostro concetto di mangiare cappuccio e brioche! Non finisce qui. Quelle che seguono sono regole dell’Ayurveda: - masticare bene - il cibo deve essere presentato bene non solo per la gioia del palato ma anche per quella degli occhi - il pranzo è il pasto principale da consumarsi verso mezzogiorno, mentre la cena (quella delle sette) deve essere leggera - durante i pasti è bene non bere molta acqua - è importante masticare bene, senza fretta Ma in Italia non dite lo stesso?”. A questo punto il pubblico si era già scaldato o, meglio, come dite voi, era cotto “al dente”! E sono sicuro che molti spettatori abbiano pensato che a questo punto sarei passato a svolgere un tema sulla “fusion”.
  • 56. 56 Ma quel giorno decisi che, se volevo raccontare qualcosa di nuovo sul cibo italiano visto da un indiano, avrei dovuto - per usare le note parole del noto critico Anton Egò (reso famoso dal film animato “Ratatuille”) - di dar loro in pasto… “della “prospettiva fresca, chiara e ben condita”. E’ così che mi venne in mente di continuare con la storia del mio primo giorno di cucina in Italia. Adesso ve la racconto… Ma prima devo fare una premessa. Chi di voi ha già sentito parlare della “toque blanche”? Non vi dice nulla? Forse perché è meglio conosciuta come “toque… da cuoco”. Ecco, chi laggiù ha detto che stiamo parlando del classico cappello da cuoco ha ragione, bravo! Forse non tutti sanno che anticamente questo termine indicava una tipologia di cappelli legati ad una carica o una professione. Avete presenti i giudici, vero? Ma è solo nel 1823 che uno dei più famosi chef – il francese Marie-Antoine Carême – li volle introdurre in cucina dopo aver notato un aiutante con una toque un po' floscia. Dovete sapere che fino ad allora infatti non c’erano regole precise sul tipo di copricapo da usare ai fornelli: c’era chi usava cuffiette di cotone, chi solo berretti o chi, al massimo, solo dei bassi copricapi che variavano da paese a paese Fu forse per eliminare quel caos (parola proibita in cucina!) che Carême quel giorno decise che dove avrebbe lavorato lui (le cucine delle corti reali europee) tutti i cuochi dovevano indossare una toque alta e rigida. Questo tipo di cappello infatti poteva fornire una maggiore traspirazione del sudore del cuoco durante le operazioni ai fornelli. E come per gli elmi degli antichi guerrieri, poteva “comunicare” il simbolo dell’altezza “direttiva” dello chef in mezzo alla brigata di cucina. Il bianco invece, come potrete intuire, venne da sé essendo universalmente riconosciuto come il colore del pulito. Torniamo ora a questa foto: la vedete? E’ il team di allievi cuochi della classe guidata da Osvaldo. La scattammo appena arrivati, prima di entrare in classe. Mi vedete? Anche se sono piccolino, non potete non riconoscermi! Già, io sono quello con il copricapo tradizionale indiano, il turbante. Scusate se divago ancora un attimo, ma è importante: chi di voi sa qualcosa sui turbanti? Lo so che qui in Italia li associate ai Maharaja o al fachiro che incanta il serpente con il suo flauto! Ma non è proprio così, davvero. Anzitutto sapete che in India i turbanti sono nati per proteggere la testa dagli spiriti maligni?
  • 57. 57 Altri (forse un po' più politici) sostengono invece che il turbante sia nato come simbolo di protesta: visto che il turbante era portato solo dai re o dai nobili, i Guru Sikh presero ad indossarlo per andare contro questa usanza. La libertà è un valore da mostrare anche dando un colore al turbante: per esempio il color zafferano In India (in particolare nel Rajasthan) è normale in un turbante quando ci si sposa. Forse per dire (le malelingue!) che per sposarsi bisogna aver… valore! Ma il colore zafferano una volta era anche il simbolo dell’audacia, il simbolo di chi veniva mandato a svolgere missioni al limite del possibile. Forse perché il termine persiano “dast-e-yaar”, da cui deriva il termine “turbante” significa “avere la mano di Dio sulla testa”. Abbiamo tutti letto Salgari vero? Parlando di Sandokan non possiamo non ricordare i formidabili guerrieri Sikh! Pensate che per loro – quelli veri - il turbante era così importante che, durante la prima guerra mondiale, rifiutarono di indossare nelle trincee il regolare elmetto. Il ragionamento era semplice: non possiamo toglierci il turbante per proteggerci il capo, perché è il turbante a darci la vera protezione. Molti inglesi restarono sbalorditi vedendo soldati Sikh raccogliere proiettili dal turbante dopo la battaglia: sembrava pazzesco ma qualche ufficiale arrivò a concludere che il turbante, appropriatamente legato in maniera appropriata, assorbiva l'urto di un proiettile meglio di un elmo protettivo! Ma dire che nella cultura indiana il turbante sia solo simbolo di valore è riduttivo. I turbanti hanno anche molte funzioni pratiche: i viaggiatori lo usano come un cuscino, una coperta o un asciugamano oppure per filtrare l’acqua. Districato, può essere utilizzato come una corda per attingere acqua da un pozzo con un secchio. E bisogna aggiungere che esiste un’altra componente che contraddistingue il turbante: “il come lo si indossa”. Non solo dal punto di vista pratico. Aspetto non banale se pensate che a volte arrivano ad essere lunghi 5 metri. Ecco perché fin dall’antichità nelle corti dei maharaja c’erano apposite persone predisposte per questo incarico! E se “il vestito non fa il monaco”, ecco ancora un’ultima riflessione detta secoli fa da uno dei più importanti Guru Sikh. Parlando dei turbanti e dei loro diversi colori, a un certo punto disse: “Negli occhi di Dio non ci sono né hindu né musulmani, a Egli non interessa la nostra religione ma bensì il nostro modo di vivere”. Ma se vivere è anche mangiare, possiamo dire che anche in India in fondo il cibo è a suo modo una religione! Allora vedete ancora una volta che anche da noi è come in Italia? Ma torniamo alla mia storia e a quel giorno. E a parlare nuovamente di cucina. Quella che, dopo tanta attesa, avevamo fatto con Osvaldo. E di quelle sue cinque lezioni intense trascorse parlando del mondo dei fornelli, delle sue regole, della sua storia e poi finalmente – l’ultimo giorno – del mondo della pasta. Quella che Osvaldo amava raccontare partendo dal grano e dal processo di produzione. Fu in quell’occasione che imparai i tempi della pasta, le sue forme e i giusti abbinamenti di formaggio, salsa e pesti.
  • 58. 58 Ma il bello di quella lezione fu la gran sorpresa finale: niente compiti a casa, ma… Aprendo un contenitore che aveva tenuto sul tavolo, Osvaldo tirò fuori nell’ordine: • alcuni pomodori ciliegino • una fetta di ricotta dura • un flacone di olio extravergine • del basilico fresco, origano, peperoncino e aglio Poi, alzandosi in piedi, ci disse: - “Adesso andate di là in cucina, ognuno alla sua postazione e cominciate a preparare un piatto di pasta con questi ingredienti”. Sorpresi, ci alzammo, entrammo in spogliatoio, ci cambiammo, poi entrammo tutti in cucina passando dall’entrata laterale. Osvaldo era già al suo posto lì davanti. Senza perdere tempo ci disse di aprire la dispensa e portare gli ingredienti sotto le nostre postazioni aggiungendo: - “Bene, adesso io esco: avete 45 minuti prima del mio ritorno per preparare una pasta profumata. Non mi resta che augurarvi un… buon battesimo della pasta”. Panico. Profumata? Ma che voleva dire? Cosa fare? Mille domande, poche risposte! Molti dei miei compagni (quasi tutti cinesi) si misero a cuocere in modo diverso gli ingredienti. Non sapevo che fare. Finchè non mi venne in mente una cosa che mi aveva colpito. Qualche giorno prima ero andato ad un piccolo supermercato sotto casa per fare la spesa. Il proprietario era un signore sulla cinquantina di cui facevo fatica a capire molte parole per via di un suo accento strano. Mentre portavo il carrello alla cassa, si mise a chiaccherare con una cliente. Con lo stesso dialetto strano, che poi mi dissero essere pugliese. Quando ebbe terminiato, vidi che le mise nel sacchetto un pacco di pasta aggiungendo a voce bassa: - “Signora Lina, allora come la farà stasera?” - “Come da noi a Bari, Giovanni caro! Pomodori crudi, origano, olio, cacio, basilico e via a far felice il marito!” Ecco cosa potevo fare anch’io!
  • 59. 59 Senza pensarci un attimo, presi delle “farfalle”, tagliai i pomodorini e li mischiai a crudo con gli altri ingredienti che Osvaldo ci aveva dato. Senza accorgermene passarono 30 minuti. Stavo scolando la pasta quando Osvaldo entrò e mi passò accanto. Non ci feci caso subito. Ma lui tornò indietro e si mise a guardarmi. Dopo poco, tornò davanti al suo posto e attese la fine del tempo che avevamo a disposizione. Infine prese una campanella e la suonò invitandoci a mettere giù tutto. Sembrava di stare in uno di quegli show televisivi! Passò in rassegna uno ad uno i piatti, il mio per ultimo. Ma i suoi primi commenti furono per me: - “Una delle cose più importanti in una cucina è la disciplina. E’ questa che ci aiuta a lavorare tutti meglio e soprattutto a dare ai nostri clienti la qualità che cercano. E, ragazzi, questa disciplina passa anche da come entrate qui dentro!” Poi rivolgendosi a me disse: - “Cos’hai in testa ragazzo?” Non capivo. Poi lui abbozzando un mezzo sorriso indicò con la mano la mia testa. Senza accorgermene, ero entrato in postazione senza togliere quello che - per me - era parte del mio corpo e del mio essere indiano; il turbante bianco! Dopo una breve pausa di silenzio, Osvaldo guardandomi riprese a parlare aggiungendo: - “Adesso però voglio fare i complimenti a Kiran. Il suo piatto è quello che più si avvicina al vero spirito della pasta: la semplicità, con un pizzico di profumo. E la crudaiola che vedo qui è sicuramente un ottimo inizio”. Poi continuò: - “Ora, come forse saprete la tradizione di questa scuola è quella di nominare un rappresentante di classe. E Kiran, avendo ben svolto il suo compito, penso si sia guadagnato questo titolo, cosa ne pensate?”. Quando i miei compagni fecero un applauso d’acclamazione, io fui il cuoco più felice della terra!
  • 60. 60 Ero al settimo cielo. Ma Osvaldo non aveva ancora finito! Prendendo in mano la sua toque stellata si voltò verso i miei compagni e disse: - “Voi tutti dovete sapere che quando il grande chef Carême introdusse in cucina il nostro famoso cappello bianco, decise che - per distinguersi dagli altri - il capo chef doveva avere in cima alla sua toque una piuma. Il simbolo del più alto in grado”. Poi con tono seriamente scherzoso disse: - “…e così oggi voglio fare lo stesso con Kiran” Poi avvicinandosi, prese dalla mia postazione un paio di farfalle e le mise sul mio turbante bianco e sorridendo, aggiunse: - “Da oggi il simbolo della vostra classe saranno queste farfalle sul turbante di Kiran. A voi farle volare in alto… con un giro d’olio!” E’ per questo che, come potete vedere, ancora oggi porto questo simbolo sulla mia toque. Le farfalle sul turbante rappresentano per me l’India e l’Italia, assieme, vicine. Lo vedete allora che avevo ragione a dire che in fondo anche noi siamo fatti… della stessa pasta?
  • 61. 61 (foto a destra dreamstime.com)
  • 62. 626. JOHN – Non è mai troppo pesto. “Prendete uno spicchio d’aglio, basilico (baxaico) o in mancanza di questo maggiorana e prezzemolo, formaggio olandese e parmigiano grattugiati e mescolati insieme e dei pignoli e pestate il tutto in mortaio con poco burro finchè sia ridotto in pasta. Scioglietelo quindi con olio fine in abbondanza. Con questo battuto si condiscono le lasagne e i gnocchi (troffie), unendovi un po’ di acqua calda senza sale per renderlo più liquido”. Tratto da: “La Cuciniera Genovese, la vera maniera di cucinare alla genovese” (Giobatta Ratto, Genova, 1863). Venire in Italia, alle Cinque Terre, ha per me un sapore unico. Forse perché, nato e cresciuto a Londra in un quartiere pieno di italiani, ho sempre ritenuto che l’Italia fosse un po' la mia seconda casa. O forse la terza… Già, perché da quante radici ho sparse nel mondo, a volte faccio anch’io tanta confusione. Sarà perchè Jasmine, mia moglie, è originaria della Tunisia? O sarà perché mio figlio, dopo aver terminato gli studi universitari, da tempo ormai vive a Bruxelles con una ragazza olandese? P sarà anche perché le mie stesse origini sono miste? perchè papà era russo di seconda generazione e mamma invece di Bangkok. Si erano conosciuti ad un concerto dei Beatles. Qualche mese dopo si erano sposati con rito ortodosso a Roma. In una chiesa in cui lo zio Nik era “pope”. Lo zio Nik è stata una figura importante della mia vita. Era una persona molto colta e mentalmente aperta. Da giovane innamorato dell’Italia qual’ero, andavo spesso a trovarlo a Roma per scoprire con lui la storia di quella città. Ricordo ancora le lunghissime camminate che dal Colosseo ci conducevano ai Fori Imperiali mentre Nik mi spiegava tutto su ogni monumento che incontravamo. Una volta mi presentò un famoso attore cinematografico che era venuto a Cinecittà per un film. Ricordo che molti registi e persone dello spettacolo lo chiamavano spesso perché da giovane, prima di diventare prete e di farsi crescere la lunga barba, lo zio era stato un attore teatrale molto corteggiato (non solo dai registi). In questa storia però lo Nik c’è per un motivo diverso: fu proprio grazie a lui che infatti ebbi modo di conoscere Jasmine. Una sera d'estate, a Roma, durante una di quelle cene che lui amava organizzare con tutti gli allievi dell’Università Pontificia dove insegnava, mi presentò un signore seduto accanto a me che curiosamente aveva un lungo abito bianco dai bordi dorati. Pensavo fosse un prete di qualche chiesa orientale. Invece era un professore di lingua araba che insegnava a Parigi. Con lui parlammo di Roma e delle mie vacanze poi, quando gli confessai
  • 63. 63 che ero innamorato della cucina italiana, si alzò e mi chiese di seguirlo indicando la lunga tavola che sulla nostra destra prometteva di dare il “sapore” a quella serata. Nella terrazza dell’istituto che quella sera ci ospitava, accanto ad alcune piante di limone e ad un grande olivo, c’era una tavola imbandita con piatti provenienti da molte parti del mondo che lo zio aveva messo assieme per la presentazione di un libro. C’era yogurt della Bulgaria, feta e olive dalla Grecia, tabuleh con verdure da Beirut, agnello cucinato all’araba, vino di Marsiglia ma anche mozzarella campana, couscous dal Marocco, hummus della Tunisia e ovviamente – non poteva mancare – un grande piatto di pasta fredda dall’inconfondibile profumo di pesto. Al centro, in mezzo a tutte le altre speciali squisitezze riunite a tavola, c’era lei, quella ragazza dai lunghi capelli ricci che si confondevano con il sorriso dei suoi grandi occhi neri. Quella che, quel signore dall’abito bianco, mi presentò come sua sorella Jasmine. Inutile nascondere che il mio fu amore a prima vista. Finita la cena, ci mettemmo tutti a ballare sotto le tante lampade colorate che illuminavano dal terrazzo una Roma incantata: quella che con la sua luce accarezzava i nostri occhi che si cercavano, quella che con i suoi colli eterni portava sopra di noi quell’aria fresca che - un po' come con le vele di una barca in mezzo al mare - gonfiò di amore il mio cuore e come in un viaggio già scritto nel tempo, mi portò accanto a lei. Dapprima per qualche istante poi per sempre. Chissà se è la stessa brezza a portarci spesso qui, alle Cinque Terre, nella terrazza di questo hotel: il bellissimo panorama che si affaccia da lì ci ricorda un po' quei momenti. Mentre sono in quest’altra terrazza di un hotel alle Cinque Terre con Jasmine accoccolata sulla sdraio accanto a me, sento arrivare dal mare una leggera brezza. E penso ancora una volta a come nella vita spesso i cambiamenti non siano portati da grandi venti che arrivano dall’orizzonte, ma da semplici brezze come questa. All’inizio era stato difficile superare quelle piccole e grandi difficoltà legate alla distanza, non solo geografica, ma anche culturale. Una distanza che a poco a poco rafforzò il nostro amore e la nostra decisione di lasciare tutto per andare a vivere a Londra. In mezzo a tanti mondi diversi come Inghilterra, Tunisia, Russia, Thailandia e (da poco) anche Olanda, l’Italia per noi tutti in famiglia era sempre stata un collante: una terra che, in un modo o nell’altro, ci riportava sempre alla fine a ritrovarci tutti assieme. E’ per questo che, nonostante tutte quelle diverse bandierine piantate nella mappa della nostra vita, l’Italia ha da sempre per noi un posto ed un sapore unico. Soprattutto grazie a lei: o meglio… grazie a lui! Già, perché il vero “filo verde” di casa nostra ha ancora oggi un solo nome. Si chiama Basilico.
  • 64. 64 Del basilico mio papà sarebbe stato fiero, ma forse anche mio zio. Perché San Basilio è un beato famoso in Russia in quanto visse una vita simile a quella di San Francesco: a celebrare il suo rito funebre ci furono sia il Metropolita che lo zar Ivan il Terribile che portò la sua bara in spalla. Prima di lui, tornando invece a Roma, vi fu un altro San Basilio – detto “il grande” – che non solo divenne Confessore e Dottore della Chiesa ma anche il fondatore dell’ordine dei monaci basiliani ai quali si fa risalire la leggenda del Pesto. Si dice infatti che – in un convento situato sulle alture di Prà, in provincia di Genova e intitolato a San Basilio - viveva un frate che coltivava un’erba aromatica chiamata “basilium” in onore del Santo. Un giorno il frate la unì ai pochi ingredienti portatigli in offerta dai fedeli e, pestando il tutto con un mortaio, creò il primo pesto che poi via via venne perfezionato nel tempo. Le foglie del basilico coltivate nelle alture di Genova - più piccole e tenere di quelle comunemente usate nel Sud Italia per la pizza o la caprese - erano però già note ai tempi dei Romani: non tutti sanno forse che tra le loro ricette predilette vi era il cosiddetto Moretum fatto da formaggio pecorino, sale, olio, erbe e frutta secca pestati con il mortaio per essere spalmati sul pane. Pare che il pesto genovese abbia tratto ispirazione da questo, anche se altri sostengono che la ricetta originaria sia piuttosto collegata all’agliata, un “pestato” battuto di noci e aglio che nel XIII secolo veniva utilizzato per conservare i cibi cotti e per allontanare gli spiriti maligni e le malattie. Per questo cibo i marinai liguri avevano una certa predilezione essendo di fatto considerato una medicina da usare nei lunghi periodi a bordo: ormai è noto l’aspetto officinale del basilico, che – come antiinfiammatorio – viene ancora usato contro l’artrite e la bronchite. E’ certo che fu ai tempi delle Repubbliche Marinare che il basilico ebbe il suo “incipit” di gloria. Durante il Medioevo, Genova era diventata ricca fornendo i trasporti per la Terrasanta. Per meglio gestire questo commercio la Repubblica di Genova conquistò la Sardegna, avvicinandosi ai futuri Cavalieri di Malta e agli inglesi. Sconfitta anche la rivale Pisa, Genova divenne padrona del Tirreno. E fra i “tesori” strappati ai rivali pisani i genovesi scoprirono anche i pinoli, quelli che poi divennero una delle anime del pesto genovese. Ma non finisce qui. Poiché le spezie orientali erano di quasi esclusivo monopolio della nemica Venezia, i liguri (soprattutto i più poveri) decisero di usare le foglie di basilico e le erbe aromatiche al loro posto. Non è quindi un caso che vicino a Genova ci sia “La Spezia”, che deve appunto il suo nome all’antico commercio di “spezie” aromatiche della zona. Con il passare del tempo l’uso del basilico continuò. Ma fu solo nel 1870 che Giovanni Battista Ratto - ne “La Cuciniera Genovese” – citò per la prima volta la moderna ricetta del Pesto.
  • 65. 65Grazie ai marinai genovesi e ai numerosi emigranti che salpavano da Genova quel Pesto raggiunse una grande popolarità nel mondo, arrivando anche a “La Boca” (il famoso quartiere genovese di Buenos Aires) così come a New York e nei vari porti americani. Ma come giustamente sottolineava mia mamma, il basilico non è solo italiano: è forse poco noto che la pianta in sé è originaria dell'India. Ecco perché mia mamma lo usava spesso come ingrediente per dare al cibo asiatico il profumo delle sue foglie. Ecco perché il termine botanico di Basilico rimanda alle “erbe regali” usate per produrre i profumi dei re (in greco basilikòs significa appunto regale). Ho voluto qui riportare tutta la sua storia perché fu lo zio Nik a raccontarmela. Non solo perché – anche lui - era un grande appassionato di Pesto. Ma anche perché lo amava proprio coltivare lui stesso nel giardino del monastero in cui viveva. Un giorno, mentre lo maneggiavo nel suo orto, mi raccontò che – seppure facile da seminare – il basilico è una pianta che ha bisogno di cure. Non solo perché necessita del caldo e di una temperatura sopra i 10 gradi. Ma anche perché è una pianta che ha sempre sete: è per questo che il Basilico deve essere spesso innaffiato e mantenuto in un terreno umido per crescere al meglio. Poi aggiunse un aneddoto che ancora mi porto oggi con me: - “Anche se conosci tutti i trucchi per coltivare il basilico, ricordati che il miglior pesto che mai potrai preparare sarà sempre quello fatto con due ingredienti speciali: fatica ed amore”. E’ una ricetta semplice ma importante: è forse per questo che ho voluto raccontarvela qui. Per farvi capire perché, quando si parla di Pesto, il sapore di questo termine è unico. Nonostante linguine, trenette, trofie, bavette, tagliolini, penne, farfalle ecc provino sempre a confondere le idee. Perché da inglese, da russo e… da tutti gli angoli del mio grande mondo dal quale vedo, sento e assaporo quella magica salsa verde, ogni volta resto senza parole quando penso a quanti possono essere i vari tipi di pasta che si sposano a meraviglia con questa “salsa dei re”!! Ma c’è un ultimo segreto che vi voglio rivelare, un segreto che unisce ancora oggi Jasmine e me. La settimana dopo il nostro incontro ebbi l’opportunità di dichiararmi a Jasmine. La risposta che mi diede fu: “vieni domani sera sotto quel balcone in cui ci siamo conosciuti e guarda la pianta che ci sarà accanto a me. Prima però chiedi a tuo zio quale pianta potrà essere quella giusta per dare risposta alla tua domanda”. Un po' spiazzato da questa sua “dichiarazione”, il mattino dopo andai da zio Nik.
  • 66. 66E lui, ridendo sotto la sua folta barba, mi rivelò che secondo un’antica tradizione (che Jasmine sicuramente conosceva), se una fanciulla mette nel suo balcone una pianta di basilico vuol dire che accetta l’innamoramento. E fu proprio quella che la sera dopo apparve sul balcone di Jasmine! Ecco perché a casa nostra il pesto - quello che alla fine unisce non solo a tavola tutte le nostre diverse origini – per noi non è mai troppo!
  • 67. 67 7.
  • 68. 687. MANUELA – I ravioli di nonna Anna. L’Italia è la patria di tortellini, ravioli e cappelletti. Quadrati o rotondi, ripieni di verdura, carne o pesce ciascuno di questi tesori ha una sua identità e una sua storia, a volte uguale a volte diversa da regione a regione e spesso da pese a paese. Ma ciò che rende ancor più affascinanti i ravioli non è solo la loro varietà, ma anche il fatto che ciascuno di essi può essere mangiato con mille altri condimenti diversi che vanno dalla “magra” accoppiata di olio e burro fino a sughi più complessi ed elaborati! E siccome di ricette su come fare o come mangiare i ravioli ce ne sono tante, quella che voglio raccontarvi è la “nostra” storia, quella che a casa nostra si tramanda – di raviolo in raviolo - ormai da qualche generazione. La prima a raccontarmela è stata lei: Nonna, Anna, “Nina”. Già, come i ravioli, anche lei aveva tanti nomi! A ben guardare “il” raviolo per nonna era - per usare le sue parole - uno scrigno: in primis quello del gusto, quello che ci metteva lei in prima persona ogni volta che li faceva con le sue mani, non solo fuori ma anche dentro quella pasta. E poi i ravioli pe lei erano sempre stati anche uno scrigno di vita, se non addirittura uno “stile” di vita. Eh sì, perché per nonna Anna i ravioli avevano un’anima! Non solo quella, materiale, che c’era dentro il ripieno fatto di ricotta, erbette, asparagi, zucca, carne o radicchio… Ma anche quella che lei stessa ci donava nel raccontarli, riempiendoli sempre con quelle storie ed aneddoti che - anche lei a suo tempo - aveva ascoltato da sua madre, da sua nonna o dagli altri parenti di raviolo in raviolo… Per me queste storie hanno sempre avuto un fascino magico proprio perchè, in questo modo, nonna riusciva ancora a passare di mano non solo l’arte del “fare” il raviolo ma anche la storia di chi l’aveva fatto stando lì ad impastare, farcire e infarinare. Come ad esempio quella di ENZA, che per fare degli ottimi ravioli, dedicava un’attenzione maniacale all'impasto, scegliendo “il ripieno giusto” solo dopo averli stesi. Perché? semplice: questa amica di nonna li riempiva alla sera solo dopo aver saputo cosa avesse mangiato a pranzo suo marito, un operaio metalmeccanico che lavorava in fabbrica tutto il giorno. O come quella di MARIA, la sorella di nonna, che amava fare in brodo i tortellini di carne tutte le domeniche. Secondo nonna, questa abitudine le faceva ricordare uno dei suoi giorni più speciali.
  • 69. 69 Il 10 febbraio 1946 la guerra era finita da poco. La vita era ancora difficile: non solo perché il nostro paese era ancora sommerso dalle macerie della guerra, ma anche perché – per lei – non erano ancora arrivate notizie di suo marito. Di lui, poverino, dopo l’11 Settembre si sapeva solo che era stato preso prigioniero e mandato in Germania. Ma quel 10 febbraio, alle 11,45 del mattino, successe qualcosa che avrebbe cambiato per sempre anche il suo modo di cucinare. Mentre era intenta a fare le faccende domestiche, sentì un rumore: non era quello della campana della chiesa che suonava il quarto a mezzogiorno, ma quello di chi – con foga - bussava alla porta d’entrata. Maria – appena tornata dal panettiere con una pagnotta e della farina – pensò fosse suo figlio che giocava in cortile: “si sarà mica fatto male!” disse fra sé. Ma aprendo la porta in basso non vide delle scarpette da bambino. Ma quelle un po' logore di un uomo che aveva un aspetto poco curato ma degli occhi e un sorriso che erano i più belli del mondo. Era suo marito, Andrea, che dopo un lungo viaggio in treno e poi a piedi era finalmente arrivato a casa, la sua casa. Potete immaginare la gioia di Maria. I due si baciarono piangendo a lungo senza accorgersi che lo zio Gianni, quel bimbo che giocava in cortile, era rientrato in cucina. Lo zio aveva quasi 3 anni. E non aveva mai visto suo papà, dato che “nonno Andrea” era partito per il fronte poco dopo la sua nascita. Allo zio Gianni ancora oggi vengono i brividi quando racconta che quel giorno si spaventò nel vedere quell’uomo abbracciato alla sua mamma. Ma alla fine la nonna Maria gli spiegò tutto e lui finalmente poté riabbracciare suo padre, quello che aveva visto solo nella foto sempre bene in vista su una parete in sala. E quel giorno – per celebrare quell’evento così importante – alla nonna Maria venne in mente di usare della farina appena comprata e metterla assieme a quel paio d’uova e quella poca carne che sua mamma le aveva regalato il giorno prima per il piccolo zio Gianni. E da qui la strada per fare un buon piatto di tortellini in brodo fu davvero breve. Ed è per questo che a Maria ogni domenica piaceva preparare i tortellini con grande gioia. Quella gioia che qualche mese dopo ebbero tutte le donne italiane quando il 2 ed il 3 giugno 1946 andarono per la prima volta a votare. Fu “una prima volta” davvero importante perché fu in quei giorni che si tenne il referendum che trasformò l’Italia in una Repubblica. Fu una scelta importante, che però nonna amava ricollegare sempre alla cucina e ai suoi ravioli. Perchè alla fine di tutte queste storie (e di tante altre ancora che non riesco qui a raccontarvi), nonna Anna diceva che anche nel fare i ravioli a volte si devono fare delle scelte. Come quella volta che dovette trasformarli in tagliatelle perché si era scordata in negozio la verdura per il ripieno. - “Quella volta ero andata giù da Aristide a fare la spesa dopo una notte passata senza dormire per via di un odei miei mal di testa. E dovendo tornare velocemente a casa, mi dimenticai il sacchetto vicino al marciapiede dove lo avevo appoggiato assieme agli altri prima di rimontare in bici”. E’ forse per questo che, come vedrete fra poco, per nonna il vero segreto dei ravioli stava nel “giusto riposo”.
  • 70. 70 Il procedimento che seguiva nel preparare i ravioli era sempre lo stesso: intanto iniziava a creare una montagnetta di farina sul suo grande tavolo di legno e poi, al centro di quella che lei chiamava “la fontana”, ci metteva uova, sale e olio d'oliva. Era una parte che a me piaceva molto perché quella scena mi ricordava uno di quei vulcani che avevo visto in un fantastico documentario alla televisione. Fatto questo, nonna sbatteva con una forchetta le uova e, prendendo sempre più farina, amalgamava bene tutto con le sue piccole mani fino ad ottenere - dopo una ventina di minuti circa – un bel “gnocco” compatto ed omogeneo che cospargeva di tanto in tanto con un po' di farina. Nonna ci raccontava spesso che, quel lavoro con le mani, le ricordava di quando lei ed il nonno si erano presi la mano per la prima volta. Era stato in chiesa: perché nonno, che da tempo le faceva il filo ma che non poteva avvicinarsi a lei senza essere affiancato dai genitori, aveva avuto l’idea di frequentare la messa pur di esserle vicino e – cosa per lui più importante - stringerle la mano. Non per il gesto della pace, ovviamente! Dopo quelle risate che sempre seguivano questa sua battuta, la nonna finalmente celebrava “il riposo”. Questo era, come vi anticipavo, il momento più importante. Perché finito quel lavoro, faceva riposare lì in cucina l'impasto morbido per un'oretta, coperto solo da uno dei suoi canovacci a righe così da evitare che si seccasse. Ricordo che invece Nonna Maria la imprigionava dentro un recipiente di vetro rovesciato. E durante quel riposo lei ci raccontava le sue storie più belle. Come quelle del ripieno: perché era lì che secondo la nonna il raviolo prendeva corpo e anima. Il ripieno con ricotta ed erbette era quello che più amava. La ricotta le ricordava sua mamma, che la portava spesso a casa dalla campagna. Gli spinaci invece le ricordavano i primi cartoni animati, quelli appunto di Braccio di Ferro, che ebbe modo di vedere al cinema dell’oratorio. Ma forse la verità è che la farcitura con la carne lei la evitava per un altro motivo: era stata proprio in occasione di un pomeriggio passato in cucina con un’amica a fare dei ravioli alla carne che nonna scoprì per caso che suo marito l’aveva tradita con una loro amica. Come a volte accade le cose poi alla fine si sistemarono, ma da quel giorno la nonna cominciò ad odiare i tortelli alla carne… Mentre ci raccontava le sue storie sui ripieni, nonna puliva gli spinaci. Poi li lessava usando sempre poca acqua: perché, diceva, in questo modo avrebbero mantenuto sapore e vitamine. Scolati e strizzati, nonna poi li metteva dentro la ricotta e, dopo averci aggiunto del Parmigiano, li lavorava grattandoci sopra di tanto in tanto della noce moscata. Finite quelle lunghe chiaccherate, nonna si rimetteva al lavoro dividendo quell'impasto in due. Poi, con il suo immancabile matterello, lo stendeva in un piano infarinato tirandolo e girandolo spesso fino a formare due sfoglie sottili. Quelle che avrebbe usato per completare una prima serie di ravioli. Anche questo per nonna Anna era un momento molto importante: girava spesso la pasta la lavorava dandole uno spessore sottile umidificandola ogni tanto con dell’acqua. - “Ricordate bimbi” ci diceva “di tenere sempre queste sfoglie sottili: se non lo saranno, quando andrete a sovrapporle, avrete una pasta dai bordi crudi”.
  • 71. 71 Poi prendeva il vassoio con il ripieno e – formando dei mucchietti simili a piccole palline – le schierava come tanti soldatini in formazione su una delle due sfoglie sempre tenendole umide con un velo d’acqua. Finito di mettere tutti i piccoli ripieni, copriva quel foglio con quello avanzato, lo pressava leggermente partendo dal centro, in modo da non far rimanere aria nel mezzo altrimenti in cottura i ravioli si sarebbero aperti. Ed ecco arrivare uno dei passaggi che a me piacevano di più, quello con la rotella dentata. Toccava a me fare i quadratini sulla sfoglia, ripiegandoli. Alla nonna restava l’ultimo tocco: sigillare il ripieno e così dare forma a ogni raviolo. Era in quel momento che usciva tutto il suo grande amore per i ravioli. E uno dei più grandi insegnamenti che mai ho smesso di portare con me: - “Anche se sono tutti fatti della stessa pasta, nessun raviolo è uguale all’altro. Proprio come me, te e tutti noi…”. Infine arrivava la cottura. Nonna Anna amava farla nel brodo, mantenendo per 10-15 minuti la pentola coperta in modo che l’acqua non evaporasse eccessivamente. E poi via a mangiarli tutti assieme! Ecco, in poche parole vi ho regalato i segreti dei ravioli fatti in casa secondo la ricetta di nonna Anna. Ho voluto farlo con voi perché ritengo sia importante condividere ciò che di più bello c’è nella storia di ogni famiglia. E, oserei dire, nella storia di ognuno di noi. Il motivo per cui, arrivato il momento di mangiarli, ancora oggi amo tenerli in bocca e masticarli lentamente, assaporando in ciascuno di loro il gusto di ciascun ingrediente e l’unicità della loro forma, ma anche tutto ciò che ogni raviolo ci può raccontare. Un altro grande insegnamento di nonna Anna, forse quello più importante. Alla fine forse la cosa bella del fare a casa i ravioli a mano non è solo legata alla soddisfazione del produrli in sé ma – come per tutti i grandi amanti della cucina - al condividere il buono di questo momento con i propri cari. Regalando a voi e a loro la magia di quelle storie che porterete sempre con voi, di generazione in generazione. Proprio come i ravioli di nonna Anna…
  • 72. 728. NOI DUE – L’incontro
  • 73. 738. NOI DUE - L’incontro In quel campo io e te eravamo bambini. Ci eravamo trovati vicini in quella grande casa senza tetto e senza pareti. Ogni giorno lì insieme era sempre pieno di grandi e piccole meraviglie. Vicino alle colline e alla lunga strada grigia, quella che passava accanto agli altri campi vicino a noi, il sole e la luna illuminavano sempre le nostre giornate, come d’inverno così anche d’estate. Era lì che a volte il vento ci accarezzava e dolcemente ci faceva dondolare in piedi mentre tutti gli altri attorno ci guardavano, chi dall’alto chi dal basso. A me piaceva quel sole senza nuvole, a te quella brezza delicata che ogni tanto arrivava dal mare. A me piaceva dire arrivederci alle api, a te dire ciao alle farfalle. A me piaceva venirti vicino quando tornava l’aria della sera, a te aprire le tue braccia alla rugiada del mattino. Ma a tutti e due piaceva correre con le nostre sottili gambe lassù al confine tra terra e cielo, tra notte e giorno, tra nuvole e afa. Ti ricordi che - anche se tutt’attorno a noi le stagioni passavano sempre a salutarci – erano le nostre amiche cicale che tutti i giorni, all’ombra degli alberi vicino alla strada, restavano a cantare per noi fino a tardi? Sono quelli i ricordi che scorrono ancora dentro di me. E sono quelli che – adesso che ti rivedo – mi fanno rivivere tutto ciò che è successo e che forse ancora potrà succedere. Già perché è solo adesso che ho capito che - nonostante siano passati tanti anni - io e te eravamo nati lo stesso giorno solo per crescere ed aspettare questo momento. Non so se riuscirò a raccontarti tutto di quel giorno. Quando verso mezzogiorno sentimmo arrivare quel trattore sbuffante non potevamo sapere che di lì a poco quella strana macchina rotante ci avrebbe separato e mischiato assieme a tutti quelli che come noi erano su quel campo. E non so se riuscirò a farti capire quanto ti avessi cercato in mezzo a quella stanza buia in cui eravamo finiti, tutti uno sopra l’altro, per poi essere ancora portati via, verso altre macchine e altri strani luoghi. Ma adesso che ti rivedo so solo che sono di nuovo felice.
  • 74. 74 Come vedi io adesso ho la forma di un cilindro: sono elegante, ho tutt’attorno delle lunghe e belle righe, come quelle di un gessato. Tu invece vedo che sei diventata una farfalla: come quelle a cui ti piaceva dire ciao quando eravamo nel nostro campo! Adesso – dopo tanto tempo – eccoci ancora qui insieme, su questo piatto, con attorno un nuovo profumo, quello di chi – come noi – ha respirato lo stesso sole in un altro campo. Forse è per questo che anche lui ha il nostro colore, sebbene sia liquido e si chiami olio. E lo senti ancora venire da laggiù il canto delle cicale? Su questa tavola all’aperto, su questo piatto profumato, mentre ancora il sole ci saluta, guarda lassù le stelle: ecco che ci salutano ancora! E’ stata una magnifica serata, vero? - “Sì, e lo sarà ancora adesso che la forchetta qui accanto a noi ci accompagnerà a fare un altro viaggio: quello che alla fine ci riporterà alla nostra terra, di nuovo assieme, io e te, ”. Così disse la farfalla al rigatone...
  • 75. 759. (tu) _______________________________________ (il tuo nome) La “mia” Storia di Pasta! Ed eccoci arrivati al termine di questo nostro viaggio. E’ stato un piccolo viaggio in un grande mondo, quello della pasta, che in fondo se ci pensate bene è infinito quanto voi, i vostri gusti e la vostra fantasia. Ed è per questo che l’ultimo capitolo lo voglio dedicare proprio a ciascuno di voi, affinché ognuno possa raccontare la sua Storia di Pasta. Buon divertimento e – soprattutto - buon appetito! LA MIA STORIA DI PASTA LA MIA STORIA DI PASTA LA MIA STORIA DI PASTA LA MIA STORIA DI PASTA LA MIA STORIA DI PASTA
  • 76. 76 LA MIA STORIA DI PASTA LA MIA STORIA DI PASTA LA MIA STORIA DI PASTA LA MIA STORIA DI PASTA LA MIA STORIA DI PASTA Disegna o scrivi qui la tua Storia di Pasta
  • 77. 77 “La scarpetta” (Appendice) Invece per i “bucati” c’è all’interno del canale di formazione della pasta un’anima cilindrica con dei piccoli supporti che consentono la creazione della parte cava. Uscita dalla trafila, la pasta viene tagliata e – grazie ad un potente getto d’aria calda – viene eliminata dalla pasta ogni traccia di umidità superficiale per impedire che diventi appiccicosa nella successiva fase di lavorazione. Una volta essiccata, la pasta viene poi inviata in confezionamento e imballaggio. A questo punto è pronta per essere inviata ai supermercati e alle vostre tavole! 1. IL PROCESSO DI PRODUZIONE DELLA PASTA La storia della pasta che ogni giorno mangiamo a tavola inizia al Mulino, dove il grano arriva, viene pulito, condizionato, macinato in laminatoi e poi raffinato attraverso delle semolatrici. Una volta pronta, la semola viene mandata al Pastificio e, dopo una fase di analisi e controllo qualità, viene messa nei silos di stoccaggio. Semola e acqua vengono poi pre-miscelate in una centrifuga sottovuoto. L’impasto ancora farinoso passa in una zona di compressione e, una volta “gramolato” cioè reso omogeneizzato e compatto, viene diretto attraverso dei filtri alla fase di trafilatura per assumere la forma definitiva. Esiste una trafila diversa per ogni formato di pasta: per quella corta le trafile (fatte di bronzo e alluminio) di solito sono circolari, per quella lunga le trafile sono di solito rettangolari e la pasta viene creata comprimendo l’impasto attraverso i fori sugli inserti trafilanti.
  • 78. 78 2. Grano tenero o grano duro? Come la pasta, anche le specie del grano sono diverse: pur appartenendo alla stessa famiglia delle Graminacee i due generi Triticum turgidum (variante durum) e Triticum aestivum hanno infatti caratteristiche genetiche e morfologiche specifiche. Ad esempio mentre nel grano duro le reste che compongono le spighe sono di 20 cm, nel grano tenero queste ultime sono più piccole e hanno una lunghezza di 3-8 cm. Inoltre nel grano tenero il chicco è farinoso e di colore bianco, mentre nel grano duro – quello usato per fare la pasta - la semola ha un colore giallo ambrato. Lo sapete che in base alla Legge n. 580 del 1967 la pasta secca deve essere fabbricata solo ed esclusivamente con semola di grano duro?
  • 79. 79